sabato 31 marzo 2018

Un po' di autopromozione

Questa settimana trovate in edicola il numero 33 di Nuova Ristampa Dago, e col prossimo numero il lunghissimo capitolo sulle Guerre d’Italia arriverà alla conclusione.
Siamo arrivati al culmine del Sacco di Roma ed è anche un momento chiave della saga per assistere alle nuove impostazioni produttive seguite all’arrivo di Carlos Gomez che aveva drasticamente velocizzato la produzione.
Scrivere 10 redazionali collegati sullo stesso argomento, anche se con varie derive, è stata un’esperienza molto stimolante.

mercoledì 28 marzo 2018

Larry Yuma: L'Ultima Sfida

Mai letto Larry Yuma in vita mia, se non forse su qualche Giornalino prestato alle elementari di cui comunque non serbo il ricordo. Ma questo episodio speciale conclusivo mi intrigava e quindi eccoci qua. Ufficialmente quattro mesi dopo la pubblicazione effettiva, risalente a novembre 2017 – ma a Lucca mica l’ho visto, sennò l’avrei preso là. Siccome viene ribadito in più occasioni che Gualandris vorrebbe disegnare Tex e alla conferenza di presentazione a Lucca venne confermato che lo stava facendo, in effetti è probabile che sia uscito ancora prima di quell’occasione.
Delle 48 pagine del brossurato con bandelle solo 22 sono dedicate al fumetto, le altre presentano varie introduzioni e una lunga intervista al disegnatore Gualandris. Ad aprire le danze c’è un intervento nientemeno che di Mauro Boselli, a sancire idealmente il passaggio del disegnatore alla Bonelli.
La storia, organizzata sulle tre strisce bonelliane, è classica nei contenuti ma molto moderna nella realizzazione, affidandosi principalmente ai disegni e alla inquadrature per raccontare la vicenda senza appesantire la lettura con dialoghi e didascalie – queste ultime sono assenti del tutto.
Non conoscendo Larry Yuma probabilmente mi sono perso più di un rimando alla serie classica: L’Ultima Sfida in sé è un tipico canovaccio western che, contrariamente a quanto potrebbe far intendere il titolo e senza voler spoilerare nulla, non pone necessariamente fine alle vicende del protagonista. Non c’è quindi molto da dire sui testi, sia per la strettissima adesione ai dettami del western sia per non anticipare nulla a chi deve ancora leggere la storia.
È il caso invece di soffermarsi sui bei disegni di Giorgio Gualandris, di cui Allagalla pubblicò già anni fa un compendio di lavori intuendone le grandi potenzialità. Il suo stile è solido e robusto, rispettoso dell’anatomia e dei panneggi delle vesti ma anche dinamico ed espressivo. Solo il protagonista (forse ispirato al volto di Nizzi?) è una maschera d’indifferenza, ma immagino sia una cosa voluta e coerente col suo carattere. Gli interni delle abitazioni, gli sfondi e i panorami sono curatissimi, anche se talvolta fisiologicamente sintetici, e in più di una postura ho ravvisato la passione dichiarata di Gualandris per Claudio Villa. La scelta delle inquadrature è poi, come accennato, molto oculata ed espressiva – essendo anche il frutto di uno scrupoloso lavoro di supervisione da parte di Nizzi, come ricordato nel’intervista.
Curiosamente, la qualità di stampa è pessima. Considerando l’ottimo livello degli altri prodotti Allagalla è probabile che la causa vada ricercata nelle scansioni non ottimali che lo stesso Gualandris ha eseguito, e che rendono tutti i tratteggi frastagliati fino a far sparire i più piccoli o amalgamare malamente quelli più vicini tra loro. Ma poiché questo stesso episodio compare anche nell’ultimo integrale di Larry Yuma, dove sperabilmente è stampato meglio, chissà che non si tratti di una strategia per “invitare” a comprarlo e godere così dei disegni di Gualandris come meritano.

lunedì 26 marzo 2018

Orge Barbariche

Prima di procedere all’acquisto di questo volume ho voluto vedere in rete qualche saggio del lavoro di Hartmann, che non mi ha esattamente entusiasmato: a quanto pare, si limitava a modificare le foto con qualche programma. Ma in quest’epoca di stilizzazione estrema e di bozzettismo spacciato per stile, mi andava bene pure un lavoro realizzato così. Invece ho avuto una sorpresa: Hartmann parte sì da fotografie, ma realizza le sue tavole in maniera classica, colorandole con l’acquerello o con le tempere. Graficamente, Orge Barbariche è veramente molto bello. E nel suo genere anche i testi sono decisamente riusciti.
Le protagoniste che si alternano sulla scena sono l’inquisitrice Yevlena, la barbara Zoia e la ladra Hsu. Le dinamiche che muovono le trame sono costanti: Yevlena elimina tramite il sesso i demoni che viene chiamata ad affrontare (traendo sommo godimento nel processo), Zoia finge di essere una selvaggia ingenua per poi rivalersi sui “civilizzati” che si illudevano di aver approfittato di lei e Hsu riesce con la sua astuzia e le sue grazie a cavarsi d’impiccio dalle situazioni in cui i maschi (e non solo) la mettono.
Gli stereotipi del genere fantasy vengono allegramente virati in chiave pornografica e nelle sette tavole di cui si compone ognuno dei sei episodi c’è anche un po’ di spazio per qualche situazione sottilmente ironica (l’abate che ha chiesto l’esorcismo di una succube ne diventa cliente una volta che viene “riconvertita” in prostituta da bordello) nonostante la maggior parte dello spazio sia ovviamente dedicato alle scene di sesso e a un umorismo di grana grossa.
Le protagoniste sono ben caratterizzate, inoltre Hartmann ha saputo creare con pochi dettagli un universo narrativo piuttosto articolato e coerente, e addirittura ha impostato una continuity, evidente soprattutto negli episodi di Hsu.
I disegni come dicevo sopra sono veramente molto belli, l’uso di fotografie (o fermo immagine da film porno) è evidente ma c’è una grande attenzione anche per gli sfondi e soprattutto per le espressioni dei personaggi. Immagino che Hartmann abbia fatto posare degli amici per ottenere la giusta “recitazione” e per usufruire di un campionario di facce che non fossero tutte uguali. In particolare, le sue donne tendono ad avere un naso poco pronunciato, cosa che mi fa pensare che abbia usato la stessa modella per i primi piani modificando poi i disegni a seconda della necessità (Hsu, ad esempio, è asiatica).
A metà strada tra i racconti brevi di Alligo e Gaudenzi per Playboy (ma molto più spinti) e Ironwood di Willingham, questi fumetti si fanno ammirare e leggere con grande piacere. Il formato lascerebbe pensare a una precedente serializzazione su rivista, anche se ormai non credo ne esistano più. Erich Hartmann mi sa tanto di autore spagnolo sotto pseudonimo, tanto più che una taverna si chiama “Nivel XIII”. Curiosamente, ho notato lo stesso problema della scansione da carta per artisti presente in Jonas Fink, qui smussato dall’utilizzo di una carta meno granulosa.
La versione italiana a cura di EF Edizioni presenta qualche refuso nei testi e una punteggiatura decisamente fantasiosa. Inoltre, per quanto possa sembrare assurdo lamentarsene in un fumetto porno, la terminologia usata nella traduzione non sempre mi è sembrata adeguata: cercare di capire cosa vuole dire un personaggio toglie immediatezza ai dialoghi e a una narrazione che invece dovrebbe essere frizzante e spedita, e in più di un’occasione mi è sembrato che si sia perso per strada un gioco di parole.
Spero vivamente che questo volume non resti isolato e abbia un seguito, perché le vicende delle tre eroine sono appassionanti e finora hanno appena cominciato a ingranare.

sabato 24 marzo 2018

Stranger Things?

…wrongest things, altroché!
Da qualche anno non seguo più serie televisive. Al di là del fattore tempo, l’offerta è troppa e di qualità troppo elevata. Dedicare 8 o 12 ore (o anche più) a guardare una stagione della serie più à la page significa sottrarre 8 o 12 ore alla visione delle altre serie celebrate unanimemente come capolavori. Quindi, per non correre il rischio di perdermi un capolavoro me li perdo direttamente tutti.
L’unica che mi aveva suscitato una certa curiosità in questi ultimi anni è Stranger Things, per l’elemento dei giochi di ruolo che ha attirato anche altri miei amici. L’ultimo dei quali ha visto tutte e due le stagioni la settimana scorsa abbonandosi a Netflix. Solo che riassumendomi per sommi capi certe scene ha evidenziato certe licenze che si sono presi gli autori…
I ragazzini giocano al Dungeons & Dragons classico, il BECMI, ma tra i mostri che usano c’è un Mind Flayer: gli Illithid nel vecchio D&D non c’erano!
E quando uno lancia una palla di fuoco FA UN TIRO PER COLPIRE. Un tiro per colpire con una palla di fuoco!!!
Si è fermato prima di sciorinarmi altre turpitudini.
e questo sarebbe un mind flayer?!

mercoledì 21 marzo 2018

Jonas Fink: Una Vita sospesa

Prima di procedere a parlare del fumetto, un paio di prediche nel deserto. Sono lunghe e noiose, pertanto le metto dopo una riga vuota per evidenziarle e agevolarne il salto.

PREDICA 1. Gli acquerelli vengono prodotti mescolando i pigmenti con dei leganti opacizzanti. Quindi, indipendentemente dalla tipologia di colore ad acquerello che viene usato e dalla sua marca (anche se ci sono delle differenze, ovviamente) quello che tecnicamente viene chiamato “medium”, cioè il mezzo tramite cui si può usare questa tecnica, è l’acqua. Come per gli acrilici e le tempere. Solo che a differenza di altri tipi di tecniche di pittura, che mantengono una matericità più o meno marcata, la caratteristica principale degli acquerelli è di essere trasparenti e di venire veicolati dal medium stesso che ne consente l’utilizzo, senza il quale rimarrebbero inerti. I colori a olio hanno bisogno dell’olio per reagire tra di loro, la gouache potrebbe anche essere spalmata sulla tela così com’è, quello che invece nell’acquerello è sia medium che colore stesso è l’acqua. La china colorata si può anche usare così com’è, come i lumacolor e le ecoline, ma gli acquerelli necessitano di acqua per sciogliere il pigmento solidificato nei panetti e trasformarlo in quella che sostanzialmente è acqua colorata.
A meno che non si usino tubetti di acquerelli liquidi, ma il discorso non cambia e ci porta sempre lì: la tecnica dell’acquerello necessita di una carta particolare per essere impiegata a dovere, a meno che non si vogliano ottenere effetti diversi da quelli canonici. Se applicata su una carta molto leggera, come ad esempio quella comune usata per le stampanti, l’acqua trasuderà da parte a parte rovinando tutto e al massimo (a meno che non si sia passato il pennello quasi secco) rimarrà una vaga traccia screpolata del colore, e una carta ondulata una volta asciugata. Se non sbaglio, Milazzo buttò via la versione a colori di un episodio di Ken Parker proprio perché aveva dato i colori su carta da fotocopie che, deformata dall’azione dell’acqua, non combaciava più con i disegni delle tavole originali. Un po’ diverso il discorso per una carta di tipo lucido: in quel caso, a seconda della grammatura, la pennellata rimarrà sospesa ancora liquida come le gocce sul lavello dopo che avete lavato i piatti, e si asciugherà molto lentamente cagionando gli stessi problemi, illustrati sopra, di quella leggera.
La carta per dipingere con gli acquerelli deve essere insomma spessa e porosa, perché l’acqua deve essere assorbita. In commercio le marche più importanti offrono delle cartelle specifiche prodotte in serie, ma a volte anche queste possono rivelarsi troppo sottili o leggere. La carta per acquerello per eccellenza è quella che le cartolerie e i negozi specializzati vendono al metro o in apposite cartelle in cui i singoli fogli sono incollati tra di loro e devono essere scollati con un tagliacarte. Beninteso, dei fogli ruvidi Fabriano o Schoeller possono senz’altro offrire un buon campo di prova, ma se uno vuole correggere in corso d’opera un acquerello o abbondare con l’acqua per ottenere degli effetti particolari, deve utilizzare questa carta particolare.
Questo tipo di carta viene realizzato estraendo le fibre dalla cellulosa, da vecchi stracci pressati e soprattutto (almeno così dicono) dal cotone, il tutto amalgamato e fatto pressare per bene nelle macchine continue in tondo. Proprio la presenza del cotone e di altri elementi dona a questi fogli di carta il caratteristico colore leggermente brunito, invece che il candore tipico delle altre carte. Questo procedimento serve a garantire all’acquerellista il massimo controllo su una tecnica che per sua natura è istintiva, immediata e potenzialmente soggetta al caso: non solo una pennellata meno umida di un’altra genera un effetto diverso, ma l’acqua potrebbe anche reagire diversamente a temperature differenti. Il risultato finale è che questa carta presenta sulla sua superficie tutta una serie di ondulazioni a volte molto marcate, con occasionali pezzetti di stoffa che riemergono qua e là a testimonianza del procedimento necessario per realizzarla. Non è un caso che in epoche più civilizzate della nostra, quando i colori dei fumetti non si facevano col computer, vigesse l’abitudine delle “blu” (o “grigie” a seconda del caso): fotocopie ridotte delle tavole originali in bianco e nero realizzate proprio su questo tipo di carta, o comunque su una non lucida, perché per il disegnatore sarebbe stato impossibile, o comunque molto difficoltoso, disegnare con il pennino su una carta così ruvida e porosa.
Quando Laura Battaglia, Patrizia Zanotti o lo stesso Giardino coloravano le tavole originali opportunamente fotocopiate sulla carta giusta non sorgevano problemi in fase di fotocomposizione e stampa analogica: delle macchine appositamente create fotografavano le tavole e poi le scomponevano nei quattro colori primari per produrre le relative pellicole che sovrapposte avrebbero ricreato l’effetto d’insieme (o ci sarebbero andate vicine il più possibile). Questo procedimento è di fatto identico alla fotografia dei quadri nei musei: sottoposta a una pioggia di fotoni, la superficie fotografata rivela solo le sfumature della sua patina esterna senza che vengano rilevate le asperità della carta o della tela come i grumi di colore e ogni altro eventuale effetto estemporaneo: se l’autore voleva che una superficie fosse di un bianco compatto, non appariranno gli eventuali difetti che potrebbero inquinarlo, fosse anche solo la trama della tela.
Purtroppo, come avevo già intuito da L’Avventuriero prudente, Vittorio Giardino non si affida più al vecchio metodo di fotocomposizione, ma produce in prima persona la scansioni da sottoporre agli editori. Anzi, fa addirittura lui in prima persona le prove di colore a seconda della carta da usare per i libri, come ha recentemente detto in un’intervista su Fumo di China. Purtroppo così facendo la luce che serve a imprimere le immagini non è più frontale e diretta (o non più solo frontale) ma a quanto pare è anche radente, e così tutte quelle asperità della carta per acquerello di cui ho parlato prima si vedono in maniera inequivocabile. Un po’ come il vecchio giochetto della matita passata sulla carta per far risaltare la moneta messa sotto il foglio. Un risultato che andrebbe anche bene per un catalogo di acquerelli, dove intuiremmo il “dietro le quinte” del lavoro dell’autore, ma che non è adatto a un fumetto.
Questo effetto non è forse evidente per chi non abbia confidenza con la cosa, ma proprio la raccolta in volume rende lampante la differente resa tipografica tra i primi due capitoli di Jonas Fink e l’ultimo. In pratica il colore compatto e uniforme non c’è più, per quanto fosse quello l’effetto voluto in origine. Curiosamente, questo difetto a volte può anche tornare utile: i muri, ad esempio, sembrano essere volutamente sgranati a simulare un intonaco ruvido. Tutto il resto, però, ne soffre terribilmente: il vetro perde ogni trasparenza, la ceramica non è più lucida, così come nemmeno il metallo. Gli abiti, i capelli, la stessa pelle dei personaggi: tutto marmorizzato. I cieli, poi, sono spesso pesantissimi e incombono con le loro sgranature non volute, come l’acqua dei fiumi e delle pozzanghere, che l’acquerello dovrebbe invece rendere limpida. È come se le tavole fossero state coperte da un vetro smerigliato – certo, la resa finale è migliore di quella che ho evocato con questo paragone, ma l’impressione è quella. Che sia un effetto voluto, a simulare di aver sfumato certi dettagli con le matite colorate? Ne dubito. Prendiamo le vignette centrali di pagina 250 o quelle nella parte più bassa di pagina 263: siccome le scene si svolgono rispettivamente di notte e all’interno dell’abitacolo di una vettura, Giardino ha fatto ricorso a un ulteriore passaggio di colore (su quello “naturale” sottostante) per materializzare le ombre sui personaggi e sui decor. Ma la scansione che ne deriva non ha generato il colore compatto che avrebbe dato drammaticità (o almeno una maggiore profondità) ai soggetti rappresentati: al contrario, sembra che siano immersi in acque torbide.
Altro problema: rilevando impietosamente lo scanner le asperità della carta, vengono registrate anche le diverse altezze sul foglio di carta (per quanto minime) a cui si trovano i tratti del disegno a china una volta riprodotto su questa carta speciale. Come ricordato sopra, le tavole in bianco e nero vengono infatti realizzate su carta liscia, dove il pennino scorre senza intoppi e dove la china non viene assorbita ma rimane sospesa sul foglio cristallizzandosi e producendo quindi un effetto di maggiore nitidezza. Una volta che le fotocopie colorate vengono scansione, questo si traduce in un leggero tremolio più evidente nei tratti più sottili, anche se pure quelli più marcati presentano delle ondulazioni indesiderate. Non siamo ai livelli delle pixellature ormai onnipresenti, ma comunque è un peccato e non rende giustizia alla minuziosa precisione di Giardino.
PREDICA 2. Nella già citata intervista su Fumo di China Giardino ha detto che i responsabili editoriali della Casterman hanno ritenuto opportuno ristampare in Francia i primi due capitoli in un solo tomo per accompagnare l’uscito del terzo e conclusivo. La Rizzoli Lizard si è spinta ancora più in là, facendo direttamente un integrale! Apprendo da Bedetheque che la Casterman ha pubblicato i suoi volumi in un “autre format” rispetto al solito e spero vivamente che non si tratti di una versione più grande del classico 20x30 ma che li abbiano stampati piccoli come ha fatto la Rizzoli Lizard. “Piccoli” relativamente, perché si tratta pur sempre del 19x26 con cui venne già riproposto No Pasaran, che faceva la sua brava figura anche se un po’ rimpicciolito. E d’altra parte, proprio come nel caso dell’edizione precedente di No Pasaran, non sarebbe stato piacevole trovarsi con volumi cartonati di grandi dimensione ma di altezze diverse visto che nell’arco di tempo che Giardino aveva impiegato a finire tutti e tre quegli episodi di Max Fridman, la Rizzoli Lizard aveva nel frattempo cambiato tipografia.
È anche vero che avendo lo stile di Giardino parecchie affinità con la ligne claire si presta molto facilmente, proprio come i fumetti di Hergé e di Jacobs, a essere ingrandito o rimpicciolito senza particolari traumi. Il suo segno, in questo integrale, si legge benissimo e non è affatto sacrificato. Ma stiamo parlando di Vittorio Giardino: in Italia i suoi lettori sono veramente così pochi da sconsigliare all’editore di uscire con un volume dal formato standard (che probabilmente per il cambio di tipografia che ho ricordato sopra non sarebbe stato proprio uguale, ma almeno lo sforzo ci sarebbe stato) attirandolo invece con una “offerta promozionale”, perché l’integrale un po’ lo è? E se anche i calcoli della Rizzoli Lizard fossero stati così corretti, e sicuramente l’editore ha più elementi di me per dirlo, non avrebbe potuto pubblicare, oltre a questo integrale, un volume come quelli vecchi, cartonati con sovraccoperta, in tiratura limitata per i pochi (pochi?) appassionati che già possiedono i primi due? È innegabile che la scelta dell’integrale invita naturalmente a una lettura organica, la stessa che ho fatto io, così come è vero che per una mera considerazione economica sia molto vantaggioso per un lettore spendere 29 euro per godere di oltre 300 tavole di Giardino, ma io avrei sicuramente comprato un eventuale volume singolo, fosse anche costato un po’ di più. Anche perché lo spazio dedicato all’introduzione avrebbe potuto essere gestito meglio, valorizzando le immagini e posizionando il testo in maniera più ariosa, come succede nei precedenti due volumi pubblicati dalla Lizard.
Certo, di questi tempi è già tanto che Jonas Fink non l’abbiano pubblicano in formato bonellide (sono l’unico a trovare paradossale che negli ultimi anni molti editori si siano affannati a uscire con proposte 16x21 quando la Bonelli stessa sta sondando il mercato con altri formati?) ma l’annunciato integrale di Blacksad, ordinato prima di Jonas Fink ma non ancora arrivato, dovrebbe essere in un bel 24x32. Per la Rizzoli Lizard produrre anche quest’ultimo Giardino in quel formato sarebbe stato veramente tanto più dispendioso? Ci sono forse degli accordi con le tipografie o con gli editori esteri per uniformare il formato?
Il volume della Rizzoli Lizard comprende anche un’introduzione di Giardino, che mi sembra più che altro un aggiornamento di quanto scrisse su Il Grifo oltre 25 anni fa, nove pagine di contenuti extra (schizzi, appunti e parte della documentazione usata) e due pagine con bibliografia e nota biografica.

Questo fatidico terzo e ultimo episodio di Jonas Fink, dunque. Giardino mi aveva espresso tre Lucche fa il suo timore (anzi, la sua fondata certezza) che non sarebbe piaciuto. Non so come è stato accolto da altri, io l’ho trovato stupendo.
È un po’ difficile ripercorrere sinteticamente 161 tavole, e anche ingiusto per chi non ha ancora letto Il Libraio di Praga, tanto più che si tratta di una lettura impegnativa che richiede un tempo di lettura molto lungo, anche senza volersi soffermare tutti i particolari di cui è saturo. Le pagine sono molto dense anche se apparentemente “non succede nulla”: in realtà è solo un artificio narrativo splendidamente usato da Giardino per rendere ancora più deflagrante la brusca sterzata che prenderanno la storia dei protagonisti e la Storia del XX secolo verso la centesima tavola.
Jonas è subentrato a Pinkel nella gestione della libreria e sembra aver trovato un po’ di pace, anche grazie a un’affascinante ragazza vietnamita. Il destino di suo padre è finalmente svelato, ma la nuova situazione avrà a sua volta frustranti strascichi burocratici anche in questa “nuova Cecoslovacchia” in cui il vento riformista vuole riparare agli errori passati. In un magistrale gioco di specchi (che riflette la realtà storica) i persecutori adesso sono i perseguitati e i molti personaggi che abbiamo conosciuto nei capitoli precedenti sono coinvolti in un balletto di avvicinamento e allontanamento in cui i ruoli sembrano invertirsi, ma sempre con la costante di una pervasiva paranoia. Più che giustificata: qualcuno si sta muovendo nell’ombra e la fatidica Primavera di Praga del 1968 non durerà ancora a lungo.
Jonas ha un ulteriore grattacapo: dalla Russia è tornato il suo primo amore, che si è veramente fatta donna mentre al termine de L’Adolescenza era ancora ritratta come poco più di una bambina. Gli eventi precipiteranno e il vecchio Gruppo Odradek verrà preso di mira dalla restaurata autorità.
Jonas non è un eroe, ma è una persona reale (persino un po’ bruttino), è evidente che la sua vicenda e certi suoi comportamenti siano stati ispirati a Giardino dalla conoscenza di prima mano di persone che furono testimoni o protagonisti di vicende analoghe.
La storia è sospesa tra malinconica rassegnazione (apprendiamo anche la sorte della madre di Jonas Fink) e la leggerezza che probabilmente respiravano i giovani nella Praga dell’agosto 1968. Curiosa una certa deriva da commedia pecoreccia in un paio di situazioni che coinvolgono l’idraulico Slavěk, che a ben guardare c’era già in sottotraccia nei capitoli precedenti. D’altra parte era necessario bilanciare la tensione di certe sequenze con altre più lievi. Il tutto, ovviamente, fino al momento che, come in un musical, il lettore avvertito si aspetta e sa già che dovrà manifestarsi per determinare le sorti dei personaggi. Ma a differenza di un musical, il finale non sarà altrettanto gioioso.
Giardino scrive in maniera coinvolgente ma non risparmiando dove sia necessario una certa ironia, che anzi viene sparsa generosamente. Probabilmente è l’unico a scrivere ancora delle didascalie come «infatti» e «più tardi», ma non si tratta di passatismo, bensì di un sapiente uso del linguaggio fumettistico, visto che quelle didascalie contrappuntano sarcasticamente due situazioni che dovrebbero essere concordanti e invece si contraddicono. Non mancano anche momenti di grandissimo lirismo e la sequenza nella galleria degli specchi (omaggio a Orson Welles?) è qualcosa di memorabile. Tatjana Gostrova, poi, si candida a essere il personaggio femminile più affascinante che Giardino abbia mai creato.
L’unica critica che posso muovere a Il Libraio di Praga (ma giusto per dire qualcosa) è che il cameo di Francesco Guccini è un po’ stonato, fuori posto. Certo, ne Il Libraio di Praga compare anche Vincenzo Mollica (e chissà quanti altri volti noti che non sono riuscito a identificare), ma lui ha solo prestato volto e stazza a uno dei personaggi. Guccini, seppure non nominato, è proprio lui. Sulle prime ho pensato che fosse parte della documentazione e che Giardino avesse scoperto che il cantautore si trovava a Praga proprio in quel periodo, e d’altronde Primavera di Praga è una delle canzoni più famose di Guccini, ma Giardino lo disegna così com’è oggi e non 50 anni fa, oltre a fargli accennare L’Avvelenata che avrebbe composto solo una decina di anni dopo.
Se l’unico appunto che posso fare ai testi de Il Libraio di Praga è questa sciocchezzuola, dal punto di vista dei disegni l’ultimo capitolo di Jonas Fink è semplicemente inattaccabile. Ricordo che gli ultimi di Max Fridman[link] mi avevano un po’ colpito per una certa semplificazione grottesca che aveva vagamente intaccato la proverbiale eleganza di Giardino, così come l’uso del pennino mi era sembrato più marcato, a volte un po’ grossolano nel definire contorni e volumi. Evidentemente si trattava solo di una fase passeggera, perché ne Il Libraio di Praga la proverbiale meticolosità dell’autore è coniugata a una realizzazione quanto mai felice e riuscita.
Ogni tavola è un profluvio di dettagli che meritano di perdere ore a farsi gustare. Nell’ammirare l’espressività dei volti si può ben giustificare tutti gli anni che Giardino ci ha fatto sospirare per questo ultimo capitolo.
Una cura maniacale, oltre che quella proverbiale per i dettagli apparentemente più insignificanti, viene riservata alle mani, incredibilmente espressive: quanto tempo avrà speso Giardino in schizzi e schizzi prima di trovare la tensione giusta, la posizione più narrativa… e il dinamismo delle sue figure… io ho sempre avuto l’impressione che nelle scene d’azione Giardino volesse mettersi alla prova, rendere evidente quanto avesse padroneggiato la capacità di far correre o saltare in maniera naturale e realistica i suoi personaggi. E anche stavolta c’è riuscito: senza ricorrere a linee cinematiche, ha reso a meraviglia (un esempio su tanti) la falcata di Jonas che si spinge in avanti sotto la minaccia dei carri armati russi, mantenendo sempre le proporzioni corrette e senza un tratto che non sia al posto giusto, con i lembi della giacca sollevati esattamente come dovrebbero essere.
Il Libraio di Praga merita di essere ricordato come l’evento fumettistico del 2018. Oltre alla qualità eccellente di testo e disegni, è veramente la chiusura di un cerchio – per quanto sia una formula abusata. Con questo fumetto Giardino non ha solo concluso definitivamente le vicende del suo protagonista, ma in qualche modo ha anche reso drammaticamente tangibili i mutamenti di una società che inevitabilmente faranno riflettere il lettore su cosa è successo nel mondo nell’ultimo scorcio del XX secolo, e nella sua vita tra la prima apparizione di Jonas Fink e questo volume.
Il Libraio di Praga offre insomma un grande coinvolgimento, un protagonista vero, dei comprimari eccezionali, una ricostruzione scrupolosissima e una sensazione di malinconico rimpianto.
Nel mio caso, anche per gli anni in cui i fumetti erano fotocomposti e stampati in grande formato.

lunedì 19 marzo 2018

Daredevil 6: Serpenti

Il ciclo di Waid su Daredevil si avvia alla conclusione e in questo sesto volume della collezione siamo arrivati al trentesimo numero (su 36) della collana regolare americana. In realtà gli episodi di Daredevil sono solo tre, mentre il resto del volume (più smilzo dei precedenti) è occupato da due numeri di Indestructible Hulk, che all’epoca era scritto dallo stesso Waid.
Serpenti è il volume peggiore tra quelli usciti finora. Non che le storie siano proprio brutte, ma sono piuttosto scialbe e insapori, a maggior ragione se le confrontiamo con quanto scritto da Mark Waid in precedenza. D’altra parte era difficile che una qualità molto elevata potesse venire mantenuta indefinitamente per tutta la durata della serie.
I primi due episodi vedono Matt Murdock assoldato da un suo conoscente d’infanzia che era il più tremendo dei bulli che lo tormentavano. Il caso riguarda un suo coinvolgimento con i Figli dei Serpenti e il piano messo in atto da questa società di criminali razzisti è veramente esagerato e inverosimile. I discorsi su bullismo, colpevolezza, vittimismo e riscatto non sono nulla di particolarmente originale.
Il terzo capitolo è un team up con Silver Surfer, una sciocchezzuola volutamente leggerina in cui (se ho ben capito) Waid si inventa un villain usa-e-getta solo per giustificare il coinvolgimento dell’ospite d’onore e l’utilità di Devil nell’affrontare il nemico.
Anche gli ultimi due episodi che chiudono il volume sono un team up, stavolta con Hulk. La trama è molto semplice e si risolve in una storia adrenalinica e fracassona. Se ho ben capito, all’epoca la rilevanza di questi episodi risiedeva nel fatto che veniva svelato ai lettori di Indestructible Hulk qual era il contatto misterioso che Bruce Banner usava come garanzia per proteggersi dallo S.H.I.E.L.D. (ovviamente si tratta di Matt Murdock/Devil). Del Waid che apprezzo in questi due episodi c’è ben poco, anche se la scena dell’ingresso nel bar frequentato da criminali è divertente.
Da notare come la Panini deve aver evidentemente preso queste storie tali e quali le aveva pubblicate in spillato la prima volta, visto che in una nota viene specificato che in America Daredevil si chiama appunto così e non Devil, quando la dicitura rispettosa dell’originale adesso campeggia sin dalla copertina di questi volumi!
Per quel che riguarda la parte grafica, Javier Rodriguez (disegnatore dei primi due capitoli, inchiostrati da Alvaro Lopez) realizza un lavoro dignitoso, Chris Samnee (autore del team up con Silver Surfer) è troppo cartoonesco per i miei gusti e il Matteo Scalera che disegna Hulk sfoggia una stile squadrato e fitto di segni che lo rendono quasi deformed. Forse nel suo genere Scalera è un maestro, ma non è decisamente il tipo di disegno che piace a me.
I colori vengono dati da Val Staples nella parte di Hulk mentre lo stesso Rodriguez realizza quelli di Devil, con un piglio saturo e pop art che ben si adatta alle storie.

sabato 17 marzo 2018

La grande e rapidissima popolarità dei manga...

…si vede anche da questi dettagli: già nel 1979 la rivista locale La Cantada, che esce a Monfalcone in numero unico in occasione del carnevale, usò l’immaginario dei cartoni animati giapponesi per satireggiare sui politici locali sin dalla copertina. Lo “strillo” tradotto in italiano (come se ce ne fosse bisogno) significa «Con Goldrake e con Mandrake non andrà a finire tutto in malora?».
Mi pare che la citazione del mago in marsina (assolutamente fuori luogo rispetto ai manga e agli anime) sia una licenza poetica più che legittima per esigenze di metrica e assonanza musicale: ovviamente la pronuncia proposta è “Mandràche” e “Goldràche”.
La qualità dell’immagine fa cagare, lo so, ma ho dovuto rifarmi alla riproduzione minuscola che compariva sulla copertina del numero de La Cantada del 2000, visto che non sono mai riuscito a mettere le mani su questo numero del 1979 e che su internet non si trova nessuna immagine al riguardo.

giovedì 15 marzo 2018

Historica Biografie 11: Saladino

La collana Historica Biografie prosegue il suo cammino mantenendo alta la qualità dell’offerta. In Saladino sfilano la vita e le imprese politiche e militari di Salah al-Din, in cui curiosamente le lotte contro i Crociati rivestono un ruolo quasi marginale essendo concentrate nella seconda metà del volume. Il fumetto si concentra infatti nella prima parte sulla lotta interna all’Islam tra corrente sunnita (quella di Saladino) e sciita. Le battaglie vengono relegate sullo sfondo, nei dialoghi dei personaggi, tanto che diventa liberatoria, e probabilmente è un effetto voluto, la prima raffigurazione di uno scontro titanico che a metà del volume occupa addirittura una doppia tavola.
Lo sceneggiatore Mathieu Mariolle è molto bravo a inserire con naturalezza negli scambi di battute tra i protagonisti tutte le informazione di cui ha bisogno il lettore, e fa saggiamente ricorso all’espediente della storia narrata dal segretario/biografo di Saladino per mantenere l’ambiguità su certi episodi della vita di Saladino di cui è impossibile verificare la veridicità. Il meccanismo tende però a ingolfarsi proprio dopo la citata doppia tavola del 25 novembre 1177, quando si susseguiranno tanti altri avvenimenti da far pensare che forse sarebbe stato meglio sviluppare questa biografia in due volumi.
Ai disegni Roberto “Dakar” Meli, già autore di Robespierre propone un valido lavoro, con un tratto realistico ed espressivo. La sua particolare cifra stilistica per cui abbonda di segni molto modulati, che lo apparentano un po’ a certi disegnatori nordamericani deformed (beninteso, Meli è mille volte meglio di questi imbrattacarte statunitensi), rendono alcune delle immagini vagamente grottesche, effetto comunque non disprezzabile. I colori digitali dell’Arancia Studio sono senz’altro suggestivi, ma purtroppo tendono a soffocare il lavoro del disegnatore.
L’appendice storica curata da Julien Loiseau non aiuta a chiarire gli aspetti della vita di Saladino solo accennati nel fumetto, tanto più che per buona metà si occupa delle situazione precedente all’ascesa e alla nascita stessa del condottiero. E anche il “making of” stavolta offre poco materiale aggiuntivo, limitandosi a constatare l’impossibilità di ricostruire il vero pensiero del Saladino, di cui non si hanno nemmeno testimonianze attendibili sulle vere fattezze!

domenica 11 marzo 2018

Il Bus

Paul Kirchner nutre una passione per gli autobus che sfocia nel feticismo. Le sue tavole sono costituite da due strisce sovrapposte in cui i mezzi di trasporto vengono ritratti con calligrafica precisione e sono protagonisti, testimoni o semplice sfondo di situazioni surreali. Le uniche due altre costanti delle sue strisce (ma ben poco costanti) sono il proverbiale travet pelato con occhiali e impermeabile e un segaligno conducente.
È impossibile portare qualche esempio dell’umorismo di Kirchner senza rovinare la sorpresa, cosa che è stata fatta regolarmente in entrambi i risguardi della copertina, per cui non lo faccio. Immaginate le possibili derive fantastiche che può avere la situazione di partenza di un uomo che aspetta un autobus, e combinatele con le potenzialità offerte dal fumetto di giocare con i contorni delle vignette o con l’ambivalenza di un segno: da lì Kirchner sviluppa un suo discorso di volta in volta metafisico, fantascientifico, parodistico o semplicemente non-sense.
Il fumetto underground e l’opera di Möebius e Druillet sono le influenze dichiarate dell’autore, e soprattutto dei primi due si trova traccia nel fitto tratteggio di Kirchner, che in un’occasione risale il suo albero genealogico artistico fino all’incisione ottocentesca. Il suo segno grosso e poco modulato gli preclude espressività e dinamismo troppo accentuati, il che alla fine fa il suo gioco rendendo le sue strisce ancora più stranianti nella loro contemplativa austerità.
Con Il Bus si sorride e ogni tanto si ride di gusto, e nel frattempo ci si può gustare lo stile simpaticamente raffinato di Kirchner. Più o meno: anche la tipografia a cui si è affidato Barta Edizioni trasforma le linee rette in segni dentellati, come ormai ben pochi riescono a evitare che succeda.
Nella postfazione (e in un disegno che l’accompagna) viene citato un secondo volume de Il Bus, spero di vederlo presto.
Una curiosità: credo di aver letto il primo fumetto che Kirchner fece per Heavy Metal, in un vecchio numero che acquistai in Inghilterra più di 25 anni fa! Una simpatica storiella fantasy sui tarocchi, ammesso che fosse quello.

giovedì 8 marzo 2018

Il fascino degli abbonamenti delle riviste d'Autore

Una cosa che mi affascinava moltissimo delle riviste d’Autore degli anni ’80 e ’90 erano le condizioni d’abbonamento, che ancora oggi rivivo con rimpianto per non aver avuto l’età giusta (e quindi la possibilità economica) per permettermi a suo tempo.
Come dice Ranieri Carano nelle sue memorie Gli Anni di Linus in Oriente Express «l’abbonamento è quella cosa che piace pochissimo al distributore e moltissimo all’editore». E quindi EPC, Primo Carnera Editore, Nuova Frontiera e compagnia spingevano su questa forma di acquisto con proposte spesso terribilmente allettanti.
C’era insomma il massimo interesse a costituire una base solida di abbonati che anticipando il costo di un’intera annata di Frigidaire, Comic Art, Corto Maltese permettessero alla rivista e al relativo editore di avere un bel po’ di ossigeno e di pianificare con una certa tranquillità gli investimenti editoriali. Lo stesso Carano in altra parte dei suoi ricordi ospitati da Orient Express segnala quanto gli abbonati fossero stati fondamentali per la sopravvivenza stessa di Linus durante il suo primo travagliato anno di vita.
E proprio la rivista della Milano Libri aveva inaugurato vari metodi per attirare lettori, che successivamente sarebbero sfociati in partnership persino con rivenditori di impianti hi-fi e costruttori di yacht! Quasi dieci anni più tardi, quando Alterlinus esordì nel 1974, le offerte per abbonarsi alle due riviste avevano raggiunto un intricato sistema di corrispondenze che comprendeva offerte differenziate e condizioni d’abbonamento variabili. Ovviamente i volumi a fumetti riservati agli abbonati e i “doni segreti” erano quanto di più appetibile per un appassionato di fumetti.
Considerando le mirabilie fumettistiche che offrivano gli altri editori, sembrano poca cosa, per quanto probabilmente fossero convenienti, le valige (!), gli walkman (!!), gli ingrandimenti di Corto Maltese (!!!) e le altre offerte che invece proponeva la rivista Corto Maltese nel tentativo di accattivarsi un pubblico che non fosse solo quello di fumetti.
Quando non si disponeva ancora di un catalogo, offrire ai lettori qualcosa di più di un semplice sconto era una bella sfida alla creatività degli editori. 1984 dell’editore Puleio, uscita nel 1980, nei primi numeri non contemplava nemmeno la possibilità dell’abbonamento ma comunque fungeva da tramite per la vendita di poster. Frigidaire, dal canto suo, trovandosi nella stessa situazione (qualche copia di Cannibale sicuramente era ancora stazionata nei magazzini ma forse non era ritenuto così appetibile) cercava di convincere i suoi potenziali abbonati a fare il fatidico vaglia offrendo in cambio un disegno originale fatto appositamente da una delle star della rivista. Una cosa che all’epoca poteva trasmettere un senso di improvvisazione e povertà ma che dalla giusta prospettiva rivela la sua natura di investimento felice: un amico di un amico di un tizio che conosco (giuro) dice di aver ricevuto anche un disegno a matita di Silvio Cadelo in aggiunta a quello che aveva richiesto, di Tanino Liberatore.
Anche Totem fece il suo ingresso sulla scena del fumetto italiano nel 1980, ma non si sarebbe avventurata a fare condizioni speciali per abbonati prima del 1984, con il numero 31, quando evidentemente la necessità più urgente di liquidi si coniugava a quella di sfoltire un po’ un magazzino di invenduti che gravava sull’editore. E così ecco che con 36.000 lire un lettore si portava a casa non solo la rivista in abbonamento, ma anche un pacco con materiale di valore equivalente, in cui aveva una certa libertà di scelta (l’abbonamento senza dono ammontava a 30.000 lire). In precedenza, la Nuova Frontiera si era avventurata solo nell’offerta di un poster gigante di Moebius a chi avesse comprato arretrati per un valore di almeno 25.000 lire.
Ma non tutti sembravano così propensi o creativi nell’ideare condizioni favorevoli e invoglianti per un abbonamento. Il Pilot di Bonelli-Dargaud, per dire, non andava oltre uno sconticino (40.000 lire invece di 42.000 quando costava 3.500 lire, 45.000 invece di 48.000 quando ne costava 4.000), decisamente più appetibile, ma non di molto, quando lo si estendeva anche alla collana degli Albi di Pilot. Vista la scarsa convenienza pareva una delle tante (troppe) boutade con cui Sclavi infarciva i redazionali della rivista rendendola la più “aliena” tra quelle che uscivano all’epoca.
E persino Orient Express, sia in versione Bernardi-Isola Trovata che nella successiva Bonelli-Cepim, non sembrava prestare troppa attenzione a questo aspetto.
Anche L’Eternauta di Zerboni arrivò con assai poca fantasia e spirito d’intraprendenza a proporre alcuni dei suoi albi in omaggio agli abbonati, che dovevano pagare l’intero prezzo della rivista, ma al di là della qualità dell’offerta (parliamo di volumi di Abulì-Bernet, di Segrelles, di Muñoz-Sampayo) lo sparuto numero dei volumi in offerta faceva sembrare un po’ misero il catalogo EPC rispetto alla messe di prodotti offerti da Rocca con la sua Nuova Frontiera.
Il vero maestro dell’offerta di abbonamento fu Rinaldo Traini, che estese la ghiotta promozione della sua ammiraglia Comic Art anche a L’Eternauta quando la rivista passò sotto la sua guida.
In pratica la Comic Art, che in contemporanea gestiva anche gli abbonamenti al piano editoriale della sua vasta produzione, faceva pagare al lettore il prezzo pieno di un anno di uscite delle riviste (sempre con lo spauracchio di eventuali incrementi del prezzo che non avrebbero coinvolto il saggio abbonato che si era premunito per tempo) corrispondendogli però una dose di fumetti arretrati di pari valore dal suo ricchissimo catalogo – la casa editrice era attiva dal 1974.
Superato l’impatto non proprio accattivante del catalogo presentato sulle riviste (era fittissimo e scritto in caratteri piccoli, a testimonianza di quanto ben di dio conteneva), adoravo immergermi in tanta opulenza e anni dopo avrei maledetto la non ancora raggiunta autonomia economica che mi avrebbe permesso di abbonarmi a L’Eternauta arraffando così anche qualcuno dei mitici volumi New Comics Now (poi recuperati a prezzi non sempre favorevoli – e ancora più tardi avrei scoperto che alcuni di quelli annunciati lo erano da anni e non sarebbero mai usciti!) o il sacro graal di Vittorio Giardino: il volumone di oltre 300 pagine di Sam Pezzo.
Ovviamente, come nel caso della Nuova Frontiera e di tutti gli altri editori, si spacciava per ostentazione di munifica generosità un’occasione per liberare il magazzino di copie invendute di riviste e volumi. Ma quanto era bello vedere tanta abbondanza.

lunedì 5 marzo 2018

Fumettisti d'invenzione! - 129

Mi permetto di integrare il divertente e interessantissimo volume di Alfredo Castelli con altri “fumettisti d’invenzione” e simili.
In grassetto le categorie in cui ho inserito la singola segnalazione e la pagina di riferimento del testo originale.

CARTOONIST COME PROTAGONISTA – GRAPHIC NOVELS E ONE SHOTS (pag. 24)

THE ART OF CHARLIE CHAN HOCK CHYE (L’ARTE DI CHARLIE CHAN HOCK CHYE)
(Stati Uniti/Malesia 2015, © Sonny Liew, mockumentary)
Sonny Liew

La storia recente di Singapore vista attraverso il filtro della storia personale di un autore inventato.
Charlie Chan Hock Chye, fumettista di Singapore che iniziò la professione nel 1954 a 16 anni, viene intervistato da Sonny Liew; Chan Hock Chye ha realizzato fumetti di diverso tipo e in gran quantità, la cui costante sembra essere il tiepido successo. Col tempo inserirà sempre più commenti politici avversi al primo ministro Lee Kuan Yew, realmente esistito e che resse il potere a Singapore per ben 31 anni, fino al 1990. Sfilano quindi vari fumetti inventati realizzati secondo stili famosi conosciuti anche in occidente, occasionalmente scritti da altri fumettisti d’invenzione come Bertrand Wong o gli amici di gioventù di Charlie.
Pseudofumetti: nel corso del libro vengono presentati moltissimi esempi della multiforme attività di Chan Hock Chye, fumetti e copertine evidentemente ispirati a Tezuka, Hergé, Barks, McKay e altri più moderni. Un suo lavoro di cui ci viene presentato un lungo estratto è I Giorni di Agosto, che Chan Hock Chye realizzò dopo una partecipazione alla convention di San Diego del 1988.

Fuori tema: fumettisti non d’invenzione: citazioni, caricature, camei; fumetti biografici; metafumetti e autoreferenzialità; parodie
FUMETTI BIOGRAFICI (pag. 63)

MACERIE PRIME
(Italia 2017, © Zerocalcare, drammatico, autobiografia)
Zerocalcare [Michele Rech]

Zerocalcare ha sempre parlato di se stesso e della sua generazione nelle sue opere; Macerie Prime riveste un particolare rilievo dal punto di vista della sua professione di fumettista.
L’autore è ormai subissato dalle noie che si accompagnano al successo e il suo carattere arrendevole non lo aiuta a vivere serenamente la sua professione e nemmeno la vita privata. Un gruppo di conoscenti con cui si ritrova per il matrimonio del comune amico Cinghiale gli chiede una collaborazione per un bando europeo, rinfacciandogli occasionalmente la sua notorietà di cui comunque approfitta.
La storia proseguirà in un secondo volume in uscita a maggio 2018, scelta dettata dal fatto che anche nella storia saranno passati sei mesi, con le conseguenti evoluzioni dei personaggi e delle loro vite.

Fuori tema: fumettisti non d’invenzione: citazioni, caricature, camei; fumetti biografici; metafumetti e autoreferenzialità; parodie
METAFUMETTI E AUTOREFERENZIALITA’ (pag. 64)

VIGNETTE DI HANS-GEORG RAUCH
(Germania 1965, © eredi Rauch, in Der Spiegel, Stern, Observer, New York Times, satira, umorismo)
Hans-Georg Rauch
Nelle fitte e dettagliatissime immagini di Rauch, talvolta realizzate ripetendo ossessivamente uno stesso elemento, fa capolino ogni tanto qualche elemento metanarrativo, come il bordo di una vignetta che crolla o un pennino colto nell’atto di disegnare le vignette stesse.

[ALTRO] SAGGISTICA (categoria non presente nel volume di Castelli)

MANTLO: A LIFE IN COMICS
(Stati Uniti 2007, Sleeping Giant, biografia)
David Yurkovich

Breve biografia dello sceneggiatore William “Bill” Mantlo, molto attivo presso la Marvel negli anni ’80, integrata da commenti di altri professionisti e interviste ad altri autori. Viene inoltre presentato del materiale inedito di Mantlo, occasionalmente disegnato dallo stesso Yurkovich.
Il libro è stato concepito come sistema per raccogliere fondi per l’assistenza sanitaria a Mantlo, costretto in un ospedale dopo un grave incidente avvenuto nel 1992.