giovedì 20 febbraio 2025

Bat-Man: Il Primo Cavaliere

La storia è ambientata in quel fatidico 1939 che vide la nascita di Batman (anzi, Bat-Man) su Detective Comics. Gli Stati Uniti sono ancora nella morsa della Grande Depressione mentre in Europa l’ascesa del nazismo fa già presagire una nuova guerra. A questo menu Gotham aggiunge anche le uccisioni di politici locali in maniera efferata. Batman è all’inizio della sua carriera: il commissario Gordon non si fida ancora di lui e in molti pensano sia solo una leggenda metropolitana.

La città si trova tra l’incudine di un malavitoso che agisce nell’ombra col nome di «Voce» e il martello di una banda di “uomini mostro” che a quanto pare sono cadaveri rianimati! Ovviamente tutti riferimenti a storie classiche di Batman, o così almeno ci vengono venduti.

Bruce Wayne deve anche vedersela con dei divi di Hollywood che protestano per l’apparente stop al film che dovevano girare, ma se all’occorrenza un’attrice si rivela una valida infermiera non c’è di che lamentarsi.

Il Primo Cavaliere è un noir con banditi spietati e pittoreschi, pestaggi sanguinolenti, ambienti sordidi, poliziotti razzisti, tenutari di bordelli con cui bisogna venire a patti… Un’attenzione quasi maniacale è stata dedicata alla ricostruzione degli anni ’30, di cui vengono passati in rassegna slang, architetture, film, canzoni, vestiti, pubblicità, automobili, programmi radiofonici e quant’altro. Il realismo si scontra un po’ con le incredibili performance di Batman, che sopravvive persino alla sedia elettrica (per quanto depotenziata), ma un po’ di sospensione dell’incredulità Dan Jurgens la merita: i dialoghi non sono male e soprattutto le vera identità della Voce è stata una sorpresa.

Mi resta il dubbio se il rabbino Cohen sia una citazione da vecchie storie o un’invenzione originale, ma poco importa.

Il formato del volume scimmiotta quello dei fumetti franco-belgi, ma siamo distanti da quella qualità. I disegni di Mike Perkins sono sicuramente belli, ma l’evidente ricorso a riferimenti fotografici toglie pathos alle scene in cui una faccia o una posa è sì “bella” ma fuori contesto. E probabilmente data l’atmosfera della storia ci sarebbe stata meglio un’inchiostrazione più contrastata. Ma questo è il meno: a smorzare di più l’efficacia delle tavole è l’uso del computer con cui sono stati realizzati sfondi e interni che somigliano drammaticamente a fotografie sovraesposte. Inoltre i colori al neon di Mike Spicer sono troppo garruli (quando entra in scena, anche Bruce Wayne/James Stewart è di un bel viola radioattivo come gli altri personaggi), e comunque per nulla in sintonia con la cupezza dell’ambientazione.

Fatte salve queste considerazioni, avercene altri fumetti di supereroi come questo.

lunedì 17 febbraio 2025

Wes Sherman: una stella al servizio della legge

Raccolta di episodi di una serie iniziata anni fa (quando di preciso non è dato sapere) che Raffaele Della Monica realizza per puro diletto, anche se la grande cura profusa lascia probabilmente intendere che l’obiettivo finale fosse l’edicola o la libreria e che invece finora, come detto nella divertente e filologica introduzione di Moreno Burattini, è stata solo diffusa parzialmente in forma privata ad amici. Wes Sherman è la quintessenza del western.

La prima storia, L’oro di Luke, vede il protagonista incaricato di raccattare i rapinatori che commisero una strage anni prima, in attesa che in città giungano anche il giudice che li processerà e l’unico testimone sopravvissuto. Il problema è che il Luke del titolo, convertito al banditismo dopo un’infruttuosa carriera di cercatore d’oro, è adesso il sindaco di Golden City e praticamente ogni uomo in città è ai suoi ordini (ma non le donne). Una trama da ultimo avamposto con il marshal Wes Sherman asserragliato in una camera d’albergo tra trattative e sparatorie.

Sulle tracce di Grey Wolf è una storia molto più articolata anche se dura 42 pagine contro le 53 de L’oro di Luke. Wes è sulle tracce della trafficante d’armi Judy Fernandez, ma nel quadro si inseriscono anche il suo fratellastro cacciatore di taglie, un mercante più o meno onesto, il reverendo McNeely e soprattutto l’incazzatissimo indiano del titolo. Tanta azione, personaggi molto ben delineati, approfondimenti sul mondo di Wes Sherman e colpi di scena: la prima impressione è che l’episodio avrebbe meritato qualche pagina in più, ma nei fatti il suo ritmo frenetico tiene incollato il lettore.

Come negare un
dito in più a
uno sceriffo?
Con State attenti a Jimmy Crawford assistiamo a un cambio di passo. Non tanto per la durata (solo 32 pagine) quanto perché Della Monica ha evidentemente fatto ricorso alla mezzatinta o forse al colore che poi in stampa si è tradotto in sfumature grigie. Le tavole, che qui già spesso hanno meno vignette, risultano anche un pochino vuote se confrontate con quelle degli altri episodi. La qualità di stampa ha risentito di questa scelta stilistica, e immagino che la storia abbia avuto una produzione un po’ travagliata visto che da un certo punto in poi il lettering non è più manuale ma digitale.

Lo spunto è un altro topos del western: un malvivente giunge nella città di Wes Sherman (dall’inconsulto nome di Lizard City!) per cercare vendetta contro l’uomo che anni prima gli uccise il fratello.

Si finisce in bellezza con La Promessa, in cui il padre morente di Wes gli impone di andare dai bellicosi Sioux a fingere che i militari vogliano parlamentare, in modo da ammorbidire il capo Volpe Furba e convincerlo a incontrare il colonnello Ross Brooks che, messo di fronte al fatto compiuto, si spera negozierà veramente la pace. Non so quanto questo soggetto sia credibile o se non rimandi a qualche film o fumetto, comunque mi è sembrato originale. Nefasti presagi e l’oltranzismo di Brooks impediscono comunque che le cose vadano come previsto, ma ad avere la peggio saranno i soldati assetati di sangue. Anche qui 32 pagine, ma belle dense.

La quintessenza del western, appunto, che omaggia gli stereotipi del genere ritagliandosi però qualche margine per una propria interpretazione personale.

La struttura scelta come base per le tavole è la gabbia bonelliana, anche se Della Monica si concede spesso delle deroghe. La grafica del titolo di L’oro di Luke è un chiaro omaggio a quella di Corteggi. Lo stile di disegno nelle prime due storie è secco e rigoroso: il tratto non è quasi modulato e viene integrato dall’uso sapiente del chiaroscuro. Mi si perdoni il calembour, ma con questo stile “granitico” gli sfondi rocciosi sono resi magistralmente. Anche se, onore al merito, Della Monica è molto bravo anche a disegnare gli animali.

Come accennavo sopra, la terza storia è stata realizzata invece integrando il tratto (più sintetico) con chine o acquerelli e probabilmente per questo in fase di stampa si è rivelata quella riprodotta peggio. Nella quarta, invece, Della Monica sfodera un tratto più modulato ed espressivo, forse a seguito dell’adozione del pennello in vece del pennino. Oltre alla prova di versatilità, i suoi pregi rimangono intatti.

Il lettering è stato realizzato a mano (con l’eccezione ricordata sopra): scelta lodevolissima, ma l’uso delle virgole è talmente eclettico da costringermi a rileggere alcuni dialoghi per capire cosa volevano dire.

La qualità di stampa di questo volume cartonato è impeccabile, salvo dove indicato. Di certo sarà molto gradito agli estimatori del western e/o dell’autore, anche se il prezzo di 29,90 euro potrebbe scoraggiare qualche potenziale lettore.

venerdì 14 febbraio 2025

Batman/Scooby-Doo! volume 2: Il Mistero dei Cani Scomparsi

Seconda uscita per questa collana extra-large dedicata ai team-up di Batman con la banda di Scooby-Doo. Come intuibile dal titolo, la scelta degli episodi stavolta ha privilegiato quelli per così dire cinofili.

La prima storia è scritta da Ivan Cohen e disegnata da Dario Brizuela, illustratore di tutti e tre gli episodi. A Gotham verrà tenuta una mostra canina e sia Scooby-Doo che Asso il Bat-segugio sono tra i giudici. Il secondo sembra essere stato preso di mira da un villain con la fissa del doppio, tanto che i suoi sgherri sono due gemelli. La spiegazione di questo interesse per il cane di Batman poggia su una caratteristica dei pastori tedeschi che ignoravo.

Come da titolo del volume, nella seconda storia Scooby-Doo e Asso vengono rapiti: non sono i soli e anzi c’è stata una moltitudine di rapimenti canini, orditi da un pittoresco villain che in fondo è naturale prenda di mira i cani. Alfred e Catwoman contribuiscono a risolvere il caso. Stavolta ai testi c’è Sholly Fisch.

L’ultima storia è nuovamente scritta da Ivan Cohen e riguarda il misterioso piano di una miliardaria per rinnovare la zona del porto di Gotham. Lo scontro finale avverrà nel luna park costruito da Joker e Harley Quinn (che paradossalmente hanno riqualificato la zona meglio di quanto abbiano fatto politici e filantropi!) ma un altro pittoresco e misconosciuto villain della cosmologia batmaniana ha la sua parte.

La ricetta è sempre quella: storie semplici ma originali e ben costruite (i bambini non li incanti coi drammi esistenziali da graphic novel), grande scrupolo filologico per la continuity di Batman e dialoghi divertenti, non disegnando dell’autoironia sulla struttura stessa della serie.

mercoledì 12 febbraio 2025

Yokai Hunters Society

Già citato casualmente in Choro Gaiden, perlomeno nella sua versione italiana, Yokai Hunters Society è un altro gioco di ruolo più o meno indie edito da MS Edizioni. L’ambientazione, la struttura e le meccaniche sono piuttosto classiche, vivaddio.

L’epoca Meiji ha portato in Giappone un forte impeto di modernizzazione e una certa apertura ai “barbari” occidentali, ma è anche stata testimone del proliferare degli yokai, mostri dalle forme e dalle caratteristiche più varie. Non che siano tutti necessariamente cattivi, ma a ogni buon conto è stata istituita già in tempi remoti la società di cacciatori di mostri del titolo. Costoro (ovvero i personaggi giocanti) intervengono laddove richiesto mascherati alla bisogna, ma non sono avventurieri a tempo pieno. All’inizio bisogna infatti determinare la professione del personaggio, che si può scegliere ma che è più divertente determinare a caso. Per farlo, e per vedere anche i tratti della personalità, si lanciano 4 dadi da 6 e si somma il risultato. In questa maniera la ferrea spietatezza Gaussiana renderà assai poco probabile che vengano fuori mendicanti (4) oppure funzionari pubblici (24) ma non sono poi così improbabili combinazioni buffe come cuochi (14) ventiduenni (6) meschini (13) e crudeli (19) o soldatesse (16) cinquantenni (20) avide (17) e sleali (11).

Il giocatore sceglie poi come distribuire quattro punti tra le quattro caratteristiche («Sentieri») che rappresentano le capacità del personaggio e che possono influire sui Punti Salute e sulla Resistenza alle Maledizioni. Per finire, il lancio di 2 dadi da 8, anche qui da sommarsi, determina parte dell’equipaggiamento.

La meccanica di gioco è molto semplice: per riuscire nelle prove che verranno richieste bisogna ottenere 10 o più col lancio di due dadi, cui vanno sommate le variabili del caso come i punti attribuiti al Sentiero messo alla prova o l’uso di oggetti ad hoc. Laddove sia giustificato dal background del personaggio la prova può essere fatta con vantaggio, cioè tirando un dado in più e scartando il risultato più basso, ma qualora le circostanze lo suggeriscano è anche possibile che la prova sia fatta con svantaggio e allora dai tre dadi tirati si toglie quello più alto. Un 9 è sempre un successo ma, siccome in Giappone quel numero porta sfiga, al successo deve accompagnarsi un evento negativo. Durante i combattimenti, il livello dell’avversario si somma al 10 per determinare la difficoltà nel colpirlo (o a seconda dei casi per ingannarlo, scappare, ecc.). Come detto dall’autore (o autrice) Chema González, non è facile soprattutto ai livelli bassi ottenere dei successi e forse anche per questo è stata introdotta l’opzione di ricorrere al «dado maledetto», un d8 da lanciare insieme ai d6 tenendo i due risultati migliori. Se però questo dado aggiuntivo dà come risultato un numero superiore al valore di Resistenza alle Maledizioni del personaggio, che non può mai superare 4, allora la Resistenza cala di un punto e se tocca quota 0 i prossimi tiri si faranno con svantaggio finché un opportuno rituale di purificazione (mai gratuito, si capisce) non ovvierà alla situazione.

Come nei giochi di ruolo classici, anche qui si sale di livello o per meglio dire si potenzia il proprio personaggio, che ad ogni missione riuscita ottiene due punti da spendere in Sentieri, Punti Salute e/o Resistenza alle Maledizioni fino a toccare i massimi consentiti. Buona la gestione dell’ingombro: prima di subire penalità si possono portare fino a otto oggetti; l’eterogeneità delle dimensioni può far apparire ridicola questa regola (una scatola di fiammiferi “peserebbe” come una katana!) ma come meccanica di gioco mi sembra che funzioni bene.

Le dinamiche molto semplici ma funzionali e l’ambientazione suggestiva e apparentemente frutto di un’attenta documentazione rendono Yokai Hunters Society un gioco molto interessante che non si esaurisce necessariamente in un’unica sessione tanto per provare qualcosa di diverso ma può portare anche a campagne articolate. Oltre a un bestiario relativamente corposo (11 pagine su 36 totali) il manuale di base presenta anche un generatore casuale di missioni. Ciliegina sulla torta, Chema González è anche illustratore (o illustratrice) e pur con inevitabili influssi manga i suoi disegni non sono niente male.

La mia copia è una seconda ristampa datata gennaio 2024: evidentemente un qualche riscontro deve averlo avuto, come testimoniato anche da due uscite collaterali ovvero la Guida Pratica agli Yokai (bestiario di 56 pagine in bicromia, nero e rosso, con caratteristiche per impiegarlo anche nei giochi OSR che fanno il verso al Dungeons & Dragons classico) e lo spillatino Neve con una bella avventura facilmente adattabile ad altri giochi. Neve è ispirata a uno degli episodi di Sogni di Kurosawa che però non ricordo minimamente.

lunedì 10 febbraio 2025

Vita da cani

Volumone che raccoglie i 37 episodi della serie di Sclavi e Gavioli transitata su Il Giornalino. La cura editoriale è quella a cui ci ha abituati Allagalla: oltre all’introduzione di Guarino & Pollone vengono presentate due testimonianze di Claudio Nizzi e dello stesso Sclavi e un’analisi della serie a cura di Dino Aloi. L’attenzione filologica contempla anche il recupero, tra le altre cose, di un cruciverba dedicato alla serie e un omaggio grafico di Franco Oneta, oltre che la cronologia di tutti gli episodi da cui si evince che la serie ebbe una vita editoriale tormentata e una pubblicazione eclettica: ai tempi del suo esordio nel 1984 venne presentata con frequenza per poi fare solo sporadiche apparizioni finché nel 1990 ne venne ripresa massicciamente la pubblicazione con una raffica di 14 puntate consecutive, rimandando gli ultimi due episodi solo al 1992. Non ne viene svelato il motivo, ma immagino che la serie rimase congelata per un po’ come testimonierebbe anche una citazione/parodia di Drive In nel 1992, quando la trasmissione di Antonio Ricci non era più d’attualità.

Il protagonista è Bobò, un cagnone randagio con berretto e scarpe da ginnastica. Tra i primi comprimari figurano Ciompo, cane attempato che lascia a metà le perle di saggezza che vorrebbe ammannire, il cane barzellettiere Valerio a cui viene sempre impedito di raccontare la barzelletta del portiere e Guglielmo, che fraintende le domande e va con la memoria a fatti lontani.

Gli episodi ruotano attorno ai tentativi di Bobò di trovarsi un lavoro ma possono anche contemplare altri temi come un piano per farsi adottare da una famiglia oppure il ritrovamento di un cucciolo o ancora le inconsuete usanze canine della Città Vecchia. Non mancano personaggi umani, sempre visti ad altezza di cane, come l’industriale Signor Tubi e l’impiegato dell’ufficio di collocamento. Ammiccamenti al lettore sono comuni e non mancano trovate deliziosamente surreali come una fabbrica che produce sia automobili che dolci, con i prevedibili effetti indesiderati se si scambiano gli “ingredienti”.

Vita da cani si basa su uno schema abbastanza fisso e soprattutto sulla ciclicità dell’interazione dei personaggi, tanto che Nizzi nella sua introduzione si rammarica di quanto una serie basata su tormentoni come questa avrebbe beneficiato di una pubblicazione più ravvicinata che non le venne concessa.

Progressivamente, però, qualcosa cambia. Gli umani spariscono dal quadro (eccezion fatta per marito e moglie che commentano da casa le bizzarrie dei cani battibeccando tra di loro) e arrivano nuovi personaggi quali il colonnello Bravacci intriso di retorica militarista, il vu cumprà Timbuctù, il russo (che poi non lo è) Vassili mentre figure prima sullo sfondo come il «deficiento» Michelangelo acquistano maggiore rilevanza. Valerio riesce addirittura a raccontare per intero le sue barzellette, e Ciompo non ripete più «ma va’ là».

Da circa metà serie le storie non si possono quasi più definire tali, ma sono solo un accumulo di gag senza soluzione di continuità. Anche il desolato Bobò confida ogni tanto al lettore che rinuncia a capirci qualcosa. Si ride ancora, ma purtroppo Vita da cani diventa ripetitiva tanto più che Sclavi ricicla le stesse battute e addirittura lo stesso titolo in episodi diversi. Come ricordavo sopra, la serie conobbe una pubblicazione che alternò momenti di presenza continuativa ad altri in cui quasi sparì dalle pagine de Il Giornalino. Ignoro se altri impegni di Gavioli possano aver influito sulla sua realizzazione o se come a volte succede certe tavole finirono sepolte nei cassetti della redazione per poi rispuntare fuori anni dopo (il caso del cane Vassili presentato ufficialmente solo molti episodi dopo la sua comparsa effettiva farebbe propendere per questa ipotesi) ma potrebbe anche darsi che al Giornalino non avessero gradito questa accelerazione verso il nonsense e solo grazie al prestigio dato dal successo di Dylan Dog avessero poi deciso di dare seguito a Vita da cani.

I disegni di Gino Gavioli sono molto schematici e per nulla modulati, rimandando un po’ all’estetica dei cartoni animati di Hannah e Barbera. Il risultato non è affatto male, però, anche in virtù delle soluzioni grafiche adottate per gli sfondi – vedi gli alberi, come ricordato da Aloi.

La qualità di stampa non è ottimale (come detto nell’introduzione di Guarino & Pollone, la riproduzione è stata fatta a partire da precedenti edizioni: Il Giornalino e uno speciale ricolorato) ma sicuramente più soddisfacente che in altri casi. Più che altro sono i colori a risultare un po’ sacrificati, anche se non mancano occasionali tratti pixellati, per fortuna non così diffusi.

sabato 8 febbraio 2025

Dylan Dog Color Fest 52: Non vale se non hai paura

Come riportato nell’introduzione di Barbara Baraldi questa è la prima volta nella sua quasi quarantennale storia che Dylan Dog affronta Spring-heeled Jack, che d’altra parte è un personaggio poco conosciuto della cronaca (o del folklore?) londinese.

In un’esclusiva scuola privata si verificano casi di bullismo piuttosto pesanti ma a vendicare le vittime interviene un tizio con un travestimento steampunk che omaggia l’uomo-pipistrello Jack il Saltatore di vittoriana memoria, a sua volta un giustiziere popolare secondo alcuni. Siccome la nuova fiamma dell’Indagatore dell’Incubo ha un figlio che frequenta proprio quell’istituto Dylan Dog indaga da par suo mentre genitori e istituzioni sono per una volta alleati pur di evitare scandali.

Giovanni De Feo affronta un sacco di argomenti (bullismo, fake news, social network, classismo, metodi educativi, vigilanza privata, cluttering…) e li comprime in un whodunit con troppi personaggi e troppe piste per non risultare frenetico e ubriacante racchiuso in solo un centinaio di pagine. C’è pure una retcon su un caso di Dylan Dog a Scotland Yard, riguardante proprio un atto di bullismo. I disegni, per quanto belli, non aiutano a raccapezzarcisi di più.

Arturo Lauria, con evidenti influssi pop, mi ha ricordato il Corben di Cage e di Hellblazer, anche se più realistico: le figure hanno dei contorni marcatissimi, ombreggiature pesanti e del pointillisme a tirar fuori i volumi. Espressività e dinamismo sono quindi assenti. Anche le sue scelte cromatiche, giustamente definite «audaci e ipnotiche» dalla Baraldi, richiedono al lettore di focalizzare meglio qualche tavola per distinguere scene e personaggi.

giovedì 6 febbraio 2025

Hexagon Bridge: Orizzonti Obliqui

Bella la confezione, quantomeno suggestivi i disegni: ho voluto provarlo.

La storia è ambientata a metà del 41° secolo: sulla Terra è stato individuato un portale verso un’altra dimensione battezzato “il Ponte” e una coppia di cartografi è andata dall’altra parte per vedere cosa c’è, solo che i due sono scomparsi senza dare più notizie. Se non altro Gerardus, il tizio robotico che invita i viandanti nel suo palazzo, si è mostrato amichevole.

Passano gli anni e la figlia telepate della coppia, Adley, finisce l’addestramento con cui sviluppa un legame psichico con Staden, un evolutissimo robot che è in grado di attraversare gli “spazi tettonici” e quindi di andare dall’altra parte. L’idea è quella di guidare Staden da remoto per trovare i suoi genitori ma nel corso di una simulazione appare Gerardus, quindi Adley decide di anticipare i tempi e partire anche lei fisicamente verso l’ignoto.

Staden va in avanscoperta e fa vari incontri bizzarri, non tutti amichevoli, finché il rinvenimento di una fotografia fa intuire ad Adley che è giunto il momento anche per lei di partire. E così arriviamo al disvelamento finale del retroscena.

Hexagon Bridge è un fumetto ambizioso che forse non mantiene proprio del tutto quello che promette – o sembrava promettere, magari ero io ad avere troppe aspettative. Fortunatamente non ci troviamo di fronte a un’altra storia che si arrotola su se stessa, ma mi pare che i debiti forse involontari con altre opere di fantascienza come Solaris (il film di Tarkovskij, ché il romanzo non l’ho letto) siano evidenti. L’inflazione di sequenze mute basate sugli effetti grafici (digitali, ahinoi) rende poi la lettura molto veloce.

Credo che Richard Blake abbia voluto distanziarsi il più possibile dai classici comic book, sia come ritmo degli episodi che presentano capitoli anche molto brevi e praticamente nessun cliffhanger (che si tratti di una sceneggiatura cinematografica riciclata?) sia soprattutto nel formato che non adotta la diagonale del 17x26. Mi pare evidente che gli piaccia il fumetto franco-belga di cui ha ripreso lo stile di disegno e colorazione. Purtroppo il suo tratto piuttosto grasso non ammette tratteggi e quindi non invita ad ammirare dettagli che difatti non ci sono. Le città volanti di Moebius, tanto per citare un’altra evidente ispirazione, facevano tutto un altro effetto.

Ciò detto, non si tratta sicuramente del classico fumetto che ci si aspetterebbe da un autore statunitense: accompagna per mano il lettore senza inutili fronzoli d’impatto e la pressoché totale assenza di violenza è una trovata quasi spiazzante da tanto è rara.