martedì 30 novembre 2010

Luis Garcia Duran

La notizia della sua morte risale già a qualche giorno fa, ma non riuscivo ancora a capacitarmene. Solo pochi giorni prima ci eravamo sentiti e mi aveva accennato ai suoi progetti.

Hola Luca,todo bien, gracias.Aurea tiene capítulos de Yaqui y Quentin con guión de Schimp que están listos para publicar,  no se cuando serán programados.Yo inicio una nueva serie la próxima semana ,sera otro personaje femenino con guion y dibujos propios.
Felicitaciones por el blog ,lo anunciare en el mio.
             Un gran saludo, Luis
Mi mancherà molto, e sicuramente non solo a me.
                              

lunedì 29 novembre 2010

Richard Corben (originariamente presentato su Fucine Mute 20)

Lo straordinario mondo di Richard Corben

Quando si pensa al fumetto underground (quel fenomeno nato in California in piena era psichedelica, che vedeva il sesso, la droga, il misticismo e certi virtuosismi da pittori naif entrare nel mondo della letteratura disegnata) possono venire alla mente molti nomi, tanto seguita e variegata fu questa corrente contestataria: Gilbert Shelton, Robert Crumb, Spain Rodriguez, Rand Holmes, Vaughn Bodè…Alcuni ebbero il loro effimero momento di gloria, altri sono stati assorbiti dal fumetto mainstream, altri ancora sono morti. Ben pochi sono riusciti ad imporre il loro stile e a farlo sopravvivere fino a diventare icone viventi di quella stagione ed esempi per le generazioni future di disegnatori. Il più valido esponente di questa tendenza, uno dei rarissimi disegnatori che hanno continuato a produrre ottimo materiale senza dover scendere a (troppi) compromessi è senza dubbio Richard Corben.
Nato nel 1940 nel Missouri, si forma professionalmente come animatore presso le Kalvin Productions di Kansas City e solo successivamente volge il suo interesse al mondo dei fumetti. L’occasione gli si presenta intorno al 1968, quando realizza un film animato che riscuote un buon successo e anche alcuni premi alle convention, di cui decide di realizzare una riduzione a fumetti (http://www.youtube.com/watch?v=j4H0HhSlMm8). Il protagonista è un culturista calvo che vive bizzarre avventure in mondi lontani: sono insomma le premesse per il futuro personaggio di Den, cui sarà indissolubilmente legato il nome di Corben. Arrivando al fumetto in età piuttosto matura, Corben ha modo di inserire in questo medium tutte le esperienze precedenti e quindi di costruirsi in breve una solida fama di innovatore e sperimentatore. Abbraccia tutta la gamma delle possibilità editoriali statunitensi esterne al mercato dei supereroi: fanzine, riviste underground, le ribelli ed anticonformiste pubblicazioni della Warren.
Lo stile di Richard Corben è molto caricaturale e, quando richiesto dalla storia, estremamente enfatico: i suoi personaggi sono solitamente degli statuari ammassi di muscoli e le figure femminili che compaiono nelle sue opere hanno sempre delle silhouette da dee della fertilità. Universalmente associato all’uso dell’aerografo, in cui in effetti eccelle (si tratta di una sorta di penna ad aria che spruzza il colore sulla carta ottenendo bellissimi effetti sfumati), ha realizzato anche molti fumetti al tratto con pennino e pennello, si è servito dei retini tipografici e, in anni recenti, ha impiegato massicciamente la computer grafica nella creazione dei suoi disegni.
Molto quotato anche come illustratore e copertinista (in particolar modo di dischi), ha disegnato inizialmente le storie di alcuni tra i migliori sceneggiatori americani degli anni ’70 (quali Bruce Jones e Doug Moench) per poi limitare le collaborazioni ai testi quasi ai soli Simon Revelstroke, Jan Strnad e Richard Margopoulos.
In Italia è stato pubblicato (tralasciando una clandestina apparizione su Cannibale) dalla Milano Libri, dalle Edizioni Il Momento, dalla Nuova Frontiera e soprattutto dall’Eternauta in entrambe le sue versioni, Edizioni Produzioni Cartoons e Comic Art.

Richard Corben è una figura ormai tristemente simile ad altri Autori quali [in origine comparivano i nomi di due autori oggi deceduti e di un altro che non merita di essere menzionato]. Come questi suoi colleghi europei, ha avuto una carriera ricca di successi e soddisfazioni, ha rappresentato un tipo di fumetto decisamente innovativo e impegnato e, al lento morire dell’interesse per il fumetto d’autore, si è ripiegato su altre attività o su progetti assolutamente slegati dalla sua personalità. Questa situazione piuttosto statica ci permette però almeno di guardare all’opera dell’Autore nel suo complesso, come qualcosa di irripetibile e concluso.
Il Corben più autentico (quello che “esplode” con Den dopo la collaborazione con la Warren) realizza delle storie decisamente lineari in cui anche voltafaccia e colpi di scena seguono dei precisi, semplici, criteri: ciò che riveste il ruolo più importante nei suoi fumetti è il “sense of wonder”, supportato e messo in risalto dai suoi ammalianti virtuosismi grafici. Indipendentemente dal loro autore (sia lo stesso Corben, Simon Revelstroke o scrittori “cannibalizzati” come Poe e Howard), i testi assumono un’importanza decisamente minore rispetto al goliardico sostrato “radical” che permea le vicende narrate e sfocia in un edonistico quanto ironico culto del bello esasperato.
Corben non è un naturista ma le sue parate di corpi nudi e perfettamente armoniosi, pur nella loro deformata rotondità, nascono comunque da una filosofia di vita. Le fattezze di Den, in particolare il fatto che è calvo, nascono con l’intento di creare un personaggio “neutro” in cui chiunque possa vedere proiettata l’immagine ideale di sé indipendentemente dall’appartenenza etnica. La bellezza che assurge quasi a ideale nasce senz’altro da un contesto molto “disinibito” di Controcultura ma anche dal mondo classico. Non a caso i muscoli degli eroi e le forme delle eroine suscitano una forte impressione di vitalità e sono decisamente ben proporzionati nella loro esagerazione. Un seno, un bicipite o un polpaccio non sono in Corben degli elementi fissi nel loro statuario ma sono sempre sodi e tesi. D’altronde se Corben non avesse veramente amato il suo lavoro e non avesse voluto farne un manifesto della propria visione ideale della vita e della bellezza non si spiegherebbe l’accuratissimo sistema di disegno impiegato, che rasenta la follia.
Corben si serve inizialmente di modelli in carne ed ossa (in seguito anche di fotografie) da cui trae spunti e soluzioni per molte pose, ma al momento di dare corpo ai suoi disegni realizza quattro copie diverse, una per ogni colore tipografico, delle tavole da stampare. Il processo di stampa a colori richiede infatti la scomposizione dell’immagine disegnata in quattro “calchi” (il nero più i colori primari cioè giallo, cianino e magenta) che una volta sovrapposti si mescoleranno nella percezione ottica fino ad ottenere ogni sfumatura possibile. Realizzare in partenza una copia di ogni colore permette di risparmiare tempo e di ottenere un effetto molto vivo e brillante (come ben sapevano Michael English, Rick Griffin e gli altri artisti dell’era psichedelica).
E’ quindi accompagnato da questa strabiliante tecnica che Corben esce allo scoperto in tutto il suo splendore prendendo saldamente in mano le redini dei testi e firmandosi definitivamente come Richard, o al massimo Rich, Corben (prima alcuni suoi lavori venivano siglati con pseudonimi quali “Harvey Sea” o “Gore”): da Den  in poi e per quasi tutti gli anni ’80 l’autore del Missouri diventerà un vero e proprio maestro e uno di quegli artisti che saranno più determinanti per lo stimolo alla nascita del fumetto d’autore (non a caso sarà Metal Hurlant ad ospitare le sue spettacolari tavole).
Den è una serie dalla gestazione piuttosto lunga e anche un po’ difficoltosa. Le novantasei pagine (centoquattro con l’epilogo) del suo primo ciclo di storie, Viaggio nel paese di Giammai, hanno richiesto quasi cinque anni per essere realizzate compiutamente ed il primo episodio era ancora fortemente legato agli stilemi deformati dell’underground e privo della profondità quasi tridimensionale degli episodi successivi. Forse alcune immagini sono anche dovute alla collaborazione di un assistente; un episodio presenta infatti come firma «Arnold & Corben». Nel secondo ciclo di storie dedicate al culturista calvo, Muvovum, i disegni avrebbero subito un’ulteriore e decisiva impennata.

Den è servito da modello, se non per la trama almeno per l’atmosfera generale, per molti altri lavori, alcuni dei quali in collaborazione con altri sceneggiatori: Bloodstar, Pilgor, Jeremy Brood, Mutant World, ecc. Riducendo all’osso i contenuti di queste opere si nota come alcuni temi siano delle vere e proprie costanti della poetica corbeniana: il mondo alieno e ostile, in cui spesso convivono elementi fantascientifici e altri mutuati dal genere fantasy, il protagonista “diverso” e deriso (perché straniero, ingenuo o semplicemente invidiato), la donna come figura fondamentale nello sviluppo e talvolta nella risoluzione della vicenda, quando non ne è addirittura il motore. Ognuno di questi elementi viene dosato e miscelato a seconda delle necessità, abbondando da una parte in rimandi fantascientifici, premendo dall’altra sulle situazioni umoristiche e così via.
Ciò che affascina maggiormente del lavoro di Corben è comunque l’eccezionale forza evocativa che pulsa dai suoi disegni, un vero inno alla fisicità che trova la sua espressione migliore più nei densi impasti delle tempere che non nelle brillanti trasparenze dell’aerografo (che è comunque un elemento basilare del suo stile).
Come ebbero modo di rilevare vari critici, è sovente lo sfondo ambientale a costituire l’aspetto più coinvolgente delle storie di Corben. Cioè quello che più calamita l’attenzione del lettore e fa volare la sua fantasia sono le brughiere riarse, le foreste carnose, le ancestrali rovine, le cupe cittadine e l’eterogenea fauna semi-umana che si aggira in questi luoghi. Forse l’incanto è destinato a svanire subito dopo la lettura ma la forza d’attrazione che esercitano quelle immagini è irresistibile.
Richard Corben è ancora oggi presente sulla scena fumettistica mondiale ma ormai i meravigliosi disegni con cui è entrato nella storia del fumetto hanno trovato dimora stabile solo su copertine ed illustrazioni, che realizza peraltro sempre con minor frequenza e incisività. La “svolta” verso la semplificazione dello stile a colori si è avuta alla fine degli anni ’80 e lo spartiacque di questa sua produzione è senz’altro la ripresa di Den realizzata in collaborazione con Simon Revelstroke. Abbandonata la folle tecnica di disegno che lo impegnava su quattro versioni della stessa tavola contemporaneamente, i suoi personaggi sono ora dei classici contorni neri riempiti di colore. Questo ritorno ai fondamentali non è privo di un suo fascino e bisogna ammettere che alcune soluzioni cromatiche sono particolarmente felici (soprattutto quelle che riguardano la lucentezza dei volti) ma siamo ben lontani dalle figure tridimensionali che costellavano i primi lavori. In questo nuovo Den ci sono delle immagini riprese più o meno fedelmente dal primo episodio e da un confronto tra i due il secondo risulta schematico, affrettato e… censurato! Nonostante  Den venga comunemente citato come “fumetto in cui tutti i personaggi sono nudi”, in realtà non è così e basta dare una scorsa a Viaggio nel Paese di Giammai per rendersene conto: la nudità non costituiva certo un problema per Corben, ma neppure una regola fissa irrinunciabile. Nel riprendere alcune sequenze della storia delle origini, Corben ha annerito o coperto le parti anatomiche più “pericolose” e per un appassionato questo costituisce un brutto colpo basso… Molto indicativo del “nuovo corso” di Corben è il fatto che la copertina del nuovo Den sia stata realizzata quasi interamente con il solo aerografo. Lo stanco e grasso protagonista di queste nuove storie diventa quasi una impietosa parodia del suo Autore.

Ci vorrà un po’ di tempo prima che Corben ritorni ad affascinare come agli esordi, il tempo necessario alla computer grafica di raggiungere una resa artistica soddisfacente. I migliori tra i suoi ultimi lavori sono infatti senza dubbio quelli in cui si serve abbondantemente del computer per ottenere maggior realismo ed “effetti speciali”, ma bisognerà comunque aspettare qualche anno e molti tentativi dalla dubbia riuscita prima di poter gustarsi qualche rara tavola a fumetti degna del glorioso passato.
Richard Corben è rintracciabile ancora oggi su alcune pubblicazioni americane che, tradotte o semplicemente importate, sono arrivate o arriveranno anche nei nostri comic shop. Si tratta ormai di collaborazioni con le sole case editrici Dark Horse e D. C. comics che, per quanta qualità possano garantire, non raggiungono certo l’eccellenza e la forza dirompente dei lavori indipendenti degli anni ’70 e ’80 [la situazione è radicalmente cambiata in dieci anni e ora Corben realizza fumetti principalmente per la Marvel]. Basta sentire quello che dice lo stesso disegnatore in un’intervista alla rivista Heavy Metal del novembre 1997: “Ti viene richiesto di fare le cose molto più velocemente. Credo di considerarlo un affare più oggi che in passato. […] Quando ho cominciato a fare fumetti, li facevo perché lo volevo e se ci guadagnavo qualcosa tanto meglio. Se non ne ricavavo nulla, beh, li facevo lo stesso. Oggigiorno mi sembra di essere costretto a raggiungere una quota finanziaria.”
Se quindi qualcuno è interessato ad avvicinarsi allo “straordinario mondo” di Richard Corben il meglio che può fare è dedicarsi alla ricerca delle sue vecchie opere nei negozi specializzati. Per agevolare almeno un po’ il compito ecco qualche breve appunto:

Nota bibliografica & collezionistica

In Italia di Corben sono state pubblicate migliaia di tavole, principalmente sulle riviste Alterlinus e L’Eternauta, ed anche i volumi interamente dedicati alla sua opera sono una discreta quantità.
Le Edizioni Il Momento hanno pubblicato (e ripubblicato: fu un buon successo) Mondo Mutante nella collana “I Protagonisti del Fumetto Mondiale”; non dovrebbe essere impossibile trovarlo nei negozi specializzati, anche ad un prezzo accettabile.
La Rizzoli - Milano Libri ha dedicato tre libri  della sua bellissima serie di cartonati neri ad alcuni lavori fondamentali di Corben: Den - Viaggio nel Paese di Giammai, Den 2 - Muvovum e Bloodstar.
Le Edizioni Nuova Frontiera hanno presentato cinque volumi dedicati a Corben: nella “Collana Umanoidi” sono apparsi Le Mille e Una Notte, Il Mondo Straordinario di Richard Corben e Notti Bianche; la “Collana Nera” ha ospitato invece La Trilogia del Tempo e Sudori Freddi. Solo nel primo di questi libri si trova una serie lunga, gli altri si limitano ad antologizzare miniserie e storie autoconclusive alcune delle quali già apparse su rivista (desta un certo interesse vedere in Sudori Freddi la versione integra di Mangle Distruttore di Robots, precedentemente censurata su Alterlinus come ebbe modo di dimostrare Stefano Tamburini su Cannibale).

Anche la Casa Editrice Comic Art ha dedicato alcuni volumi alle storie di Corben, nella collana “Best Comics” (albi brossurati dal costo contenuto). Si tratta di Jeremy Brood - Relatività, Figli di un Mondo Mutante, Den, Den: Elementi e Den: Figli del Fuoco (questi ultimi tre non sono ristampe del primo Den ma fanno parte del “nuovo corso” dell’eroe).
Infine, Gli Editori del Grifo hanno pubblicato Vic & Blood nella collana “Nuova Mongolfiera”. La storia, tratta dall’opera di Harlan Ellison, era stata presentata a puntate sull’Eternauta ma un buon mezzo centimetro della parte inferiore della tavole era stato tagliato.
Il progetto degli Editori del Grifo di una monografia dedicata a Corben nella collana “L’Autore e il Fumetto” è rimasto, appunto, solo un progetto.

sabato 27 novembre 2010

Les 7 Vies de l'Épervier (originariamente apparso su Fucine Mute 44)

A caccia di Sparvieri

Le “commedie umane” di balzachiana memoria che si sviluppano per decenni e sono composte da tante realtà più o meno piccole e più o meno autonome non sono rare nello sterminato mondo dei fumetti. D’altronde, essendo figlia degenere (anche) del feuilleton ottocentesco, la letteratura disegnata si presta a un approccio partenogenetico che può anche arrivare ad assumere toni da soap opera. Da una parte e dall’altra dell’Oceano non mancano esempi, eppure uno solo tocca vette di qualità e consapevolezza tali da non sfigurare accanto alla Comedie Humaine vera e propria.
Guarda caso, tutto ha inizio in Francia e i creatori di questo universo sono due autori operanti nel colto e stimolante ambiente della bédé francobelga. L’anno è il 1978: l’ubriacatura per il fumetto sperimentale e “liberato” di Metal Hurlant sta cominciando a scemare ed il riflusso della struttura classica sta per prendere il sopravvento sull’improvvisazione grafica. A poco a poco torneranno le “storie” che, ancora influenzate dalla nuova visione adulta del fumetto, potranno finalmente indirizzarsi ad un pubblico non più composto solo da adolescenti. Ed anche su una rivista “per ragazzi” c’è posto per qualche innovazione grafica e contenutistica.
Masquerouge inizia le sue avventure proprio su una di queste, la gloriosa Pif-Gadget: è una serie a episodi autoconclusivi (calibrati però in modo tale da poter figurare poi sui classici albi da 46 tavole) e pur nell’ordito classico e fortemente ripetitivo delle sue storie sfoggia ampi margini di inventiva e originalità. La baronessa Ariane de Troïl ha il vezzo di travestirsi con maschera e mantello rossi e di raddrizzare in tal guisa i torti cui periodicamente le tocca assistere. Germain, un omaccione grasso e bonario, le fa da paggio e maestro d’armi e, ignaro della sua doppia identità, talvolta le busca per lei. Il teatro delle avventure è quasi esclusivamente la Parigi del 1624.


Il disegnatore, André Juillard, matura a vista d’occhio e quando Masquerouge termina è ormai un valido professionista dal tratto pulitissimo, privo degli orpelli barocchi della sua prima produzione. Patrick Cothias, lo sceneggiatore, sa calibrare con maestria azione serrata e momenti più rilassati, quasi umoristici, mentre la sua vena più letteraria avvince e incuriosisce il lettore proponendogli alcuni misteri da svelare e inserti aulici che contribuiscono molto all’atmosfera della serie. Serie che si conclude nel 1982 e di cui rimangono tre volumi cartonati editi da France-Loisirs e ristampati in seguito da Glenat.
Proprio per Glenat, sempre nel 1982, Cothias e Juillard tornano a lavorare sui personaggi di Masquerouge. Se qualche anno prima la “grande narrazione” stava lentamente rifacendo capolino in un panorama segnato dalla “fantasia al potere”, nei primi anni ’80 si può dire che ormai l’avventura di impianto classico aveva quasi scalzato del tutto i fumetti più deboli a livello narrativo. Non a caso Jacques Glenat aveva coniato la formula delle «Avventure della Storia», fumetti storico-avventurosi le cui caratteristiche dovevano essere un’ottima documentazione, delle trame solidissime, una narrazione avvincente ed uno stile il più adulto possibile. Les sept vies de l’Epervier, la cui pubblicazione ebbe inizio sul n° 54 di Circus, rientrava in questo progetto e ne esaltava le caratteristiche.
In pratica Cothias e Juillard realizzarono il prequel di Masquerouge, introducendo però nuovi personaggi e ammantando tutta la vicenda in una spessa coltre di tragedia e mistero.
Attraversando tutto il primo quarto del XVII secolo, la serie terminò col settimo volume, ma la forza creativa sprigionata da Cothias non si fermò lì. Tanto più che la settima vita doveva ancora essere assegnata. Nuove saghe vennero ad integrare quella portante e da Coeur brûlè (spin off dedicato a Germain) a Le fou du roy (romanzata biografia di Moliere, settimo ed ultimo Sparviero) sono in totale 9 le serie ambientate nel mondo dello Sparviero. Anzi, 10 se si considera come autonoma la “premiere epoque” di Masquerouge disegnata da Marco Venanzi. Caso raro nel panorama fumettistico mondiale, una parte di una saga ancora “in progress” viene affidata ad un altro editore. Plume aux vents, le avventure canadesi di Ariane de Troïl dopo i fatti delle Sette vite, è infatti pubblicata da Dargaud.



Fin qui i semplici fatti oggettivi. Ma Les sept vies de l’Epervier ha saputo diventare qualcosa di più di una semplice saga a fumetti di successo. Quello che Cothias e Juillard hanno creato è un’epopea le cui stesse contraddizioni sono funzionali allo sviluppo del mito dello Sparviero. Il meccanismo prettamente feuilletonesco e centrifugo della serie è senz’altro la prima causa che viene alla mente quando ci si chiede il perché di tanto seguito e di tanto successo, ma alla base del fenomeno che ci spinge a non staccare gli occhi dalle tavole di Juillard e a chiederci “adesso cosa succederà?” quando un ciclo è concluso ci sono anche altri fattori.
A percorrere le tavole in cui compaiono Ariane e gli altri c’è un pesante senso di predestinazione e alcuni riferimenti saggiamente dosati portano spontaneamente il lettore ad arrovellarsi sui loro possibili significati reconditi anche quando forse non ce ne sono…
Cothias e Juillard sono insomma degli abilissimi affabulatori che non hanno nulla da invidiare in quanto a carisma alla loro creatura Leonard Langue-agile. Persino il semplicissimo confronto tra Masquerouge e Les sept vies de l’Epervier sembra rivelare chissà quali simbologie, quasi che a generare la seconda serie ci fossero elementi predefiniti che si trasfigurano in archetipi ancestrali. Come ad esempio il cervo che viene cacciato in Masque Rouge 3, nell’episodio “Una caccia speciale”, che troverà poi un corrispettivo nelle Sept vies con due reintepretazioni diverse: da una parte con la preda umana de L’ora dei cani e dall’altra con il cervo ucciso in contemporanea con Enrico IV di Hyronimus. Senza contare le altre citazioni, piccole o grandi, che danno continuità alla saga.
Il ciclo dello Sparviero si regge soprattutto su questa fitta rete di rimandi e di autocitazioni, fondamentali per imbrigliare il lettore nel tessuto narrativo anche se alcuni dei raffinati colpi di cesello di Cothias si scoprono solo ad una seconda lettura (il carbonaio de L’ora dei cani, ad esempio, è già presente in La morte bianca, volume in cui tra l’altro sarà anticipata la fine di metà dei personaggi con una semplice allusione alla «corda con cui si impiccheranno»). Ma un meccanismo che si vorrebbe così perfetto, ovviamente, non è per nulla esente da errori. Anzi, se ci si mette di buona lena a smontare tutto l’ordito sapientemente intessuto da Cothias si troveranno un sacco di contraddizioni…
Non è certo il caso di svilire uno dei più grandi successi d’oltralpe (un milione e mezzo di copie vendute solo da Les sept vies) con questioni di lana caprina che alla lunga non fanno altro che impedire il piacere della lettura, ma alcune imprecisioni sono veramente macroscopiche e forse sottolinearle potrà far apparire più umana una serie che per argomenti e stile può anche risultare inizialmente ostica o inaccessibile al lettore. Alcune premesse d’obbligo: fintantoché sarà possibile, ci si riferirà solo al materiale giunto anche in Italia (cioè Le sette vite dello Sparviero edito da Glenat Italia e Lizard, Maschera Rossa pubblicato su Il Messaggero dei ragazzi, Il giullare del re su Skorpio e Plume aux vents edito da Lizard). Inoltre, benché il metodo di lavoro adottato dalla coppia Cothias-Juillard permetta molte influenze dell’uno sul lavoro dell’altro, lo sceneggiatore sarà il punto di riferimento privilegiato per le particolari scelte fatte nel corso della saga e per l’introduzione di alcuni elementi piuttosto che altri. Dopotutto, Cothias figura come unico sceneggiatore e questa qualifica gli vale nel bene e nel male.


È proprio dal particolare stile di Cothias che vale la pena di cominciare. Una sua bizzarra caratteristica, che proprio con il ciclo dello Sparviero risalta in tutta la sua singolarità, è lo spiazzante connubio tra atmosfere elevate (dialoghi aulici e magniloquenti, forte drammaticità, ecc.) e umorismo spicciolo. Non sferzante ironia o feroce sarcasmo, ma proprio tentativi di far ridere il lettore lanciandogli casuali strizzatine d’occhio. E finché Enrico IV si sfianca per soddisfare Maria De Medici possiamo anche abbandonarci al sorriso: si tratta di una sequenza chiusa in sé che non rallenta il ritmo della storia. Ma è proprio necessario spiegare cosa fosse un «portatore di latrina» con una sguaiata e supponente didascalia?
Cothias sembra amare esageratamente ammiccamenti di questo tipo, che dovrebbero rendere “simpatica” la vicenda ai lettori ma spesso non fanno altro che rallentarla rompendo la tensione che era riuscito a creare (i primi episodi di Les chemins de Malefosse di Bardet e Dermaut sono comunque ancora peggiori da questo punto di vista, con interpellazioni dirette al lettore e persino una “guest appearance” di André Juillard! - Cothias avrebbe ricambiato il favore su Le fou du roy). Il gusto un po’ buffonesco per queste trovate lo si può rilevare già dal titolo del primo volume, un gioco di parole tra «La blanche mort» e «La Blanche morte» che ovviamente in italiano si perde.
Proprio sulla tensione costruita da Cothias vale la pena inoltre di soffermarsi. Alcune delle sue sequenze più drammatiche sono veramente coinvolgenti e sanno ammaliare il lettore come poche altre. In particolare, è impossibile staccare gli occhi dalle ultime cinque tavole di Hyronimus senza essersele “sparate” di botto sino alla fine. Merito della perfetta architettura di Juillard, ma anche del gioco di incastri e inseguimenti di cui Cothias si dimostra maestro. Eppure a volte sembra che lo sceneggiatore si affidi a mezzucci poco degni delle sue reali capacità per far colpo sul lettore, oppure il suo gioco si spinge troppo oltre e da dramma la storia si fa melodramma. Fateci caso: ogni volta che nelle Sette vite qualcuno fa una rivelazione importante o succede qualcosa di fondamentale, inizia a piovere come per magia. E una volta conclusa la scena, della pioggia spesso non rimane traccia! Piove quando Gabriel confessa a Yvon, mentendo, che Ariane non è sua figlia; piove quando Baragoline assume il ruolo della strega; piove quando Ariane rimprovera Guillemot dopo essere stata stuprata da Germain; piove quando Bruantfou attacca il maniero dei De Troïl…
Ma questi climax si manifestano per fortuna come sfogo finale di una sequenza piatta in cui apparentemente non succede nulla, per cui risultano essere il giusto corollario a una data situazione o il momento risolutivo finalmente manifestato dopo tanta attesa. L’avvicendamento improvviso di momenti rilassati e speculativi e di altri esageratamente patemici ha però l’effetto di una doccia scozzese, può spiazzare il lettore minandone le certezze e l’idea che si era fatto della storia fino a quel momento. Il particolare indirizzo che hanno preso gli spin off dedicati a personaggi storici realmente esistiti (Les tentations de Navarre, Ninon secrète e Le fou du roy) sembra comunque privilegiare una rigorosa esposizione dei fatti piuttosto che un’estenuante ricerca di colpi di scena e voli pindarici.
Soprattutto i primi, però, non sono così numerosi come ci si potrebbe aspettare; francamente, leggersi Le sette vite dello Sparviero senza la giusta continuità può essere un calvario, soprattutto quando il lettore si è già fatto incantare dalla sarabanda di personaggi indimenticabili che la popolano. Essendo probabilmente la serie che meglio interpreta lo spirito delle «Avventure della Storia», Les sept vies adotta con sadica e calcolata abilità gli stratagemmi del feuilleton, incantando il lettore per poi destarlo bruscamente con l’annuncio che l’episodio è finito e tutti i nodi che si sono allacciati verranno sciolti solo con le prossime puntate. Da notare come nei primi tre episodi della serie questo meccanismo si basi principalmente sull’accumulo di storie e dettagli apparentemente slegati fra loro mentre dal quarto episodio in poi la tensione viene ravvivata dalla tragica sorte (mutilazioni, morti, ecc.) riservata a quei personaggi cui solo adesso capiamo di esserci affezionati dopo averli visti recitare apparentemente senza copione per oltre cento pagine. Il meccanismo con cui Cothias incanta il lettore è invisibile e sotterraneo, ma efficacissimo.



In effetti, quando si ritorna con la memoria alle vicende dello Sparviero è molto difficile che a balzare subito alla mente siano gli errori di Cothias o dei suoi disegnatori. Di fronte alle memorabili sequenze che riempiono questo universo narrativo importa veramente poco se i tre moschettieri prendono un abbaglio nel definire Maschera Rossa «raddrizzatore di torti le cui imprese hanno infiammato la nostra infanzia» (6° episodio del Giullare del re, pag. 3: Athos, Porthos e Aramis erano già comparsi, adulti, in La parte del diavolo, quando la sedicenne Ariane de Troïl doveva ancora assumere la sua doppia identità) oppure se il bieco carceriere del Petit Chatelet fa una comparsata ne Il marchio del condor, ambientato nel 1625, dopo essere stato ucciso un anno prima nell’episodio “Il prigioniero del Piccolo Castello” di Masque Rouge. E in fondo anche errori più marchiani come l’interpretazione grafica di Gabriel De Troïl ad opera di Brice Goepfert (secondo cui il padre di Ariane è monco a intermittenza del braccio destro e del sinistro) appare come un peccato veniale. A voler dissezionare la commedia umana di Cothias si troveranno tantissimi errori o imprecisioni, ma che senso ha soffermarcisi sopra quando l’ambientazione ed i personaggi hanno saputo conquistarci con tanta efficacia?
L’unico difetto che forse sarebbe stato meglio evitare a monte (ma ai lettori italiani per il momento è quasi del tutto risparmiato) è la grossa disomogeneità stilistica che caratterizza gli spin off ed i prequel delle Sette vite. La qualità del lavoro di Juillard è pressochè irraggiungibile, non ci sono dubbi, ma alla Glenat avrebbero potuto tentare di costituire un vivaio di disegnatori che ne riprendessero lo stile. A parte il Robet di Le Chevalier, la Mort et le Diable, ogni singolo interprete dell’universo dello Sparviero segue tranquillamente il proprio stile senza badare a ciò che fanno gli altri. Prendiamo ad esempio la figura di Leonard Langue-agile: per Juillard è un artista di strada miserevole ma al contempo molto fiero, dal portamento austero e dallo sguardo penetrante. Per Wachs, invece, Leonard diventa un vecchietto segaligno mentre per Prudhomme è un grassone tracotante e per Goepfert un mendicante gobbo e sdentato. Non stupisce quindi che, nonostante la presenza di Cothias (incostante, ambiguo, supponente e a volte quasi fastidioso ma, come abbiamo visto, capace di raggiungere vette stilistiche impressionanti), le altre serie gemmate dal troncone principale siano raramente diventate un successo. Les tentations de Navarre, addirittura, è stata abortita dopo solo due uscite.


Malgrado questa mole impressionante di volumi prodotti faccia pensare ad un universo complesso ed ingestibile, il rischio che Cothias si perda ancora di più nei meandri delle sue creazioni pare scongiurato. La conclusione di ogni singola serie edita da Glenat, infatti, è già stata prevista. Qualcuna ha già toccato il suo traguardo nei tempi stabiliti ma alcune dichiarazioni di Cothias rendono il futuro dello sparviero un po’ inquietante. Lo sceneggiatore aveva infatti promesso di portare a compimento tutte le serie nel 2000, rimangiandosi poi la parola e posticipando la fine al 2001, mentre nel 2002 non si conosce ancora il destino di alcune… se è giustificabilissimo l’attaccamento di un autore per i personaggi che gli hanno dato gloria e onori, risulta abbastanza strano che uno sceneggiatore della sua statura non riesca a trovare delle buone idee per concludere una storia. D’altronde gli spin off più recenti hanno in effetti un andamento molto lento e rilassato e speriamo che di fronte alla difficoltà di concludere Le fou du roy Cothias non si abbandoni all’accumulo di volumi su volumi fino a farne una serie fantasma, un olandese volante della bédé che si trascina stancamente senza poter  arrivare mai ad una conclusione definitiva.
Dopotutto, il fascino del feuilleton risiede anche nel fatto che prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.

Piccola guida all’edizione italiana ed al cosmo dello Sparviero

In Italia ci siamo accorti abbastanza presto delle potenzialità de Les sept vies de l’Epervier: tra il 1984 e il 1985 Orient Express pubblica a puntate La morte bianca sui numeri 24, 25, 26, 27 e 28. E non si trattava solo di un escamotage di Luigi Bernardi per dare ossigeno alla sua rivista dopo che il sogno di un fumetto italiano concorrenziale con quello francobelga stava svanendo. La qualità del lavoro di Cothias e Juillard è difatti testimoniata dal fatto che subito dopo ne avrebbe recuperato il testimone la Glenat Italia. Dal 1986, infatti, la collana Le avventure della storia proporrà integralmente la serie (nei fascicoli 2, La morte bianca, 5, L’ora dei cani, 10, L’albero di maggio, 30, Hyronimus, 42, Il signore degli uccelli, 50, La parte del diavolo, 59, Il segno del condor). Le sette vite dello Sparviero sarà una delle poche serie della collana a vedersi dedicata nel 1987 un’edizione in similpelle con fregi in oro che raccoglie i primi due episodi accompagnati da schizzi preparatori e interventi degli autori. Si tratta di materiale rarissimo, dal costo ovviamente proporzionato.


Le edizioni Lizard hanno poi provveduto a continuare le peripezie di Ariane con la pubblicazione di Plume aux vents dal 1998 e dal 1999 hanno intrapreso la ristampa integrale delle Sette vite, regolarmente terminata alla fine del 2001. Questa edizione si avvale delle belle copertine della serie «Caractere» realizzate da Juillard per una ristampa del 1992. I prezzi della Lizard sono però piuttosto salati: 25.000 lire per un volume brossurato di 48 pagine. Di Masquerouge si è occupato recentemente Il messaggero dei ragazzi, che dal 1997 al 2001 ne ha diluito in 9 uscite i primi tre volumi (quelli cioè disegnati da Juillard). A conti fatti quella del Messaggero dei ragazzi è l’edizione migliore della saga dello Sparviero: non solo stampa e colori sono ottimi, ma il lettering è ancora quello “vecchio e buono” fatto a mano e nei primi episodi alcuni elementi delle trame fornivano l’occasione per approfondimenti e spiegazioni (anche se nati con chiari intenti didattici questi chiarimenti sono utilissimi per cogliere alcune sfumature che Cothias ha soltanto abbozzato). Inoltre, tutto il “tome” 2 è stato presentato in un’unica soluzione sul “MeRa” n° 9 del 1998.
Le fou du roy, la serie che in teoria dovrebbe rappresentare il vertice della saga dello Sparviero, è stata ospitata su Skorpio dal n° 11 al n° 43 del 2001 e successivamente dal n°32 del 2004, con tutti i piccoli difetti delle riviste dell’Eura: numerazione rifatta, qualità di stampa altalenante, balloons ingranditi a coprire parte dei disegni.
Le rimanenti sei serie dell’universo dello Sparviero, ancora inedite in Italia, sono le seguenti:
Coeur brûlé (disegnato inizialmente da Dethorey e poi da Meral) narra le avventure di Germain Grandpin alla ricerca di Ariane nelle Americhe; Les tentations de Navarre (Wachs) è la romanzatissima biografia del “re dei francesi”, Enrico IV; Le Chevalier, la Mort et le Diable (Robet) punta i riflettori sulle imprese giovanili di Yvon de Troïl, fratello di Gabriel e finto padre di Ariane; Ninon secrète (Prudhomme) narra le vicende della cortigiana Anne (Ninon) de Lenclos, personaggio realmente esistito che nella fantasia di Cothias è figlia di Ariane; Le masque de fer (Marc-Renier) è una variazione sul tema e ha per protagonista un commediografo rivale di Moliere; il Masquerouge di Marco Venanzi, infine, riprende il personaggio narrandone l’arrivo a Parigi, con maggiore attenzione alla cronologia e ricreando, sviluppandole, alcune situazioni delle Sette vite, di cui è in effetti un “sequel del prequel”.                                             
       
Patrick Cothias



Nato nel 1948, Cothias è uno degli sceneggiatori più importanti e prolifici della scuola francobelga. Curiosamente, i suoi esordi nel mondo della bédé lo vedono tentare la strada del disegno (vinse addirittura un concorso a cui partecipò anche Juillard) ma è con la scrittura di soggetti e dialoghi che si è fatto conoscere ed apprezzare. Cothias si è dedicato praticamente a tutti i generi possibili, spaziando dal western al noir, dall’avventura moderna alla ricostruzione storica, dall’umorismo alla fantascienza. Molte sue opere sono state pubblicate anche in Italia, ma la mole di volumi usciti in Francia è semplicemente impressionante (solo la saga dello Sparviero ha superato complessivamente i 50 libri).
Tanto per rimanere alle sue opere più incisive che hanno visto la luce dell’edicola o della libreria italiana, è d’obbligo citare Le sette vite dello Sparviero (Glenat Italia prima, Lizard edizioni poi), Il vento degli Dei (Glenat Italia), Il giullare del re (Eura Editoriale su Skorpio), L’uomo che non doveva tornare (Eura Editoriale su Lanciostory) e Alice e gli Argonauti (Comic Art su L’Eternauta).
Tra i tanti disegnatori con cui ha collaborato ci sono alcuni dei rappresentanti, francesi e non, più prestigiosi della professione: Juillard, Gillon, Griffo, Font, Adamov, De la Fuente, ecc.
Divenuto recentemente anche romanziere (sempre sotto il segno dello Sparviero), Patrick Cothias sta portando avanti molteplici attività tra cui il seguito delle sue serie “classiche” (come Les eaux de Mortelune).

André Juillard



Qualche anno fa si diceva che il migliore disegnatore realistico di fumetti fosse Burne Hogarth. A chi spetterebbe il titolo oggi? A Giraud, a Zanotto, a Garcia Seijas, ad Eleuteri Serpieri? Tra i pochi candidati un posto d’onore lo merita senz’altro André Juillard.
Coetaneo di Cothias, matura professionalmente tra gli anni ’70 e ’80 ed è con la breve serie di Masquerouge (lo Sparviero embrionale) che comincia a farsi un nome e ad impostare un suo stile personale. Negli anni ’80 avverrà la sua consacrazione definitiva con Le sette vite dello Sparviero (Glenat) cui farà seguito l’acclamato Plume aux vents (Dargaud). Si è lanciato anche nella stesura delle sceneggiature, ottenendo ottimi risultati (Le cahier bleu è comparso su Comic Art mentre Apres la pluie è ancora inedito in Italia).
A conferma della grandissima importanza conquistata nel campo del disegno, Juillard (acclamato autore di manifesti, illustrazioni e portfolio vari) è stato contattato già nel 1987 per portare avanti l’opera di Edgar P. Jacobs ma solo nel 2000, quando Mortimer contre Mortimer era già stato ultimato da Bob de Moor, ha adottato insieme a Yves Sente i personaggi di Jacobs realizzandone un’avventura interamente nuova, La machination Voronov, con cui ha dimostrato ancora una volta tutto il suo grande talento, riuscendo senza traumi e con molta umiltà ad adottare una linea chiara molto rigorosa.
Ulteriore fiore all’occhiello della sua produzione, la serie Le derniere Chapitre, scritta da Convard, in cui gli eroi classici della bédé francobelga vivono il loro “ultimo capitolo” prima di andare in pensione.
Attualmente i suoi fan sono in attesa di un nuovo albo di Blake e Mortimer (personaggi portati avanti parallelamente anche da Van Hamme con vari disegnatori che si sono succeduti nel corso degli anni) e della continuazione della serie “parigina” iniziata con La cahier bleu che dovrebbe costituire alla fine una trilogia.

 


giovedì 25 novembre 2010

Anatomie argentine (originariamente apparso su Fucine Mute 21)

La via argentina all’anatomia

L’anatomia può diventare una vera “bestia nera” per chi, svolgendo la professione di disegnatore di fumetti, deve essere anche un po’ scenografo, un po’ costumista, un po’ grafico ed un po’ regista. Cercare le inquadrature più credibili non è sempre facile ma riuscire a modellare dei corpi e delle silhouette che contemporaneamente siano corrette, “stiano in piedi” e siano funzionali alla storia raccontata è spesso un grosso grattacapo. La soluzione a questo impasse creativo in cui tutti i disegnatori realisti si sono trovati è stata diversa e quasi antitetica da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico. In Europa la ricerca del realismo e della figura bella in sé porta spesso all’utilizzo di fotografie come base per i disegni, e a venire esaltata in questo processo è la personalità di ogni singolo Maestro e la sua capacità di “interpretare” la realtà: è il caso di Manara, Eleuteri Serpieri, Moebius, Maroto e tantissimi altri che, anche se solo saltuariamente, hanno basato alcune delle loro immagini su altre fonti talvolta realizzate in prima persona da loro stessi (pensiamo, per esempio, a Jacques Tardi che ritrae alcuni amici e se stesso in La Guerre des Tranchèes dopo averli appositamente fotografati). Con i fumetti della Bonelli le cose si complicano ulteriormente visto che talvolta un disegnatore cannibalizza un suo collega che si era precedentemente ispirato ad un’altra fonte ancora!
Negli USA la situazione è decisamente differente: I comic book, supereroistici ma non solo, prediligono l’azione ed il dinamismo alla correttezza anatomica e, a seconda del periodo in cui si trova a lavorare, un disegnatore deve basarsi obbligatoriamente sul modello estetico dominante in quella data fase della storia del fumetto americano. Quindi, dopo Kirby, Adams e pochi altri, ecco l’era di Jim Lee e dei suoi più o meno riusciti cloni, coi loro bicipiti rinforzati, gli improbabili vitini da vespa, le rughe frontali verticali e non orizzontali e quant’altro…
Il fisico, l’inquadratura, la gestualità ed il ritratto sono dunque gestiti in termini molto diversi: da una parte si privilegia l’estetica e la descrizione mentre dall’altra l’accento è posto sul movimento e (in teoria) la narrazione. Ma esiste anche una soluzione intermedia tra queste due “scuole” che, rimanendo al mondo occidentale (sull’anatomia nei manga ci sarebbe da discutere; spesso ha però un’impostazione realistico/fotografica che la rende simile a quella europea) possiamo individuare nelle “historietas” argentine.

C’era una volta la grande scuola del fumetto latinoamericano, quella che per quasi un ventennio, a partire dagli ultimi anni ’70, calamitò l’attenzione di pubblico ed intellettuali verso tematiche impegnate e interpretazioni grafiche nuove ed originali (Sergente Kirk esisteva già da una decina d’anni, ma non fu certo un successo popolare in Italia). Certo, la maggior parte degli Autori di questa scuola esistono e lavorano ancora, ma è proprio la “scuola” in sé, intesa come nucleo ideologico aggregante per personalità magari differenti a non esistere più. Il panorama fumettistico argentino del 2000 è desolante e il poco che si produce ancora è spesso spersonalizzato in favore di stilemi più facili con cui presentarsi su mercati più vivi.
Ma quando le “historietas” arrivarono in Europa, cambiando spesso anche il modo stesso in cui veniva inteso il fumetto, cos’è che le rendeva così speciali? Indubbiamente furono i testi di Oesterheld, Trillo, Sampayo e dei tanti altri che sarebbero seguiti (pur se magari attivi già da molto prima nel loro Paese) a suscitare il primo “colpo di fulmine” per questa produzione. Infatti raramente prima di allora l’impegno sociale era trattato con una tale naturalezza da non risultare un semplice “di più” alle storie, e l’introduzione di citazioni letterarie trovava finalmente un terreno adeguato in cui attecchire e non era più, come spesso avveniva, uno specchietto per le allodole o un effimero sistema per nobilitare una sceneggiatura banale. L’estremo realismo di personaggi e situazioni fu un ulteriore e decisivo passo in avanti rispetto alla produzione cui si era abituati in quegli anni soprattutto in Italia.
Se il contenuto era di qualità così elevata, il contenitore però non era da meno: non solo gli sceneggiatori erano innovativi ma anche i disegnatori si facevano ammirare per le loro interpretazioni della realtà e per l’inedita commistione di abilità narrativa e ricercatezza grafica che caratterizzava le loro tavole. Per sviluppare il loro stile gli argentini avevano trovato un sistema originale ed efficace: l’osservazione della realtà e l’anatomia classica erano comunque delle solide basi, su cui però veniva costruito un edificio che rispecchiava la personalità di ogni singolo disegnatore.

Insomma (e qui veniamo alla questione sull’anatomia che ci eravamo posti all’inizio) Zanotto, Muñoz, Garcia Seijas, Gimenez e tantissimi altri avevano assimilato le regole fondamentali del disegno accademico e della scuola fumettistica classica, ma avevano anche saputo integrarle ed arricchirle con regole specifiche del loro stile, giungendo quindi a creare la “loro” anatomia particolare, il loro modo speciale di guardare il mondo. Questo è un processo non da poco poiché, attingendo sia dagli insegnamenti dei classici che dal gusto del singolo, supera entrambi in favore della costituzione di uno stile veramente originale ed unico che, oltre ad essere il marchio di fabbrica di ogni singolo disegnatore, consente al disegnatore stesso di risolvere i vari dubbi che possono presentarsi durante la realizzazione di una tavola ricorrendo a quelle soluzioni grafiche che egli ha ormai già codificato e il pubblico ha assimilato fino a considerarle naturali e quasi ovvie. Ogni disegnatore presenta insomma la “sua” anatomia, che spesso non lo abbandona per il resto della vita e che viene magari presa ad esempio da altri aspiranti colleghi.
Vediamo qualche esempio tra i più indicativi su come alcuni dei più importanti disegnatori abbiano imposto la loro personalità:

Juan Zanotto - bugie stupendamente raccontate



Giovanni Zanotto nasce in Italia nel 1935 ed emigra in Argentina con la famiglia a tredici anni. La sua formazione professionale è iperspecializzata: frequenta infatti i corsi di fumetto della Escuela Panamericana de Arte con Maestri quali Hugo Pratt e Alberto Breccia. In origine il nome di questa fucina di fumettisti comprendeva anche un ambiguo “de Alex Raymond”, forse solo un incentivo per i giovani alunni a frequentare i corsi e diventare bravi come il creatore di Flash Gordon che allora (e a ragione) era uno dei massimi punti di riferimento possibili. In ogni caso, oggi è molto interessante notare le molte affinità tra Zanotto e Raymond.
Zanotto fa la sua comparsa ufficiale in Italia sul numero zero di Lanciostory, datato 1975 e offerto come allegato gratuito ai fotoromanzi della Lancio (chissà che forse non fosse già comparso senza tante cerimonie sui tascabili bellici della Dardo...). L’incontro con questo disegnatore così originale, sensuale e realistico sarà il preludio al distacco progressivo dei lettori italiani dall’Intrepido e affini in favore di prodotti più adulti. Si trattò di un discreto choc per l’epoca ed è facile capire perché.
Gli scultorei corpi dei cavernicoli e le ammalianti silhouette delle loro compagne in Yor ( la prima serie con cui Zanotto esordì in Italia; in origine si chiamava Henga) erano frutto di un lavoro accuratissimo e di un’attenzione marcata per il dettaglio.


Prima ancora di avventurarci nell’analisi delle anatomie di Zanotto, notiamo che qualche “licenza poetica” se la concede già a livello logico. Come ha avuto modo di dire Boris Vallejo (uno che di anatomia se ne intende), talvolta bisogna abbandonare il buon senso quando si disegna, per creare quelle “illusioni” che il pubblico crederà assai più realistiche che non la fredda imitazione della realtà. Tarzan, girando mezzo nudo per la giungla, dovrebbe sfoggiare un’abbronzatura uniforme, ma se lo dipingessimo così come la logica impone risulterebbe meno credibile che non con le piccole variazione di colorito che caratterizzano chiunque (la pelle sulle costole un po’ livida, il petto più chiaro rispetto al resto del corpo, ginocchia e gomiti più scuri, ecc. - tutti questi dettagli vengono dal ricco volume Boris Vallejo - Fantasy Art Techniques, Paper Tiger, Londra 1985). Così il cavernicolo Yor, capo del suo clan e valente guerriero, non è un ammasso di muscoli ma un magro personaggio dall’addome scavato! Per non parlare di Ka-Laa e delle altre figure femminili di contorno, perfettamente depilate in piena era neolitica…
Tralasciando queste legittime concessioni al gusto estetico comune, osserviamo come non tutti i particolari che Zanotto ci presenta con convinzione corrispondono sempre alla realtà. Ad esempio, quella zona addominale che i professori di anatomia chiamano mesogastrica (che si trova attorno all’ombelico sopra il pube) è particolarmente allungata nei suoi disegni, soprattutto quelli dei primi lavori, ma ciò dà un’impressione di sproporzione e di “allungamento” dei corpi solo se ci si sofferma sulle immagini più del tempo di lettura richiesto dalla tavola. Ed è proprio questa la grandezza di Zanotto come fumettista: rinunciare ad un corpo anatomicamente perfetto in favore di uno molto più funzionale alla narrazione. Insomma, Zanotto (tra l’altro, unico disegnatore al mondo insieme a Ernesto Garcia Seijas a saper dare una personalità ad ogni donna delle sue storie) è l’esempio perfetto di quanto dicevamo sugli Autori argentini che, una volta imparata l’anatomia, ne fanno uso integrandola con il loro stile personale e non subendone passivamente i dettami se le soluzioni per rendere più “fumettistico” un disegno non lo richiedono.


Due “marchi di fabbrica” che caratterizzano i suoi fumetti e che li rendono immediatamente riconoscibili riguardano però i volti e non i corpi. I deltoidi che arrivano talvolta oltre le spalle (nelle scene più movimentate) o i tricipiti che curiosamente si congiungono visibilmente al gomito non sono tanto rilevanti in quanto sono splendidamente disegnati e perfettamente integrati in quell’armonia della tavola che li rende  credibili e naturali. Ma il modo con cui sono rappresentati i nasi, con entrambe le narici ben visibili anche quando una sola dovrebbe esserlo, è senz’altro caratteristico. Ed ancor più originale è la soluzione che Zanotto adotta per risolvere i profili: non si tratta infatti di veri e propri profili ma quasi di ritratti a tre quarti ulteriormente spostati verso l’esterno. È un fenomeno visibile soprattutto nei personaggi femminili, che si ritrovano con un occhio spostato forse un po’ troppo verso la tempia, mentre dell’altro riusciamo addirittura a vedere le ciglia.
Ma anche queste libertà espressive che Zanotto si concede non sono altro che manifestazioni della sua personalità, elementi su cui un rigido anatomista potrebbe trovare da ridire ma che un appassionato di fumetti non può che guardare affascinato ed amare.

Horacio Altuna - la caricatura come realismo



Horacio Altuna nasce nel 1941 in Argentina e si dedica al fumetto professionale solo dopo gli studi e dopo aver svolto altri lavori. Anch’egli arriva in Italia grazie all’Eura Editoriale ed è più o meno nel periodo in cui fa la sua comparsa da noi che in patria “decolla” definitivamente. Nel 1975 nasce infatti il suo sodalizio con Carlos Trillo, con cui realizza l’eccezionale striscia umoristica Loco Chavez per i quotidiano El Clarin. In Seguito Loco Chavez comparirà anche in Italia, su Skorpio e Comic Art, ma solo nel 1987 (proprio l’anno della sua conclusione!).
Dei suoi esordi fumettistici conosciamo in Italia poco o nulla ma in questi ultimi venticinque anni il disegno di Altuna è rimasto praticamente invariato e ciò fa intuire che a poco più di trent’anni avesse già raggiunto uno stile stabile e maturo. I personaggi della sua produzione sono caratterizzati da un’incredibile espressività e da una forza comunicativa che pervade perfino abiti e sfondi: basti pensare che l’Eura, di fronte ai primi fumetti di Altuna, non si fece problemi ad eliminare alcune didascalie che , vista la comunicativa dei disegni, diventavano superflue e ridondanti. Le grandi doti espressive di Altuna derivano dal trattamento che riserva all’anatomia e, più in generale, alle regole del fumetto realistico classico. È la sua personalità il perno centrale attorno cui ruotano le sue interpretazioni grafiche, quella personalità che gli fa disegnare dei movimenti concitati al limite dell’umano, delle indimenticabili facce che da sole caratterizzano un “buono” e un “cattivo” e soprattutto gli occhioni ammalianti delle sue donne di carta. Non è un caso che moltissimi dei suoi lavori (come Dopo il Grande Splendore, Strownsky, Chances e molti altri, con o senza Trillo ai testi) siano attraversati da una vena grottesca spesso associata alla critica sociale.


Altuna non cerca, come invece fa Zanotto, l’anatomia “bella” (pur se funzionale), ma bensì muore dalla voglia di trasmettere ai suoi lettori emozioni e stati d’animo e lo fa modulando il tratto oltre misura, riempiendo le vignette di linee cinematiche e deformando alcuni visi fino quasi all’animalesco. In definitiva, Altuna giunge alle stesse conclusioni della scuola francese di Jijè, Cheret , Derib e tanti altri: usare elementi caricaturali (sovraccaricando i disegni oppure, al contrario, semplificandoli) per rappresentare la realtà non sempre sminuisce il soggetto ritratto, ma anzi a volte può persino donargli un’incisività ben maggiore di quella che avrebbe se copiata pedissequamente. In fondo il lettore sa che il regista pornografico che compare in Strownsky nel mondo reale non sarebbe così somigliante ad E. T., come la moglie del signor Lopez non potrebbe essere quella gigantessa feroce che è in Uscita di Sicurezza, o che i soldati che uccisero Ernesto “Che” Guevara non erano tutti gli uomini-bestia che Altuna ritrae nella breve storia  Pastori. Il gioco dell’eccesso e della caricatura è però molto funzionale a ciò che vuole esprimere Altuna e, forse perché proprio così evidente, rende ancora più bello “entrare” nei fumetti di Altuna e incazzarsi e commuoversi con i suoi eroi.



Horacio Altuna viene considerato un disegnatore realistico, benché sia molto meno accademico di altri, fondamentalmente per due ragioni. Innanzitutto, le storie realizzate con Trillo e quelle che poi ideò da solo trattano principalmente argomenti molto seri per non dire crudi (la corruzione, l’incubo atomico, la clonazione a scopo medico, il razzismo, ecc.) e anche quando sono trattati in maniera scanzonata danno molti spunti di riflessione. In secondo luogo, le figure femminili (spesso e volentieri discinte) che rallegrano le sue tavole sono tratteggiate con una grande abilità ed un rispetto per l’anatomia che non esclude però la sottolineatura delle loro abbondanti doti fisiche (Altuna è da anni un riconosciuto Maestro del fumetto erotico, genere in cui eccesso e caricatura sono elementi basilari).

Enrique Alcatena - la colta raffinatezza del postmoderno



Enrique Alcatena (classe 1957) rappresenta una sorta di “terza via” all’approccio alla professione di fumettista rispetto quelle degli altri due Autori di cui sopra. Come moltissimi altri giovani è dapprima “ragazzo di bottega” del disegnatore affermato e poi affronta interamente da solo le tavole quando raggiunge una maturità sufficiente. Alcatena è presente in Italia già sul finire degli anni ’70, ma la sua firma compare, quando compare, quasi esclusivamente insieme a quella di Martinez, storico disegnatore argentino che aiuta nella realizzazione della serie Le Aquile e di alcune storie di fantascienza. Si mette “in proprio” relativamente presto e da subito suscita curiosità ed ammirazione: nei primi anni ’80 il suo nome viene talvolta ricordato da Lanciostory e Skorpio nelle anticipazioni dei prossimi numeri, godendo quindi di un trattamento davvero speciale che spesso non viene riservato nemmeno a disegnatori molto più vecchi e affermati di lui.
Il tratto rigoroso e “pieno” di Alcatena è senz’altro gradevole alla vista, e non si perde inoltre in superflui esercizi di stile fini a se stessi. Verso la fine degli anni ’80 avviene la sua consacrazione definitiva, il pubblico italiano lo adora e lui ha modo di lavorare addirittura per le statunitensi Marvel, Dark Horse e D. C. Comics. In questo periodo raggiunge la sua piena maturità ed il suo stile, già parecchio originale ma carico ancora di tantissimi influssi, diventa inconfondibile. 


Può sembrare una contraddizione parlare del suo stile come di qualcosa di originale quando questo è tuttora pieno di rimandi ad altri artisti, ma non è così. L’abilità e l’intelligenza di Alcatena consistono proprio nel fondere vari stilemi conosciutissimi dai lettori cui si rivolge per reinterpretarli a modo suo. L’immediata gradevolezza del suo disegno risiede nel lavoro di decostruzione e riproposizione ricercata di canoni interpretativi codificati da disegnatori precedenti. Se guardiamo i suoi fumetti  realizzati su testi di Ricardo Barreiro (cioè Fuori dal Tempo, Ulrick il Nero e Il Mago) non possiamo evitare di soffermarci sull’incredibile imponenza dei corpi e sull’altrettanto incredibile lavoro di cesello effettuato per tirare fuori i volumi e le forme. Limitandoci quindi a considerare la anatomie avulse dal contesto delle tavole (sulla cui organizzazione ”esplosiva” e barocca si potrebbe parlare a lungo: sarebbe interessante confrontare una sceneggiatura con una tavola finita di Alcatena), notiamo la stretta relazione tra i suoi disegni e il tratto sensazionalistico ed iperbolico dei disegnatori nordamericani. Jim Lee, Rob Liefeld e compagnia avrebbero fatto scuola solo tra qualche anno, ma prima di loro c’erano già Gil Kane, Neal Adams, Gene Colan, Frank Frazetta, Richard Corben e, in fondo in fondo, l’onnipresente Jack Kirby.
Le opere successive di Alcatena, scritte principalmente da Eduardo Mazzitelli e Walther Slavich, aggiungono un ulteriore elemento di metatestualità alle sue tavole. A seconda dell’ambientazione in cui si svolgono (il Giappone di Dinastia Maledetta, la Russia di Il Re Leone, l’Inghilterra vittoriana di Attraverso il Labirinto, ecc.) l’inchiostrazione e i dettagli si adeguano a ricostruire l’atmosfera adeguata prediligendo l’immediata esteriorità tradizionale piuttosto che la documentazione. I suoi fumetti, che già in precedenza richiamavano talvolta il surrealismo, il simbolismo e l’op-art, riescono quindi a veicolare le atmosfere come pochi altri e questa intesa che viene a crearsi con il lettore diventa un importante elemento per la legittimizzazione delle bizzarre figure che li popolano.


Enrique Alcatena riesce a spacciare per vere e naturali le sue artificiose anatomie proprio per il rapporto di complicità che sa instaurare con i suoi lettori che, volenti o nolenti, hanno assorbito gli stessi codici visivi che trasudano dai suoi fumetti. Anche le interpretazioni più distorte della realtà o le creature più deformi (dotate in ogni caso di una loro coerenza interna) finiscono per testimoniare dei “prestiti” che la cultura di massa, che ha ormai inglobato anche le avanguardie artistiche e non si limita più ai supereroi, ha fatto ad Alcatena. E non mancano neppure delle devote citazioni dei Maestri argentini come Alberto ed Enrique Breccia: in particolare, se osservate bene le gocce disegnate da Alcatena noterete che sono identiche a quelle che disegnava Lucho Olivera.
Enrique Alcatena compie quindi un raffinato esercizio postmoderno che unisce armoniosamente fumetto popolare, fumetto d’Autore, pittura, cultura pop ed un’incredibile passione barocca per la “meraviglia”.

Due casi particolari: Alberto Salinas ed Enrique Breccia

Nell’ambito del vastissimo panorama fumettistico argentino (che, ovviamente, non si riduce ai soli nomi qui ricordati) due figure spiccano quali eccezioni rispetto a quanto esposto sopra sull’interpretazione dell’anatomia e lo sviluppo dello stile. Alberto Salinas ed Enrique Breccia sono entrambi degni figli d’arte, rispettivamente di Josè Luis Salinas e di Alberto Breccia, veri semidei del fumetto mondiale (anche le altre due figlie di Breccia, Cristina e Patricia, disegnano fumetti). Ma ciò che li accomuna di più nonostante i tredici anni di differenza è un percorso artistico pressochè identico. Lo stile con cui, a metà anni ’70, si presentano in Italia è di stampo decisamente pittorico e colto. Non che abbiano molti tratti in comune, anzi, ma concettualmente si vede che il punto di partenza è comune.



Alberto  Salinas (classe 1932, attivo nel campo dei fumetti fin da giovanissimo) arriva ufficialmente in Italia su Skorpio con la serie Continente Nero, sostituita da Legione Straniera a causa dello scarso successo. In entrambe le occasioni (ma soprattutto in Legione Straniera, poi continuata da altri) Salinas si affida ad un disegno maestoso e ricercato che richiama alla memoria gli schizzi dei Grandi Maestri del Rinascimento. Una precisazione è d’obbligo: oggigiorno definire “pittorica” una tavola a fumetti significa ormai solo sottolineare il fatto che è stata colorata dall’autore e che, forse, ha un minimo di velleità realistiche o espressive. Ecco quindi che le meccaniche illustrazioni manieriste di Alex Ross aggiungono quella patina di iperrealismo fintamente colto che mette a tacere ogni accusa di banalità verso storie come Marvels e Kingdom Come, esperimenti in realtà criticabili da più punti di vista. Ma la propria cultura iconografica classica (ammesso che ci sia, ovviamente…) si può dimostrare anche con il bianco e nero, proprio come fa Alberto Salinas. Le morbide e precise pennellate con cui dà corpo ai suoi eroi, alle sue donne e agli ambienti in cui si muovono sono debitrici sia del naturalismo paterno che dello studio dei pittori classici. Pochi altri disegnatori hanno avuto la pazienza di definire luci e ombre delle figure (quindi i volumi) con dei tratti armoniosi e molto sfumati, e ancora in meno si sono preoccupati di dare alle loro tavole una composizione simmetrica e perfetta dal punto di vista della prospettiva, intesa però come la prospettiva aerea che utilizzano i pittori e non la semplice applicazione delle nozioni di orizzonte e punto di fuga. 



Nel complesso questo stile molto ricercato (che in effetti pecca di una certa maestosa staticità) ricorda molto, come dicevamo, le prove e gli schizzi preparatori dei Grandi Maestri, con qualche particolarità in più. Una costante dei disegni di Salinas fino ai primi episodi di Dago è lo studio e la ricerca continua dei volti, che costituirà col tempo un vero campionario di “tipi”, un’altra idea di base della pittura classica che viene messa in pratica. Non è quindi un caso che Paolo Eleuteri Serpieri abbia dichiarato recentemente, sul numero 81-82 di Fumo di China, di essersi cimentato senza pregiudizi nel fumetto proprio sull’esempio dei grandi Autori argentini tra cui appunto anche Alberto Salinas.


Anche Enrique Breccia (classe 1945, originale e provocatorio sceneggiatore oltre che grande disegnatore) ha avuto un esordio italiano, di cui forse pochi si ricorderanno, di matrice marcatamente pittorica. Fu infatti con uno stile secco e naif, memore anche delle incisioni del messicano Guadalupe Posada, che illustrò le sanguinarie vicende storiche e sociali che apparvero su Linus. Nel suo caso la ripresa di un’iconografia (e quindi di una cultura) particolarmente vicina e politicamente “calda” non è solo uno sfoggio di padronanza dei propri mezzi espressivi, ma è soprattutto una presa di posizione; l’aspetto grafico delle storie diventa quindi anche un nuovo livello di lettura. Altri fumettisti, tra cui il più assiduo fu il brasiliano Jô Oliveira, tentarono lo stesso approccio al fumetto, ma la prova di Breccia rimane probabilmente la più incisiva.


Salinas e Breccia dovettero però inevitabilmente (vista l’elevata qualità del loro lavoro e la conseguente richiesta di sempre nuovo materiale) convertirsi in disegnatori più “commerciali”, meno legati a un’estetica colta in favore di un’altra più immediatamente accattivante e soprattutto più rapida nell’esecuzione. Per Enrique Breccia l’integrazione nel mondo del fumetto realistico classico (comunque sempre di qualità altissima) avviene subito, intorno al 1977, quando inizia a disegnare l’indimenticabile saga di Alvar Mayor su testi di Carlos Trillo (sempre con questo sceneggiatore Breccia tornerà per una breve parentesi, la miniserie El Buen Dios, allo stile precedente). Alberto Salinas “resisterà” invece fintantochè le scadenze di consegna di Dago glielo consentiranno, cioè circa dopo i primi quindici episodi della serie, risalenti all’’81/’82.
Dismessi i panni di disegnatori colti e pittorici (salvo poi tornare a stupirci con delle memorabili opere di cui realizzano in prima persona il colore), i due si trovano pienamente inseriti nel meccanismo del fumetto seriale, meccanismo che padroneggiano pienamente ed in cui diventano degli esempi da seguire ed ammirare. Salinas acquista un dinamismo ed un’espressività prima impensabili mentre Breccia si dedica maggiormente ai dettagli realistici, alle proporzioni corrette e ad un tratto più leggero.
Ma ad un certo punto delle loro carriere avviene, per entrambi, un fatto unico ed assai curioso. La grandezza dei disegnatori argentini, dicevamo, è la loro capacità di assimilare l’anatomia per poi integrarla e personalizzarla con i propri codici iconografici specifici. Ebbene, da metà anni ’80 (per Breccia) e dall’inizio dei ’90 (per Salinas) inizia l’inesorabile processo che li avrebbe portati a favorire la loro interpretazione della realtà rispetto alla realtà stessa (cioè alle regole basilari dell’anatomia), con esiti un po’ disarmanti. L’Enrique Breccia di oggi, che sforna principalmente storie autoconclusive su testi di Eduardo Mazzitelli (anche se di recente è stato contattato anch’egli dalla Marvel), è un semplice campionario di 4/5 tipi di naso ed altrettante bocche, che combinati danno vita ad una nutrita galleria di personaggi disegnati con pochissimi tratti e, probabilmente, con una certa fretta. Spesso le figure sono quasi centrifughe rispetto alle vignette che le contengono, e non sempre la lettura procede spedita come una volta.
Salinas invece (che disegna solo una cinquantina di tavole all’anno) ha cercato di recuperare la maestosità delle origini ma appesantendola di quei grossi tratti che aveva elaborato per velocizzarsi. Sembra anche che ogni tanto il suo tratteggio (peraltro uniforme per armature, tendaggi, volti, ecc.) sia messo a caso, dove Salinas si ricorda che “dovrebbe esserci” uno zigomo o un certo muscolo. Cercare di abbellire e dare profondità a delle immagini che sono imprecise alla base non fa che danneggiare ulteriormente le immagini stesse e nell’attuale periodo sembra quasi che Salinas si limiti, per disegnare i volti dei suoi protagonisti, a copiare i quadri che li ritraggono (visto che le ultime storie, scritte da Robin Wood, sono ricostruzioni storiche).
Né Alberto Salinas né Enrique Breccia hanno perso in popolarità durante gli ultimi anni ed il loro nome garantisce ancora un certo prestigio: tutto sommato, per chi li vuole amare incondizionatamente e sta al loro gioco, le loro tavole sanno offrire ancora motivi d’interesse e di piacere. Rimangono comunque due casi particolari, due esempi di Autori che, a differenza di Zanotto, Altuna e Alcatena, arrivano a porre la loro personalità come base per l’anatomia (quell’anatomia che hanno dimostrato di saper padroneggiare così bene), e non viceversa.

martedì 23 novembre 2010

Leggende d'oggi (precedentemente presentato su Fucine Mute 30)

Profezie di ieri

Ad un certo punto del ventesimo secolo arrivò il 1968. E a Parigi la contestazione si estese anche al mondo dei fumetti. In Italia i giovani ribelli accompagnavano l’ascolto dei Nomadi e dell’Equipe 84 con la lettura del rivoluzionario Teddy Bob, mentre in Francia una serissima crisi d’identità accompagnata alla frustrazione della propria staticità rispetto il mondo che cambiava spinse molti autori a prendere posizioni estreme contro un’editoria arretrata e censoria.
La redazione di Pilote visse giorni di fuoco a cavallo tra anni ’60 e ’70: moltissimi autori fecero fronte comune contro l’editore Dargaud e soprattutto contro il direttore editoriale Renè Goscinny (il cocreatore di Asterix). In sostanza si voleva una maggiore libertà creativa, la possibilità di trattare problemi adulti e l’eliminazione della censura, che si era già abbattuta sulle opere di alcuni collaboratori. La necessità stessa di un direttore editoriale venne messa in discussione. Alle dimissioni di Goscinny coincise la diaspora di tantissimi autori che continuarono a lavorare per altre case editrici o che ne fondarono di proprie per pubblicare i parti della loro scatenata fantasia (Metal Hurlant nasce proprio da qui, ma è solo una delle nuove realtà create dalla situazione).
Il ritorno di Goscinny alle redini della rivista avvenne quando il “vecchio” Pilote si stava già adeguando (ottimamente, peraltro) al nuovo clima. Influenzato dall’atmosfera utopistica e libertaria che regnava a ridosso del ’68 Pierre Christin (tra i pochi che non si ammutinarono) scrisse una serie che segnò una svolta non solo nella rivista ma nella storia stessa del fumetto francobelga: Les legendes d’aujourd’hui, disegnata dall’astro nascente Enki Bilal.
Una premessa è d’obbligo: le “leggende d’oggi” nacquero nel 1972 ma a battezzarle graficamente non fu Bilal, bensì Jacques Tardi. Il primo episodio, Rumeurs sur la Rourgue, è una vera storia fantasma che, come il successivo Polonius (in Italia pubblicato da Comic Art) è misteriosamente assente dalla maggior parte delle bibliografie ufficiali di Tardi. Bilal ha saputo imporre la propria personalità a queste storie in maniera decisiva ed è sicuramente al suo nome che le leggende d’oggi sono indissolubilmente legate, non certo a quello di Tardi (anch’egli inserito seppur in ritardo nella diaspora descritta sopra) che ne disegnò soltanto la prima. A rimarcare ulteriormente la distanza del lavoro di Tardi da quello di Bilal, va ricordato che Rumeurs sur la Rouergue uscì quasi clandestinamente in volume per Futuropolis solo quattro anni dopo la sua realizzazione, quando altre due leggende d’oggi erano state pubblicate ed una terza era già in cantiere.
Les legendes d’aujourd’hui è una serie di storie autoconclusive che terminano nell’arco dello stesso volume: quello che oggi anche in Francia viene definito “one shot”. Un solo personaggio (ma il termine “personaggio” assume in questa saga significati particolari) fa capolino, sempre con minor rilievo, in tutte e cinque le “leggende” di Christin e Bilal.

Ciascuna delle cinque leggende non esaurisce il suo significato nel semplice intreccio ma va letta come una parabola su alcuni problemi o miti della società moderna affrontati in maniera disincantata e molto critica.
Tra il 1973 ed il 1974 Bilal disegna la sua prima “leggenda”: La Croisière des Oubliés (La crociera dei dimenticati). La vicenda si svolge nel villaggio di Liternos, paesino sperduto che senza preavviso un bel giorno si mette a galleggiare nell’aria. Alla base dello straordinario fenomeno sono senza dubbio gli esperimenti che si stanno conducendo in una base militare lì vicino, ma anche il misterioso straniero dai capelli argentei e la sua compagna (ex membro del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica) hanno un ruolo importante nelle peregrinazioni aeree di Liternos.


Se il disegno di Bilal ha ancora un lungo cammino davanti, lo stile e la poetica di Christin sono stabiliti sin da questo primo episodio e rimarranno costanti nel raccontare tutte le altre leggende. Soltanto l’elemento grottesco (in questo caso, i militari che diventano mostri più buffi che spaventosi) andrà lentamente scomparendo nei successivi episodi, per il resto la struttura della narrazione e l’utilizzo dei personaggi rimangono praticamente invariati. Innanzitutto va notata la lentezza, molto descrittiva, con cui procede la storia: si ha, anzi, quasi l’impressione che non ci sia proprio alcuna “storia”. La struttura delle Leggende d’oggi prevede infatti in tutti i casi il lento approssimarsi degli eventi verso un roboante finale risolutore; praticamente tutti gli avvenimenti procedono per accumulo in attesa della conclusione. Quanto dicevamo sulla particolarità dei “personaggi” nelle Legendes d’aujourd’hui trova fondamento nella Crociera dei dimenticati. Chi è il protagonista della vicenda? Nessuno dei paesani emerge con decisione sugli altri (se non in maniera caricaturale) e 50/22 B, l’uomo dai capelli argentei, è più un deus ex machina risolutore che non un personaggio vero e proprio. L’idea del “protagonista collettivo” verrà mantenuta fino all’ultima Leggenda, Partie de chasse, ma con un dettaglio inversamente proporzionale al lento scomparire di 50/22 B. La sua eliminazione dal palcoscenico sarà inevitabile quando i singoli componenti dei gruppi protagonisti delle ultime leggende verranno maggiormente personalizzati e descritti in profondità. Forse soltanto il Jefferson B. Pritchard di  Les phalanges de l’ordre noir ha uno statuto attoriale più forte e deciso, essendo il memorialista ed il motore stesso della vicenda.
Il “protagonista collettivo” non va comunque confuso con l’”eroe collettivo” ideato da Hector G. Oesterheld sin dai tempi del Sargento Kirk. In storie così attuali, realistiche e drammatiche come quelle delle leggende d’oggi non c’è posto per un manipolo d’eroi che risolva la situazione e la faccia franca: tutt’al più si può essere testimoni, vittime, burattini o al massimo “piccoli eroi” che organizzano una sezione sindacale dove mancava da cinquant’anni, ma la soluzione dei problemi, se ci sarà, avverrà grazie all’intervento di un potere superiore (non a caso il fantastico ed il soprannaturale sono elementi preponderanti nelle prime leggende).
Qualche parola va spesa per l’ambigua figura di 50/22 B. Innanzitutto, in nessuna leggenda viene fatto il suo nome: la sigla che lo caratterizza sarà presentata soltanto in un prologo di 9 pagine pubblicato nell’edizione in volume di La crociera dei dimenticati. Vista la natura metaforica della serie è limitativo pensare che Christin lo volesse usare come semplice deuteragonista o, al massimo, come deus ex machina. 50/22 B, coi suoi strani capelli d’argento, potrebbe benissimo essere un semidio, l’incarnazione di una giustizia atavica e primordiale che non tollera lo sfruttamento della natura né la sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Ma è una divinità sempre più stanca che pian piano lascia il ruolo di risolutore ad altri e si limita a contemplare l’operato degli uomini con sempre maggior distacco. Non a caso al termine di Partie de chasse il senso della storia sarà sfuggito anche a lui.
(una piccola curiosità filologica: in questo prologo di 9 pagine vengono citati, tra gli altri gesti di cui è stato partecipe 50/22 B, gli avvenimenti del precedente volume Rumeurs sur la Rouergue e vengono anche mostrate alcune immagini di quel fumetto. È curioso vedere come all’epoca Tardi si rifacesse allo stile caricaturale di Jean-Claude Meziérès).
Come dicevamo, il giovane Bilal aveva ancora un bel po’ di strada da fare e all’epoca il suo tratto si perdeva nel barocchismo dilettantesco dei disegnatori non ancora esperti, che sovraccaricano il disegno di particolari e tratteggi mentre non sottolineano con la dovuta determinazione gli elementi più importanti. Il disegno in sé non è comunque sgradevole ma una colorazione semplicistica ed approssimativa ne rende ostica la lettura. Va sottolineata la particolare architettura della tavola: molte vignette vanno lette sequenzialmente in senso verticale e non orizzontale come di consueto. Per fortuna, nei casi più arditi, delle frecce indicano il corretto senso di lettura (col tempo Bilal semplificherà molto le sue tavole, privilegiando spesso le vignette giganti).
Nella Crociera dei dimenticati Pierre Christin aveva come bersaglio l’ottusità dei militari e i loro pericolosi esperimenti segreti, che però stigmatizzava in maniera grottesca ed in fondo anche un po’ bonaria (d’altronde, dopo il ’68 prendersela coi militari era come sfondare una porta aperta). Col successivo volume, Le vaisseau de pierre (Il vascello di pietra), l’attenzione dello sceneggiatore si sposterà sul problema dell’industrializzazione selvaggia e del conseguente tentativo di difendere il proprio patrimonio culturale.


Il paesello di Trehoët (i cui abitanti vivono di pesca, agricoltura o del lavoro nell’arsenale navale) rischia di vedersi imposta una drastica e non voluta modifica strutturale, apparentemente foriera di benessere. Alcuni potenti uomini d’affari hanno deciso infatti di tramutare il villaggio in una località turistica alla moda, poco importa se per farlo dovranno prima radere completamente al suolo Trehoët! per fortuna 50/22 B ed il misterioso abitante del castello sulla scogliera sapranno guidare i paesani verso altri lidi, utilizzando forse per l’ultima volta l’ancestrale “vascello di pietra” che condusse lì i loro antenati.

Il tono favolistico ed un po’ sognante della Crociera dei dimenticati (che ben le vale il titolo di “leggenda”) viene mantenuto anche nel Vascello di pietra ma ci sono alcuni particolari che differenziano la seconda leggenda dalla prima. Sono elementi meno che secondari, ma alla luce dello sviluppo futuro della saga destano un certo interesse. Innanzitutto la localizzazione geografica della vicenda è più dettagliata rispetto alla Crociera dei dimenticati e ciò aggiunge un tocco di realismo in più. E poi va sottolineata la figura del vecchio demente Joseph che, coerentemente col suo passato d’irredentista bretone, è ancora oggi ossessionato dall’idea di “far saltare” tutto e tutti: è un radicale contraltare al generale candore dei paesani (nonché un ottimo capro espiatorio finale, ma alla luce di questa analisi è più rilevante il suo ruolo di drastico inserimento realistico). Tirando le somme, la struttura delle prime due leggende è grossomodo la stessa (i “buoni” e genuini paesani mandano all’aria pacificamente i malsani piani di un gruppo “cattivo” e immorale con l’aiuto di un potere arcano e misterioso) e anche l’atmosfera si mantiene quasi immutata (forse quella del Vascello di pietra è ancora più magica: ci sono addirittura il Mago Merlino e degli strani extraterrestri) ma il seme per una nuova impostazione ideologica della saga è stato gettato.
Nel tempo che impiega a disegnare Il vascello di pietra (la cui realizzazione grafica va dal 1975 al 1976) Bilal compie qualche passo in avanti, ma solo col successivo episodio La ville qui n’existait pas potremo notare una decisa affermazione della sua personalità artistica.
E, come dicevamo, anche Christin cambia registro.
La città che non esisteva (1977) si apre con un bellissimo e fantasmagorico sogno cui segue un brusco risveglio. In fondo, in queste prime tre tavole è già descritto lo sviluppo della storia e quindi la morale che possiamo desumerne. Pierre Christin sceglie stavolta come bersaglio polemico un mito che ha inevitabilmente influenzato il 1968 e quindi anche lui: l’utopia. Un’utopia non metafisica ed astratta, ma decisamente concreta e palpabile: la città ideale teorizzata da Thomas More che tanti danni avrebbe provocato nei secoli a venire. Fedele all’etimologia greca (ou-tòpos: non-luogo), Pierre Christin afferma quindi, nel titolo e nella storia, che questa città non esiste (è, appunto, solo un sogno da cui dovremo svegliarci). Né può esistere, nemmeno se la ricca ereditiera che prende possesso del paese di Jadencourt decide di farne una città ideale in cui nessuno è obbligato a lavorare o ad andare a scuola. Al progressivo incupimento del tono delle leggende d’oggi corrisponde la lenta scomparsa di 50/22 B, ormai quasi solo autista ed accompagnatore della illusa benefattrice Madeleine Hannard (anche se sarà lui ad indicare la strada ai fuggiaschi, questo ruolo poteva essere rivestito da qualsiasi altra figura di contorno). Gli elementi della “leggenda” vanno scomparendo in favore di argomenti più crudi e di un’atmosfera irrimediabilmente intristita. Più che di leggenda si può parlare di “reportage” vista la dettagliatissima cura con cui vengono descritti scioperi e condizione proletaria. O forse, considerando quello che sarebbe successo nell’Inghilterra thatcheriana qualche anno dopo, è quasi più calzante il termine “profezia”. Questa particolarità di registrazione (se non di anticipazione vera e propria) della realtà prende adesso il sopravvento sugli altri elementi della saga.
Gli intermezzi umoristici sono ormai scomparsi, eccezion fatta per il momentaneo ritorno di Joseph che ancora una volta vuole far saltare tutto. La sua comparsata è l’unico momento in cui una nota rimanda ad un episodio precedente in tutta la saga e rappresenta quindi soltanto una strizzatina d’occhio sdrammatizzante indirizzata a chi ha letto Il vascello di pietra. Per il resto, La città che non esisteva non rassicura né consola i suoi lettori (la persistente goffaggine con cui Loulou si muove nel lussuoso palazzo degli Hannard sottolinea drammaticamente la distanza tra i loro due mondi e a nulla valgono i suoi rozzi commenti per risollevare la situazione; e la scoperta che il viscido Blèrancourt vada solo con travestiti e spenda fortune per soddisfare le sue perversioni non è certo un elemento comico ma serve a calcare ulteriormente la mano su questa sua devianza percepita come amoralità).

Con Les phalanges de l’ordre noir (1979) la serie sarà ormai lontanissima per temi ed atmosfere dai suoi inizi. La vicenda non si svolge più in un paesino, anche se in effetti la storia comincia in una piccola località spagnola: Nieves. Ma i 72 abitanti del villaggio non fanno in tempo a far capolino nelle prime tavole che già alla quarta sono stati massacrati tutti. Lo sviluppo delle sorti dei villaggi rurali tanto cari a Christin è sintomatico della sua disillusione. Il caso Liternos veniva insabbiato al termine della Crociera dei dimenticati ma gli abitanti del paese galleggiante avevano comunque ottenuto una momentanea vittoria. Tutto sommato anche gli abitanti di Trehoët potevano ritenersi soddisfatti: erano magicamente emigrati da un’altra parte lasciando gli speculatori con un palmo di naso. Ma a Jadencourt le cose erano andate diversamente: il paese in sé non esisteva più e la tanto attesa città ideale che l’aveva sostituito si era rivelata per alcuni una trappola paranoica. Adesso che stanno avvicinandosi gli anni ’80 i villaggi come Nieves sono irrimediabilmente destinati a sparire. In effetti con Le falangi dell’ordine nero il campo d’azione si espanderà notevolmente ed il tema del paese in lotta contro la violenta modernità sarà sostituito da altri soggetti ben più drammatici ed attuali. Nel caso delle Falangi dell’ordine nero i riflettori sono puntati sul terrorismo.


Un breve dispaccio dell’agenzia Reuter sul massacro di Nieves è sufficiente a mettere in allarme il giornalista Jefferson B. Pritchard. A rivendicare il delitto è infatti un gruppo terroristico d’estrema destra che agisce sotto il nome di “le falangi”. Un dispaccio inviato dal suo vecchio amico Atadell gli rivela che a far parte del gruppo sono gli stessi falangisti che Pritchard, Atadell e i loro compagni delle brigate internazionali hanno combattuto in Spagna quarant’anni prima; senza esitazioni il giornalista contatta i suoi vecchi commilitoni ed organizza una task force di settantenni per eliminare definitivamente le “falangi”, dando loro la caccia per mezza Europa!
Non solo il soggetto è di un’originalità assoluta (tanto che Mario Monicelli fu coinvolto per una eventuale versione cinematografica: i dettagli su Pilot Nuova Frontiera n° 12) ma anche la sceneggiatura ed il disegno rappresentano un punto d’arrivo indiscutibile. Christin infatti ha ormai definitivamente accantonato gli elementi fantastici delle leggende precedenti sostituendoli con un realismo pressochè assoluto (shockante la tempestività con cui si fa menzione del caso Moro) che si manifesta non solo nel rigore documentaristico ma anche in piccoli dettagli che fanno apparire più umane e credibili le singole personalità: ad esempio nei fiori che Pritchard regala alla vecchia amica Maria Wizniewska. Il realismo è tale da introdurre di peso nella saga anche il tema della Morte, che fino a La città che non esisteva era qualcosa di distante, quasi del tutto assente. Ma non si tratta solo della cruenta morte per arma da fuoco: anche un banale raffreddore può rivelarsi fatale per un fisico provato e non più giovane, proprio come nella realtà.
Il “personaggio collettivo” presentato questa volta subisce un drastico e curioso cambiamento: non è più composto dalla piccola umanità marginale delle altre leggende ma da vari esponenti internazionali dell’élite culturale, politica, militare o finanziaria, alcuni forse non troppo diversi dai “cattivi” che volevano rimodernare Trehoët o tramite cui Jadencourt divenne una città ideale. È solo un modo per non ripetersi o la disillusione di Pierre Christin gli fa sperare in una rivoluzione borghese dopo che il proletariato ha dimostrato la sua incapacità di prendere coscienza politica?
Enki Bilal ha raggiunto una tappa fondamentale nella sua carriera e, pur se la maturazione definitiva del suo stile avverrà tra un paio d’anni, ormai è un vero Maestro del fumetto, pienamente consapevole dei suoi mezzi. I fittissimi tratteggi degli esordi ora non sono più caotici e dispersivi ma pienamente funzionali al disegno e magistralmente dosati. Se confrontiamo gli elementi industriali che compaiono nelle prime tre leggende (ruspe, tralicci, ecc.) notiamo come la loro rappresentazione sia sempre più dettagliata e definita dopo una loro prima apparizione come rapidi schizzi. Ma nelle Falangi dell’ordine nero la nuova precisione che caratterizza Bilal sarà ancora più profonda, quasi maniacale. Basandosi evidentemente su una cospicua documentazione, Bilal tratteggia alla perfezione automobili, palazzi ed interni. Ma il suo perfezionismo non scade mai nella leziosità o in un impersonale calligrafismo: i disegni sono pienamente funzionali alla narrazione, anche se il lettore talvolta può abbandonarsi ad ammirare alcuni dettagli, e lo stile rimanda indiscutibilmente, coi suoi nasi rotti e i suoi alberi quasi alieni, all’unico disegnatore capace di concepire simili visioni del mondo.
Le falangi dell’ordine nero non è innovativo soltanto per il brusco cambiamento d’atmosfera e per il maggior risalto che viene dato ad ogni componente del “personaggio collettivo” (50/22 B è ormai meno di un comprimario), ma è rivoluzionario anche nel quadro più generale del fumetto francobelga. La lunghezza della storia è infatti spropositata rispetto alle dimensioni medie di un volume “alla francese”: ben 78 tavole a fumetti contro le solite 46 (o al massimo 62) imposte dalla foliazione. Pilote si stava insomma adeguando alla nuova linea di tendenza inaugurata dalla concorrente (A suivre): lasciare liberi gli autori di creare quanto la loro ispirazione poteva consentire, senza porsi a priori limiti di spazio e durata. Curiosamente, proprio negli stessi anni in America Will Eisner teorizzava e realizzava concretamente i primi “romanzi grafici”.
Altro elemento innovativo è l’inserimento di finti documenti nei fogli di risguardo, in questo caso una fotografia con annotazioni e la “foto di gruppo” disegnata da Bilal per la copertina. L’idea di sfruttare spazi normalmente privi d’importanza con materiale “d’atmosfera” rende la storia ancora più partecipata e le dona una decisiva aura di verosimiglianza che, come dicevamo, sancisce il passaggio della saga da “leggenda” a “reportage”, se non a “profezia”.



Partie de chasse (1983) si aprirà e si chiuderà infatti con le note biografiche dei carnefici e delle vittime protagonisti della vicenda.
Nove uomini si riuniscono in Polonia in una sontuosa reggia immersa nel verde; il motivo della loro rimpatriata è una battuta di caccia. Come apprendiamo dalle note introduttive e dai loro discorsi, i vecchi compagni sono, o sono stati, figure di primo piano nella scena politica sovietica e dei Paesi comunisti dell’Est Europa. Ognuno di loro deve qualcosa a Vassili Aleksandrovich Cevcenko, l’abilissimo tecnocrate che ha organizzato la battuta di caccia, e che oggi è reso muto da una paralisi facciale. Un giovane interprete è stato assunto per far comunicare al meglio gli invitati, ma in realtà (come gli spiega Evgeni Golozov) dovrà intervenire solo nell’eventualità che qualcuno si arrabbi con qualcun altro e voglia rifiutare di parlargli in francese, lingua che tutti i partecipanti alla battuta conoscono. Il suo ruolo appare quindi marginale, eppure gli viene fatto capire, all’inizio della storia, che dovrà rimanere alle strette dipendenze dei 9 uomini: infatti il suo proposito di aiutare uno straniero che ha problemi con la lingua alla frontiera viene subito ed energicamente dissuaso. Lo straniero è 50/22 B, che ricomparirà soltanto dopo 62 lunghissime pagine, intrise di drammatici ricordi, accuse più o meno velate, discorsi e gesti metaforici, incubi inquietanti ed oscuri riferimenti come «le cose serie cominceranno solo DOPO l’arrivo dei nostri ultimi invitati!» o «credevamo che i piani fossero stati cambiati»…
Tra le tante vicende ricostruite dai racconti o dalla memoria emerge la tragica figura di Vera Nikolaevna Tretiakova, vecchio amore di Cevcenko (nonché importante figura rivoluzionaria) sacrificata per la ragion di stato. Il suo fantasma sarà il più difficile da scacciare.
È stupefacente come Pierre Christin riesca a rimanere perfettamente fedele alla struttura narrativa che aveva ideato dieci anni prima e che in Partie de chasse trova piena conferma della sua validità. Ancora una volta infatti sembra di non essere di fronte ad una “storia” ma ad una accumulazione documentaristica (quasi pedante nel suo rigore), che però nelle ultime sequenze trova una sua ineccepibile giustificazione. E tutti quei frammenti che ci vengono proposti nei primi ¾ della storia si rivelano, alla fine, gli indispensabili tasselli del puzzle complessivo che potremo capire solo alla luce delle ultime pagine. L’esasperante lunghezza della storia (addirittura 82 tavole!) è anche un ottimo meccanismo per creare un forte climax e quindi una notevole tensione nel lettore. Ma una tale prolissità ed un realismo così dettagliato lasciano intravedere il pericolo della sclerotizzazione delle leggende d’oggi: Partie de chasse è indiscutibilmente l’apice della saga e sarebbe stato difficile per Christin proporre qualcosa che riuscisse ad andare oltre questa tragica storia così dettagliata, avvincente e partecipata. Infatti con Partie de chasse le leggende sono finite: riprenderemo il discorso più sotto.
Enki Bilal, dal canto suo, apporta ulteriori motivi d’interesse e d’ammirazione alla quinta leggenda. Tra il 1979 e il 1980 il disegnatore era diventato anche sceneggiatore ed unico colorista per un progetto interamente suo: La fiera degli immortali, primo capitolo della trilogia dedicata al suo personaggio Nikopol. Questo fumetto rappresenta una notevole svolta nella produzione di Bilal e un nuovo approccio alla tavola disegnata. L’uso del colore diretto, sperimentato nella Fiera degli immortali, farà infatti di Partie de chasse l’opera a cui universalmente si fa riferimento in Francia per indicare il momento in cui le tavole a fumetti hanno raggiunto non solo la piena dignità artistica ma anche il giustificato diritto di essere vendute e collezionate alla stregua di quadri e altre opere d’arte.


La genesi grafica di Partie di chasse sembra piuttosto tormentata, quasi incerta. Le prime tavole sono infatti l’esito dell’assemblaggio di immagini indipendenti: una tavola è costituita da due “metà” (tra virgolette perché irregolari e mutevoli da pagina a pagina) numerate autonomamente come nel Blueberry di Giraud; ad esempio si nota nella numero 3 l’esistenza di una 3A e di una 3B. L’incastro armonioso ma piuttosto ricercato ed irregolare lascia intuire un profondo lavoro di ricerca e sperimentazione da parte di Bilal, che comunque si abbandona ad una classica e rassicurante tavola unica con il procedere della narrazione. Il fatto che quasi nessuna matita di base venga cancellata contribuisce ad incrementare il forte tono sofferto dei disegni. Trasportato dal pessimismo e dalla disillusione di Christin (che ormai toccano vette altissime), Bilal abbandona l’accumulo di dettagli in favore di un’interpretazione emotiva, quasi espressionista, della storia. Il sangue è onnipresente, anche se in effetti ne viene versato poco: basta parlarne o ricordare quello già passato perché le vignette si tingano di rosso. Il “mostro comunista” di Ion Nicolescu è qualcosa di veramente osceno, e la vendetta ha le invisibili (ma ben presenti) fattezze di un falco lordo di sangue.
Il gusto teratologico di Bilal ha modo di scatenarsi e se ai suoi esordi si manifestava con omaggi a Moebius ben poco spaventosi, ora fa apparire marcio e decadente tutto e tutti, compresi alberi, edifici e uomini.
E proprio sugli “uomini” si concentra il disincanto di Christin, che dopo averlo utilizzato per tutte e quattro le altre leggende abbandona il meccanismo manicheo (e quindi rassicurante) della contrapposizione di due gruppi antagonisti. Il “male” non è più strettamente identificabile con gli speculatori, i militari o i terroristi di destra, ma è qualcosa che ormai pervade ogni rapporto umano e piega tutti gli uomini al suo volere. È superfluo cercare di definirlo o dargli il nome di “Storia”, “natura umana” o addirittura “marxismo”.
I nove uomini di Partie de chasse non hanno bisogno di un gruppo avversario complementare che sancisca la loro “identità positiva”: sono già capaci più che a sufficienza di ammazzarsi l’un l’altro e ognuno ha una fitta rete di rapporti con gli altri che presenta non pochi aspetti oscuri e vergognosi («bisognerà anche che impari a vivere con un sanguinoso segreto, come tanti di noi…» è uno degli insegnamenti che Evgeni Golozov impartisce all’attonito interprete).
Ormai l’aspetto umano è stato scandagliato a fondo e non necessita di ulteriori commenti da parte di Christin per sottolineare la parabola discendente del suo disincanto. Anche la tensione narrativa ha raggiunto il suo limite estremo (anzi, per alcuni detrattori di Christin lo ha già superato) ed obbiettivamente la lettura delle prime 60/70 pagine deve essere molto più lucida ed attenta di quella che il lettore è tenuto ad avere per un qualsiasi altro fumetto (e ricordiamo che di norma in Francia la lunghezza massima di un fumetto è di 62 pagine, mentre in Partie de chasse lo stesso numero di tavole serve appena ad introdurre i personaggi e l’ambientazione!). l’ultimo tassello del mosaico politico e sociale  nato col ’68 è stato posto e sia Christin che Bilal hanno dato  tutto il loro meglio per completarlo. Les legendes d’aujourd’hui possono quindi dirsi concluse, ed è sintomatico che i loro padri si dedichino dal 1984 a realizzare insieme dei finti reporatage su New York, Il Cairo e la “stella dimenticata” Laurie Bloom (fino alla recentissima rimpatriata con Le sarcophage, nella collana Les correspondances de Pierre Christin, Dargaud 2001).
Ma la chiave di lettura definitiva delle leggende sarà data dalla Storia. Se ci soffermiamo a guardare alcuni degli avvenimenti degli anni ’80 come i grandi scioperi di Sheffield o lo scricchiolare ed il successivo frantumarsi dei regimi comunisti, il nome stesso della saga sembra improprio.
Altro che “leggende”, quelle di Christin e Bilal furono delle vere profezie! 



Dopo averne magnificato la qualità e descritto l’altissimo valore, resta l’imbarazzante questione del come leggere in Italia Les legendes d’aujourd’hui. Argomento “imbarazzante” perché di questa serie fondamentale nel panorama fumettistico mondiale esistono poche edizioni italiane ed alcune sono riflessi sbiaditi di quelle francesi. Qualche anno fa Alessandro Editore (un editore che ama i fumetti) ha ristampato egregiamente Partie de chasse, ma purtroppo finora è stato un caso isolato.
La crociera dei dimenticati può forse venire ancora recuperata nel volume brossurato che le dedicarono gli Editori del Grifo (1992). Il costo già all’epoca non era basso (16.000 lire per 64 tavole) e tra le leggende questa riveste senz’altro un ruolo di secondo piano, ma almeno la pubblicazione è integrale e comprende anche il prologo di 9 pagine.
Per le successive quattro leggende le cose si fanno più complicate. La Dargaud si associò alla italiana Fabbri per stampare alcuni volumi tratti dalle opere di Bilal: tra le Storie fantastiche trovarono posto anche Le falangi dell’ordine nero (maggio 1983) e Il vascello di pietra (settembre 1983). Successivamente la Dargaud cambiò partner e insieme a Bonelli editò nel 1984 La città che non esisteva (a luglio) e Battuta di caccia (a novembre). Va detto però che la grafica dei volumi Bonelli-Dargaud è orrenda. Federico Maggioni ebbe infatti la brillante idea di usare come copertina alcuni disegni dei fumetti ingranditi fino a diventare confusi e la testata dei volumi presentava il nome Bilal per quasi un terzo della copertina, mentre Christin veniva relegato ad un misero titolino sopra il nome del disegnatore. Anche se questi libri dovevano costituire una collana ideale dedicata al disegnatore (fu infatti Bonelli-Dargaud a pubblicare anche le sue Storie dell’Oltrespazio) il pochissimo spazio riservato allo sceneggiatore era veramente ingiusto vista la sua importanza.
I quattro volumi della Dargaud sono cartonati, di grande formato e allestiti con una carta robusta che ricorda la patinata opaca. Anche nell’eventualità di poterli rinvenire in qualche fumetteria o alle mostre bisogna tener presente che il loro prezzo potrebbe essere piuttosto alto. Già all’epoca della loro uscita costavano uno sproposito: dalle 8.000 lire di Il vascello  di pietra  alle  15.000 di Battuta di caccia, quando le riviste come L’Eternauta, Totem e Corto Maltese erano assestate sulle 3.000/4.000 lire.
La maniera migliore per leggere alcune leggende d’oggi è procurarsi le prime tre raccolte del Pilot della Nuova Frontiera (ognuna presenta quattro numeri progressivi della rivista), in cui sono presentate integralmente Le falangi dell’ordine nero, Il vascello di pietra e La città che non esisteva.
Partie de chasse fu invece pubblicata su Totem prima serie dal n°28 al n°34.




Pierre Christin nasce a Parigi nel 1938 e si avvicina professionalmente al mondo del fumetto quasi per caso. È infatti solo sul finire degli anni ‘60 che il suo amico d’infanzia Jean-Claude Mézières (tra l’altro, amico di Jean Giraud e suo compagno di classe alle Arti Applicate) gli chiede di stendere un soggetto per una storia. Così nel 1967, dopo il Monsieur Faust scritto da Fred, la rivista francese Pilote ospita un’altra opera disegnata da Mézières: Valerian, primo capitolo di una lunga saga fantascientifica che prosegue tutt’oggi.
Proveniente dall’ambiente accademico, cosa che gli procurerà qualche contestazione da parte di altri autori in forza presso Pilote, Pierre Christin si firma per lungo tempo con lo pseudonimo di Linus, che abbandona progressivamente verso la fine degli anni ’70.
Scrittore raffinato, mai banale e dai molti interessi (oltre che professore e sceneggiatore è anche romanziere) ha realizzato parecchi fumetti con disegnatori tra i più importanti della scena d’oltralpe. Oltre all’avventuroso e dissacratorio Valerian vanno ricordate almeno le sue collaborazioni con Lesueur (varie storie brevi), Bilal (Leggende d’oggi e vari reportage immaginari) e Annie Goetzinger (La diva e il kriegspiel e La sultana bianca).


Contrariamente a Pierre Christin, Enki Bilal opera nel campo del fumetto sin da giovanissimo, da quando aveva vent’anni. Nato a Belgrado nel 1951, si trasferisce in Francia al seguito della famiglia intorno ai dieci anni. Frequenta per un certo periodo l’Accademia di Belle Arti ma rivolge presto la sua attenzione al mondo della letteratura disegnata. Risale al 1971 la sua prima collaborazione con Pilote, cui faranno seguito altri lavori e soprattutto la ripresa della serie Leggende d’oggi  scritta da Christin e disegnata  inizialmente da  Jacques Tardi.
Seguace inequivocabile del Moebius di Cauchemar blanc, Bilal sviluppa nell’arco di tempo che va dal 1974 al 1979 un suo stile personale ed inconfondibile, divenendo a sua volta un punto di riferimento per gli altri disegnatori.
Realizza parecchie storie brevi di ambientazione fantascientifica  e con lo sceneggiatore Jean-Pierre Dionnet dà  vita  allo “one shot” Sterminatore 17.
Gli anni ’80 segnano la sua definitiva consacrazione: non solo viene acclamato per la saga Nikopol, che realizza interamente da solo, ma Alain  Resnais  lo  vuole  come  scenografo  per  il  suo  film  La  vie  est un roman.
Dopo  aver  intrapreso  anche l’attività di regista  cinematografico, è ritornato recentemente (dopo alcuni anni d’inattività) al mondo del fumetto realizzando l’apprezzatissimo Il sonno del mostro.