lunedì 31 dicembre 2012

Il meglio e il peggio del 2012



Il meglio

L’Aurea porta in Italia la tradizione e il format delle riviste Spirou e Tintin usando come viatico un personaggio amato dal pubblico più giovane nella sua versione televisiva in computer grafica.
Una rivista a lungo attesa (se ben ricordo le prime avvisaglie la davano in edicola per marzo...) che non ha deluso le aspettative una volta uscita. La scelta dei fumetti offre una panoramica tra il meglio di quanto possa offrire il mercato franco-belga per ragazzi (con buona pace di Le Elfe, ma sono io a essere fuori target) con grande varietà di case editrici, stili ed epoche di realizzazione. Costo contenuto e formato giusto. Non so come ho fatto a vivere finora senza una rivista come questa. Alla fine, con tutto questo ben di dio, pure gli anime-comics del titolare risultano ogni tanto piacevoli.
All’Aurea l’arduo compito di educare una nuova generazione al fumetto di qualità, le premesse ci sono tutte ma ovviamente è ancora presto per trarre conclusioni. Il passaggio a settimanale sarebbe quasi doveroso, ma non facciamoci illusioni.

Il peggio

Non è una porcata ma nemmeno un capolavoro. Lungi dall’esserlo, un capolavoro. Deludente perchè da Alan Moore ci si aspetta sempre qualcosa di fenomenale e quando ciò non avviene l’effetto è più spiazzante che se si trattasse di uno sceneggiatore qualunque.
Dopo una partenza carica di pathos la storia perde progressivamente di mordente e di originalità e la estrema linearità della trama lascia basiti. Forse la lettura organica in un unico volume non ha giovato all’impressione di distacco e separazione che probabilmente si voleva creare confinando ogni anno/periodo storico in un albo preciso. Certe sequenze (una su tutte, il “trasferimento” di Haddo) sanno di già visto e il giochino delle citazioni stufa presto. Vedere la locandina di Who Dat Ninja è divertente e le varie citazioni di Diabolik gonfiano il petto di patriottico orgoglio, ma alla lunga non capire chi siano tutti i personaggi sullo sfondo, per quanto ininfluenti sulla trama e puramente decorativi, diventa frustrante e quindi irritante.
I protagonisti vanno alla deriva già dal secondo episodio. Forse sarà una cosa voluta, ma non è mai piacevole vedere personaggi che cambiano caratteristiche e personalità rompendo così il tacito accordo che ogni narratore stipula con i suoi lettori. Quando poi queste “stonature” sono dettate dalla ricerca di un mezzo per far procedere la trama, oppure per offrire il destro a qualche battutaccia, o anche solamente per giustificare il polpettone in prosa in calce a ogni puntata, allora non mi sembrano poi tanto giustificate.
L’attenzione posta, nelle battute e nelle situazioni, alla sfera sessuale mi è sembrata un tentativo maldestro di dimostrare quanto anche il fumetto britannico-statunitense possa essere maturo. O forse è solo un mezzuccio per epâter una bourgeoisie che se cresciuta a BéDé e historietas troverà assai goffe e gratuite certe situazioni.
Per i miei gusti, pessima la scelta dell’identità del nemico finale e anche del deus ex machina che risolve tutto. E poi, già il fatto che ci sia un deus ex machina...
Dal punto di vista dei disegni Kevin O’Neill offre una prova sciatta e distratta. E come dargli torto: in copertina c’è scritto Alan Moore e quindi il volume venderà comunque uno sproposito. Almeno non risolve pagine su pagine con fotocopie di geroglifici che parlano tra di loro, però, accidenti, O’Neill ha anche disegnato, tra le altre cose buone, uno splendido Marshall Law.
Anche la Bao ci mette del suo, al di là del piccolo disguido della mia copia. Il formato ridotto in realtà non sembra a una prima occhiata poi tanto penalizzante (e va detto che cartonato con la sovraccoperta fa un figurone) però, forse a causa di una stampa non sempre perfetta, certi dettagli si perdono, soprattutto alcune scritte. Con un formato più generoso anche i lividi colori dati al computer sarebbero risultati meno penalizzanti per la decifrazione di alcune vignette.

Buon 2013

sabato 29 dicembre 2012

Before Watchmen/1


La vita non ha senso. Probabilmente anche per questo la fiction narrativa deve avercelo, un senso. Non solo tutto deve avere una spiegazione logica e avere una conclusione identificabile come tale, ma la narrazione deve essere improntata alla sintesi e alla chiarezza. Nella vita reale inciampiamo, tossicchiamo, dimentichiamo senza malizia alcuni dettagli, non scopriamo informazioni importanti solo accendendo l’autoradio esattamente nel momento preciso in cui vengono trasmesse. Nella fiction narrativa invece questo accade solo per motivi legati alla trama e al suo svolgimento. Un dettaglio che “non torna” serve come segnale del fatto che la storia è arrivata a un turning point, oppure che c’è qualcos’altro sotto, o ancora per anticipare altri eventi.
Ora, nel tacito contratto che l’autore di fiction narrativa non sperimentale stipula con il suo pubblico c’è anche la promessa che tutto quello che verrà raccontato/disegnato/diretto/recitato è sufficiente e chiuso in sè, soprattutto se parliamo di prodotti non seriali in cui il lato realistico sia preponderante. La vita reale non è un film con un inizio e una fine ben delimitati nè un romanzo con capitoli separati, e a parte Gilbert & George tutte le persone reali hanno una cucina per i momenti di relax in cui non sono sotto i riflettori e devono prepararsi da mangiare. E francamente io ho sempre pensato che pure Gilbert & George ne abbiano una.
La fiction narrativa necessita inoltre che ogni avvenimento sia significante, univoco, indubbio. Uno sparo è sempre il migliore degli spari riusciti, ecc... All’interno di quest’ottica vanno considerate anche le informazioni che gli autori lasciano trasparire dalle loro opere: gli eventuali “buchi” nel tessuto narrativo devono esserci per un motivo. Approfondire certi aspetti sarebbe stato inutile o ininfluente o peggio ancora fuorviante.
Watchmen è con ogni probabilità il meccanismo narrativo meglio congegnato della storia del fumetto, ogni dettaglio è significante (armoniosamente significante) e immaginare una vita oltre quelle pagine per quei personaggi è quanto meno difficile, se escludiamo una deriva umoristica (Rorschach che fa una comparsata in un fumetto di Gibbons per celebrare Harvey Kurtzman) o un loro riutilizzo strumentalmente contestualizzato in un altro genere (qui).
L’operazione Before Watchmen ha suscitato perplessità e polemiche molto prima di concretizzarsi. Questo principalmente per il sentore sulfureo di sfruttamento che ha tutto il progetto e per le condizioni aberranti che, oltre all’effettiva legittimità legale, ne hanno consentito la produzione (se Alan Moore avesse fatto casino la DC Comics non avrebbe più dato lavoro al suo amico Steve Moore, in disperato bisogno di soldi per curare il fratello malato). Ma al di là di queste considerazioni pregiudiziali, di cui comunque è difficile liberarsi, resta il fatto che Watchmen è strutturato in maniera troppo ermetica e perfettamente chiusa in sè per immaginare di aggiungerne qualche pezzo, soprattutto se a farlo non è nemmeno il creatore originale. Gli autori coinvolti, nomi di primo piano del comicdom statunitense, si sono ritrovati con una responsabilità enorme addosso, oltre a vivere lo stigma di essere etichettati come “traditori” dell’opera originale e del loro più autorevole collega. D’altra parte vale anche per loro quanto detto dallo stesso Bardo di Northampton: «Sei fottuto se lo fai, sei fottuto se non lo fai».
Da quello che ho potuto vedere sinora, nonostante il grosso successo che Before Watchmen pare stia avendo, mi sembra che l’operazione non sia riuscita. Per quanto abbia cercato di giudicarle senza pregiudizi e senza andarmele a spulciare a caccia dei dettagli incongruenti con Watchmen, queste miniserie (la maggior parte di loro) mi sono sembrate molto al di sotto delle aspettative e del nome dei loro autori. Prima di parlarne, comunque, aspetto che finiscano – e che il distributore americano si decida a riempire i “buchi” nella collezione (suona come una scusa da fumetteria, vero? Probabilmente lo è).
In generale qualcosa si può già anticipare. Le miniserie di Before Watchmen si caratterizzano a livello di testi per una grande eterogeneità. Il loro unico punto in comune è che non hanno punti in comune. Alcune si sono concentrate più sull’approfondimento di certi episodi della vita di un personaggio, altre ne hanno fornito un affresco complessivo della vita; alcune hanno cercato di inserirsi con scrupolo e discrezione in alcuni buchi dell’opera originale, altre non hanno preso molto in considerazione il canone di Watchmen e altre ancora lo hanno smaccatamente stravolto (beh, al momento una sola: Dr. Manhattan). Alcuni sceneggiatori hanno privilegiato le didascalie, altre i dialoghi; accanto a narrazioni lineari ce ne sono di sincopate e laddove alcuni sceneggiatori hanno voluto stupire con delle trovate shockanti altri hanno preferito limitarsi a descrivere da un altro punto di vista il materiale narrativo preesistente. Alcuni si sono rifatti al giallo d’impianto classico whodunnit, altri all’hard boiled, altri ancora alla scuola classica del comic book supereroistico, qualcun’altro a strampalate teorie di fisica quantistica.
Dal punto di vista dei disegni, invece, mi è parso di cogliere in generale una certa condizione comune pur tra la diversità di stili. In sostanza, l’impressione che mi hanno dato praticamente tutti i disegnatori statunitensi più famosi e quotati è che abbiano lavorato a scartamento ridotto, che non abbiano prodotto materiale all’altezza delle aspettative e della loro fama. Sempre mantenendosi su livelli buoni-ottimi, ma non al livello che mi sarei aspettato (se poi Andy Kubert ha deluso o no non saprei dire visto che non nutro grande stima per il suo stile).
Sulle storie d’appendice sospendo ogni giudizio, me le leggerò alla fine. John Higgins come disegnatore è uno schianto, comunque.
A mano a mano che finisco di leggere le miniserie (e gli one shot, pare che sia stato proprio un grande successo questo Before Watchmen e giustamente la DC lo capitalizza il più possibile) vi dico la mia.
Poi chissà, magari in Before Watchmen: Epilogue scopriremo che era tutto uno scherzo, il sogno di un personaggio, un universo alternativo... magari...

Silk Spectre (testi di Darwyin Cooke e Amanda Conner, disegni di Amanda Conner)

Il primo dei Before Watchmen ad arrivare alla conclusione è finora il meno deludente. Mi sbilancio anzi a dire che è un buonissimo fumetto. Ma questo forse è dovuto anche al fatto che è molto distante, sia come temi che come atmosfere, dal modello.
Nel 1966 la giovane Laurie Jupiter si destreggia tra i suoi problemi adolescenziali e la presenza invadente della madre nella sua vita. Le due cose sono strettamente collegate visto che il fantasma della prima Silk Spectre aleggia non solo negli agguati degni dell’ispettore Clouseau ma anche nelle pessime relazioni sociali che la protagonista intrattiene con i ragazzi e soprattutto con le invidiose e stronzissime compagne di scuola. Fuggita da casa insieme ad alcuni hippy (la Summer of Love deve essere arrivata un anno prima nell’universo di Watchmen) esordisce per caso come Silk Spectre II trovandosi invischiata in una storia abbastanza delirante e poco credibile di sostanze psicotrope dagli inusitati effetti stupefacenti-consumistici. Eh, lo so, non è che “effetti stupefacenti-consumistici” sia una descrizione molto chiara, ma non voglio rovinarvi la sorpresa. Non so se gli autori abbiano voluto puntare sulla satira e sull’assurdo per evitare scomodi paragoni con Watchmen, per me una volta superato l’impatto degli inserti umoristici e dell’ambientazione “larger than life” questa miniserie è stata godibilissima. Inoltre offre un’interpretazione stupenda del Comico, tanto più riuscita quanto più concisa e intensa. Altro che la gonfiatissima miniserie di Azzarello e Jones...
E a dirla tutta, in Silk Spectre ho trovato delle atmosfere psichedeliche più efficaci di quanto lo stesso Alan Moore sia riuscito a fare con Kevin O’Neill nell’ultimo volume della sua League. Certo, a causa dello stile caricaturale della Conner non ho capito se il gruppo che compare nel secondo episodio sono i Beatles o gli Who, ma in fondo non credo sia così importante.
Passando quindi ai disegni, Amanda Conner (di sicuro il nome meno appetibile sulla carta) si è rivelata una piacevole sorpresa. Non che abbia corretto i suoi difetti (le sue donne hanno ad esempio sempre tutti e due gli occhi ben distanti l’uno dall’altro e il naso molto alto, rendendole un po’ scimmiesche), ma la sua abilità nel rendere espressivi i personaggi è ineguagliata. Peccato che il disegno sia spesso molto scarno, soprattutto quando si tratta di rappresentare figure umane, le va però riconosciuta una grandissima abilità nell’evocare due realtà agli antipodi (o forse due immagini stereotipate universalmente associate a quelle due realtà): il protettivo ambiente borghese alla Happy Days e il mondo in fermento della San Francisco anni ’60.
Promossa.

Moloch (testi di J. Michael Straczynski, disegni di Eduardo Risso)

Che Moloch non fosse esattamente un adone lo si capiva dai disegni di Gibbons, ma bisogna anche dire che la sua controparte vecchia e malata era solo il riflesso sbiadito del personaggio distinto (e non certo privo di fascino) che compariva nei flashback. Di sicuro non era quel mostriciattolo che Straczynski si è inventato per questa inutile e stupida miniserie. O forse è stato Risso a volerlo interpretare così? E allora gli editor che ci stanno a fare?
Una volta stabiliti questi paletti arbitrari in cui muoversi ne viene fuori un clone dell’Uomo Talpa (quello dei Fantastici Quattro, non quello dei Simpsons) e ci addentriamo nella fiera del già visto e dell’ovvio, con gli immarcescibili bulletti della scuola, le donne che lo disprezzano, ecc. Dopo un primo numero irritante da quanto è banale, con il secondo abbiamo almeno il contentino di un minimo di curiosità per gli scopi di Adrian Veidt e per i metodi con cui li metterà in atto. A me sembra però che Straczynski abbia voluto confondere le carte, buttando un bel po’ di fumo negli occhi dei lettori di Watchmen, prendendo un po’ qua e un po’ là dalla vita cartacea dei personaggi per ricostruirne la “sua” versione e scambiando a piacimento cause ed effetti. Janey Slater che comincia a fumare dopo essere stata lasciata dal Dottor Manhattan? Non mi pare proprio... certo, è funzionale alla trovata che si è inventato Straczynski per spiegare come Ozymandias le faccia prendere il cancro (trovata peraltro molto inverosimile anche se si cerca di darne una logica contestualizzata al carattere dello stesso Ozymandias), ma è appunto solo una pecetta per far continuare la storia senza che il lettore si soffermi troppo sui particolari. Gli esempi potrebbero continuare.
Di Moloch salverei solo il ritratto che Straczynski dà di Adrian Veidt (il suo inedito fervore religioso con cui impressiona il protagonista è giustificato dal suo piano) se non fosse per il fatto che in fondo sono tutte cose che sapevamo già e che lo sceneggiatore ha solo approfondito. Nemmeno tanto. Per fortuna.
Stupendi invece i disegni di Eduardo Risso, sicuramente l’artista migliore dei Before Watchmen, che nemmeno una colorazione a volte imprecisa riesce a rovinare.
Bocciata.

domenica 23 dicembre 2012

Rarità (?) del 1995

Questa pubblicità è tratta dal numero 4 della rivista di critica IF, datato ottobre 1995. Ignoro se la pubblicazione sia poi avvenuta e se con queste caratteristiche, di certo fa una certa impressione pensare che 17 anni fa una tiratura di 80.000 copie veniva considerata una cosa esclusiva e appannaggio dei collezionisti.

mercoledì 19 dicembre 2012

I giochi di Cthulhu



Trovarne, di altre chicche come questa.
I Giochi di Cthulhu è un agile volumetto scritto da Matteo Poropat (immagino sia lo stesso che ha realizzato la Gazzetta delle Terre Perdute per Sine Requie) che raccoglie alcuni suoi contributi precedentemente apparsi su riviste di settore e su internet.
Come intuibile dal titolo, si tratta di un compendio analitico sui vari fenomeni ludici (giochi di ruolo, da tavolo, per computer, ecc.) ispirati o proprio tratti di peso dalle opere di H. P. Lovecraft. Pur nella concisione imposta dal formato le analisi mi sembrano puntuali e approfondite, oltre a presentare occasionalmente qualche piacevole punta ironica. Lodevole la “seconda introduzione” dedicata ad August Derleth e al suo fondamentale lavoro, cose sicuramente già note agli appassionati di Lovecraft ma poco conosciute dai profani.
Il sommario propone cinque capitoli dedicati rispettivamente ai giochi di ruolo («Il ruolo della paura»), ai videogame («Videogame cthuloidi»), ai giochi da tavolo («Terrore in scatola»), ai giochi di carte collezionabili («Partita a carte con l’Antico») e alle miniature («Le tre dimensioni del terrore»). Un capitolo conclusivo tira le somme di quanto sviscerato in precedenza fornendo ulteriori approfondimenti.
Ho notato un tocco di classe nella parte relativa ai giochi di ruolo in riferimento al famigerato Deities and Demigods per Dungeons & Dragons: Poropat infatti non riporta come causa dell’eliminazione del pantheon lovecraftiano (unitamente a quello melniboneano) la trita e ritrita storiella sui fanatici religiosi della Bible Belt, ma pur senza sbilanciarsi accoglie la tesi che individuerebbe la causa nella politica editoriale della TSR dell’epoca.
Molto interessanti a mio avviso i dati relativi agli esiti commerciali dei prodotti trattati nei singoli capitoli.
In appendice si trova un breve saggio di Pietro Guarriello che getta una luce abbastanza originale sul processo creativo di Lovecraft e sulle motivazione che lo animavano. Mi ha ricordato a tratti il saggio Contro il mondo, contro la vita di Michel Houllebecq, anche se per fortuna non ne condivide l’esasperato vittimismo romantico.
Ludografia e bibliografia concludono il volume, assolutamente indispensabile la prima.
Il libro non reca alcun prezzo, a me lo hanno venduto per 5€.
Ulteriori informazioni si trovano qui.

domenica 16 dicembre 2012

Capitan Cormorant e altre storie



Pur con un certo ritardo dovuto a un banale disguido[1], anch’io ho potuto mettere le mani su Capitan Cormorant e altre storie, l’ultimo recupero d’annata targato Rizzoli Lizard delle storie rare e introvabili di Hugo Pratt.
In effetti Capitan Cormorant già lo possiedo nella versione di Ivaldi, pubblicata su Sgt. Kirk 4, ma anche così il volume non manca di motivi di interesse. Questa versione a colori è decisamente ben realizzata e ricorda come atmosfere e stile le ristampe ospitate dalla gloriosa rivista Corto Maltese, con i loro toni di colore così suggestivamente sfumati. Purtroppo la resa di stampa (fatta sicuramente a partire da fonti non ottimali e non dalle tavole originali) ha impastato alcuni tratti ed eliminato altri, confondendo il tutto e rendendo difficile la vita al colorista che non sempre è riuscito a decifrare quello che andava a colorare. Quindi ogni tanto un dito viene frainteso per la parte di un’uniforme, una scogliera ha una forma differente rispetto a quella che si intuisce aveva in origine, certi baffoni non vengono interpretati come tali e ancora qualche pipetta dei balloon si confonde con lo sfondo e quindi viene colorata pure quella lasciando la nuvoletta a “galleggiare”. E lo stile macchiaiolo di Pratt non aiuta, ovviamente.
Ho notato con sorpresa che oltre alle inevitabili variazioni dovute al nuovo montaggio orizzontale sono state apportate anche altre modifiche, talvolta anche drastiche, ai testi. Il destino di questo fumetto, come quello di molti altri fumetti di Pratt, è paradossale: concepito in Argentina per il formato orizzontale di Misterix, viene adattato per il formato verticale di Sgt. Kirk (e non ci vuole un occhio troppo clinico per notare i vari aggiustamenti dell’epoca come ad esempio le aggiunte superiori per snellire le vignette), per poi tornare a un formato orizzontale che in tutti questi passaggi è inevitabilmente molto diverso da quello di partenza.
Purtroppo il lettering fatto con il computer toglie un po’ della magia di queste storie, e forse anche alcuni balloon di smaccata regolarità geometrica sono frutto del calcolatore elettronico, ma le visibili pecette con cui sono stati incollati alle tavole restituiscono quel gusto artigianale che devono avere tutte le ristampe delle opere del Maestro di Malamocco.
Confesso di aver rivalutato molto la storia, che avevo preso un po’ sottogamba durante la prima lettura su Sgt. Kirk (a mia discolpa, più o meno negli stessi numeri venivano ospitati fumetti che mi entusiasmavano di più, come il Moby Dick di Battaglia o alcuni tesori argentini, oltre ovviamente alla prima versione in assoluto della Ballata del Mare Salato). I protagonisti sono tutti spigliati e splendidamente caratterizzati, Pratt si muove in un contesto molto classico riuscendo però a tirarne fuori qualcosa di originale pur senza ricorrere a soluzioni troppo rivoluzionarie. I dialoghi sono freschissimi e quando vogliono divertire ci riescono anche a distanza di cinquant’anni. Inoltre il ritmo della storia è indiavolato, rispondendo probabilmente alla necessità di creare una storia indipendente per ogni episodio che compariva su Misterix (se ho ben capito, organizzati su Sgt. Kirk in blocchi di circa 5 tavole l’uno), e una volta riuniti insieme risultano un susseguirsi parossistico di azione, colpi di scena e sequenze a effetto.
Nella prefazione Antonio Carboni contesta coraggiosamente il parere diffuso secondo cui Capitan Cormorant abbia rappresentato un po’ il banco di prova per il futuro Corto Maltese; le sue osservazioni sono puntuali e circostanziate (oltre che suffragate da esempi concreti) però a mio avviso è incontestabile il fatto che entrambi sono variazioni di un medesimo tema e che i due protagonisti, anche solo per questo, si somiglino molto e non abbiano poi troppe differenze caratteriali. Tutt’al più, possiamo considerare Capitan Cormorant come trait d’union tra El Sargento Kirk e Corto Maltese, visto che del primo porta ancora alcuni segni distintivi come la necessità di agire in maniera disinteressata, la contrapposizione a villain monoliticamente cattivi e un cast di comprimari molto variegati e ben caratterizzati: il nobile inglese che sa anche dare bastonate, il fedele amico “selvaggio”, la sorella marinaia.
A integrazione di Capitan Cormorant ci sono altri due fumetti: Billy James è una valida storia ambientata nella turbolenta metà del XVIII secolo americano che Pratt amava tanto, scritta da un Mino Milani che non si risparmia quasi nessun luogo comune ma che riesce anche elegantemente a ribaltarli, oltre a inanellare colpi di scena e a congegnare soluzioni originali per far procedere la trama. Il ben più breve L’Assalto al Forte (solo 16 “mezze tavole”, quindi probabilmente dalle 6 alle 8 tavole sul Corriere dei Piccoli) è scritto invece da Alberto Ongaro e presenta un protagonista piuttosto originale, che si muove sempre nella solita epoca e nel contesto di Billy James, in una vicenda molto articolata nonostante la dimensione ridotta.
Capitan Cormorant e altre storie è un volume irrinunciabile per il collezionista prattiano? Forse non lo è per quello più fortunato che di Pratt possiede già ogni cosa (a meno che non voglia godersi una versione colorata) ma sicuramente lo è per tutti quegli appassionati che non hanno potuto gustarsi queste storie all’epoca della loro prima uscita o delle rarissime ristampe, e immagino che non siano pochi. Purtroppo le indicazioni che si trovano su internet in merito alle pubblicazioni di Capitan Cormorant in Italia sono palesemente tutte estrapolate dal libro-intervista di Dominique Petitfaux, quindi se esistono ulteriori ristampe successive al 1992 lo ignoro (così su due piedi non me ne vengono in mente).
Bisogna aggiungere che il volume, oltre ad essere a mio avviso il più lussuoso di quelli usciti al momento, presenta una ghiottissima sezione con delle prove di recadrage per il secondo episodio completato poi da Stelio Fenzo. Non possedendo il rarissimo Sgt.Kirk 10 su cui comparve non posso fare confronti con quanto progettato e quanto poi effettivamente pubblicato, si tratta comunque della parte stampata meglio di tutto il volume. In totale sono 19 mezze tavole ottenute dallo smembramento e dalla successiva riorganizzazione delle tavole originali, ancora prive del lettering. Su tutte campeggia un enigmatico «© by Saint George Sundicate». Non mi spingo a dire che questi “quasi inediti” valgano da soli l’acquisto, ma poco ci manca.



[1] «Chissà se quel pezzente di Lorenzon riesce a mettere insieme i soldi per comprare il volume di Pratt che mi ha ordinato... nel dubbio lo vendo a un altro e se se ne accorge dò la colpa al mio collega del mattino e gli ordino con calma un’altra copia» potrebbe essere uno scenario attendibile.

venerdì 14 dicembre 2012

Historica 2 - Bois-Maury



Dopo l’inaspettata sorpresa di un inedito e più che convincente Jarbinet, la collana Historica colpisce nuovamente nel segno con un volume di Hermann decisamente superiore alle aspettative. Alle mie, almeno.
Quando avevo letto alcuni di questi volumi sui settimanali dell’Eura non mi avevano colpito particolarmente, ma leggerli in maniera organica e con un formato e una cura che ne esaltano le caratteristiche ne ha rivelato tutta la grandezza.
Di Bois-Maury non viene raccolto il primo episodio, Assunta, con la elegante giustificazione che non è stato scritto da Yves H. e si è preferito formare un corpus uniforme firmato dagli stessi autori.
Ora, Yves H. è un figlio d’arte e lo si disprezza a prescindere. Nel suo caso, e in riferimento alle prime porcherie che ha scritto per cotanto padre, il disprezzo era più che giustificato. Ma in questi quattro racconti sembra veramente un altro, ha raggiunto decisamente una maturità e una scioltezza di scrittura che erano impensabili se torniamo con la memoria a puttanate infami come Manhattan Beach e La ragazza di Ipanema.
Qui il rampollo di casa Huppen riesce a elaborare delle storie che pur muovendosi nel solco di situazioni tipiche delle narrativa popolare (il nobile decaduto, la ricerca dell’Eldorado, l’eroe anacronisticamente illuminato, ecc.) risultano originali e molto interessanti, narrate con uno stile che incolla alla pagina. Inoltre bisogna rendere merito anche allo scrupoloso lavoro di documentazione che si percepisce in tutte e quattro le storie, anche se forse qui anche il buon vecchio Hermann avrà avuto il suo peso.
Proprio come il padre, Yves H. riesce a racchiudere in sole 46 tavole una situazione di partenza non banale, dei personaggi splendidamente caratterizzati e un sacco di digressioni che non tolgono forza alla trama di base ma la arricchiscono e ne completano la comprensione. E alla fine, visto il format di partenza (ogni volume è autoconclusivo perchè si concentra su un solo discendente dell’Aymar de Bois-Maury originario) non esitono situazioni pendenti, rimandi a prossimi episodi, sospensioni da cui partire per nuovi cicli di storie. Ogni volume è perfettamente chiuso in sè, e magari il mercato franco-belga si concentrasse di più su questo tipo di prodotti piuttosto che sulle lunghe saghe in cui il primo volume è a malapena un preambolo!
Ho notato l’evoluzione che Yves H. compie a livello di linguaggio. Nei primi episodi (soprattutto nel secondo, Dulle Griet) i personaggi si esprimono con una magniloquenza barocca forse rispettosa del linguaggio dell’epoca, ma in definitiva poco realistica. Con l’avanzare della serie ci sarà sempre più pulizia nei dialoghi e nelle battute, tanto che il conclusivo Occhio di Cielo farà largo uso di lunghe sequenze mute.
Ottima la caratterizzazione dei vari Aymar sparsi per i secoli: non si tratta mai dello stesso archetipo di partenza rivestito a seconda delle esigenze, ma di volta in volta abbiamo un personaggio sanguigno ma ingenuo, un uomo avido attratto dalla lusinga dell’oro, un giovane idealista, un uomo maturo ossessionato. In Dulle Griet, poi, Aymar è quasi un’appendice della trama, assolutamente necessario per il suo svolgersi ma non più di questo.
Dal punto di vista grafico non penso ci sia molto da dire. Hermann è Hermann, non ci piove. È innegabile che molte anatomie sarebbero più indicate per un fumetto umoristico e che le sue donne nella migliore delle ipotesi ricordano l’E. T. di Rambaldi, ma difficilmente mi vengono in mente altri disegnatori che masticano il linguaggio del fumetto e lo piegano al loro volere come lui. Certamente non mancano i fumettisti di cui si guardano estasiati i disegni, ma praticamente nessuno (forse Jean Giraud?) ha il suo stesso controllo della tavola. Col suo gioco di pieni e vuoti, con la sua abilità nel rappresentare il movimento (e fateci caso: non usa mai le linee cinematiche), con la cura per i dettagli Hermann proietta veramente il lettore nella storia e gliela fa seguire come vuole lui. Eh, lo so che questo è un luogo comune che si può applicare a tanti disegnatori senza troppa cognizione di causa, ma nel caso di Hermann è la sacrosanta verità. Così come nel suo caso lo è pure quella frase fatta che vorrebbe i grandi artisti essere in grado di far capire allo spettatore che ora è nei loro lavori: pensiamo solamente a come il tramonto che si avvicina tinge i volti dei personaggi nelle prime pagine di Vassya. Se poi pensiamo all’uso mai banale che fa del colore (ora con accostamenti violenti, ora con intere sequenze basate solo su due colori come in Occhio di Cielo), all’abilità nel ritrarre alla perfezioni gli animali e alla cura maniacale per la documentazione, è impossibile non rimanere catturati dalle sue tavole. E chi se ne frega se guardando in un secondo momento i suoi disegni con la lente d’ingrandimento ci accorgiamo che un occhio o una mano sono sproporzionati.
Ancora ignoro cosa pubblicherà la Mondadori dopo Bois-Maury, sarà difficile mantenere la stessa qualità di questo secondo volume ma questa collana ha già riservato graditissime sorprese e quindi non dispero.

martedì 11 dicembre 2012

Chi si rivede!



Più di una volta su internet ho letto che gli artisti della seconda ondata della TSR sarebbero spariti dalla circolazione finendo nell’oblio, con qualche sporadica eccezione (Elmore e Easley che sono rimasti nel giro dei giochi di ruolo, Brom che è diventato una superstar la cui fama ha travalicato i confini del settore).
Anche questa è una delle tante idiozie che la rete distribuisce con incredibile generosità. Con grande piacere ho visto che gli illustratori che diedero la loro impronta a Ravenloft, Dragonlance, Forgotten Realms, ecc. sono più che mai (e c’era da dubitarne, visto il loro talento?) alive and kicking.

Fred Fields (ha anche il blog)

venerdì 7 dicembre 2012

Era ora!



La ripresa delle avventure di Blake e Mortimer è stata una mossa coraggiosa ma geniale che si è rivelata tanto vincente da spingere alla costituzione di due team diversi per portare avanti la serie con maggiore intensità.
Ma le istruzioni date ai disegnatori nascono da un’idea sbagliata e limitata del lavoro di Edgar Pierre Jacobs. Jacobs ha praticamente disegnato ogni episodio di Blake e Mortimer con uno stile differente, anche i suoi protagonisti cambiano occasionalmente volto e corporatura di albo in albo. La sua linea chiara, nata per necessità e comunque non del tutto aderente ai dettami della scuola di Bruxelles (in Le Rayon “U” si vedono le matite che servivano a sfumare i disegni, ad esempio), si prende spesso delle deroghe fino ad arrivare all’estremo realismo de L’Affaire du Collier. Ciononostante, l’unico stile a cui hanno potuto ispirarsi i nuovi disegnatori è quello di Le Mystère de la Grande Pyramide e di Le Marque Jaune. È anche vero che quella linea chiara “pura” è ancora oggi seguita ed emulata da molti autori contemporanei, quindi farvi ricorso non è certo una cosa tanto strana (anzi, i francesi la adorano!), ma soprattutto nel caso di Juillard mi è sembrato che così facendo il disegnatore non potesse esprimersi al meglio delle sue capacità.
Il glaciale Ted Benoit sembrava nato per disegnare le storie di Blake e Mortimer con quello stile, su Sterne-De Spiegeleer-Aubin non mi pronuncio perchè non conosco altri loro lavori ma André Juillard, dannazione, lui poteva dare un’interpretazione più personale dei personaggi.
Juillard (che per Blake e Mortimer disegnava tre volte la stessa tavola! Chissà se lo fa ancora) ci ha comunque riservato qualche simpatica sorpresina nei suoi volumi, come le comparsate di altri suoi personaggi:
però mi è sempre sembrato che in quel contesto il suo talento fosse trattenuto, limitato. Finalmente, con Le Serment des Cinq Lords qualcosa si è mosso. O meglio: a riguardare gli altri volumi qualcosa era già in movimento, ma qui la personalità di Juillard comincia a manifestarsi più compiutamente. Le donne sono molto più personalizzate, così come anche gli uomini sono assai più realistici, Mortimer non ha quasi più le inquietanti pupille alla Little Orphan Annie, le venature del legno o della pietra spezzano la monotonia del disegno, il pointillesime per simulare detriti o il tipo di stoffa diventa occasione per sfumare i disegni, i contrasti chiaroscurali si fanno profondissimi. Ci sono addirittura dei tratteggi! Cosa veramente rivoluzionaria, e difatti limitata in questo volume quasi ai soli quadri che si notano ogni tanto negli sfondi. Andrebbe aggiunto che questi tratteggi sono parzialmente sacrificati alla colorazione che fa uso di retinature larghe, ma leggo che l’albo è «stampato a cura di Dargaud» quindi inutile recriminare.
Insomma, la strada imboccata secondo me è quella giusta e spero che questo nuovo capitolo della serie sia un assaggio di quello che André Juillard saprà offrire in futuro.
Ho riportato i titoli dei volumi in francese non perchè fa figo ma perchè editori italiani diversi li hanno tradotti in modi diversi. No, ok, anche perchè fa figo.

giovedì 6 dicembre 2012

Ricapitolando

Costa 1€

La qualità di stampa è buona

La carta è patinata (oltre ad essere di prestigio ravviva i colori originali)

Il formato è comodo e non penalizzante

I redazionali sono tanti e interessanti

Ci sono degli interventi scritti dello stesso Graton

Contempla pure delle storie brevi di pre-serie di cui ignoravo l'esistenza

Se l'iniziativa dovesse incontrare il favore del pubblico avremo la pubblicazione integrale (e chissà che magari non pubblichino pure altro)

Insomma, Michel Vaillant non mi fa impazzire ma perdersi questa edizione è da coglioni. Anzi, da criminali.


mercoledì 5 dicembre 2012

I prestigiosi lettori di Lanciostory

Voleva pure corrispondere e offriva cartoline in cambio di altre cartoline.
(da Lanciostory 36 del 1981)

Si potrebbe speculare sul tipo di cartoline.