lunedì 28 settembre 2020

Batman Dannato


Batman viene recuperato dopo la caduta da un ponte che è costata la vita a un uomo e si ricorda di quando da bambino la visione di una ragazzina dark gli aveva predetto che sarebbe stato maledetto. Non ricorda cos’è successo sul ponte e in suo soccorso interviene John Constantine. In questa realtà (è un mondo alternativo o la storia della DC si è sviluppata così?) il Joker è morto ma alcuni segnali indicano che potrebbe essere tornato dal regno dei morti o che qualcuno ha preso il suo posto.

La storia è puntellata di altre presenze sovrannaturali della DC Comics, come uno scarnificato Deadman, non so se interpretazione personale di Azzarello o versione attuale del personaggio, e altri personaggi che non ho ben capito chi sono (pensavo che la tizia che fa il trucco delle tre carte fosse Zatanna, ma in realtà compare in seguito). Demon è nientemeno che un rapper: ciò ha messo a dura prova la mia voglia di continuare a leggere.

Batman si muove come un disperato e così a occhio (ma non conosco le evoluzioni più recenti del personaggio) mi sembra che sia una preda sin troppo facile dei suoi avversari. Constantine constantineggia.

La trama principale si intreccia col passato di Bruce, mostrando una famiglia Wayne tutt’altro che idilliaca con un padre fedifrago. Se non sbaglio questa riscrittura iconoclasta è tipica di Azzarello che in una storia disegnata da Risso diceva che praticamente furono i capricci di Bruce Wayne da bambino per andare a vedere il film di Zorro a causare l’omicidio dei suoi genitori. Sempre se ricordo bene.

Come talvolta capita con le storie scritte da Azzarello, non ho capito bene il finale: Batman ora dotato di poteri sovrannaturali resuscita Joker e resetta la storia oppure era Joker che aveva preso il suo posto? Mah. Almeno ci sono le tavole spettacolari di Lee Bermejo, che però in alcuni punti ha evidentemente censurato il sangue con delle pecette dai colori piatti che mal si amalgamano col suo stile sfumato.

sabato 26 settembre 2020

The Old Guard: Fuoco d'Apertura

Fumetto del 2017 che è stato ripescato dalla Panini dopo che ne è stato tratto un film da Netflix. Andy, Booker, Nicky e Joe sono dei mercenari immortali che dopo aver servito in svariate guerre si guadagnano il pane con degli ingaggi privati. La loro leader Andy/Andromaca, la più vecchia del gruppo, è sempre più stanca di vivere e neanche i bagordi che si concede le rallegrano più di tanto una vita senza scopo proprio perché eterna. Che Rucka abbia letto Gilgamesh?

L’ultimo incarico si rivela una trappola tesa da un miliardario per catturarli e studiarli per carpire il segreto dell’immortalità. Nel mentre una nuova immortale, Nile Freeman, si scopre tale e viene reclutata dal gruppo. Non è un prodotto originalissimo, ma Greg Rucka ha senz’altro quel minimo di professionalità che basta a renderlo passabile. Il ritmo è ben orchestrato (verso la fine c’è anche un colpo di scena) e i dialoghi sono ben scritti senza essere memorabili. Per il resto non mancano luoghi comuni e stereotipi, tra cui lo showdown finale con una sparatoria esagerata. Nulla di eccezionale, insomma, ma sarebbe anche un fumetto gradevole se non fosse per i disegni di Leandro Fernández. Terribilmente caricaturale, vanifica sia il dinamismo che dovrebbero avere certe scene che la drammaticità splatter di altre. Certo, sembra un po’ ispirarsi a Eduardo Risso, ma non ne ha l’eleganza, l’espressività e la cura per i dettagli. Inoltre calca esageratamente la mano sulle caratteristiche somatiche delle etnie di cui fanno parte i protagonisti: oltre a essere di cattivo gusto, questa scelta non è nemmeno utile per distinguere un personaggio dall’altro visto che ovviamente hanno corporature e abbigliamenti diversi. E poi non è che tutti i francesi (come Booker/Sébastien) hanno il naso di Gerard Depardieu!

domenica 20 settembre 2020

La terribile Elizabeth Dumn contro i diavoli in giacca e cravatta

Il primo impatto è stato tremendo: lo stile di disegno di Arabson è fottutamente caricaturale. Curatissimo e dettagliato, sì, ma i suoi sgorbi sono un misto di Paul Pope e de Crécy, con un vago retrogusto di De Felipe (mi pare si chiamasse così), quel fumettista spagnolo che fu pubblicato con una certa frequenza nei primi anni ’90 da L’Eternauta e Bronx per poi sparire nel nulla. Come stile funzionerà pure in certi fumetti, ma non qui. Una volta letta la storia, l’impressione non è migliorata poi tanto.

Il diavolo torna dopo vent’anni a riscuotere la sua parte di un patto che aveva concluso con un contadino brasiliano che ha reso ricco: gli deve l’anima di suo figlio Gregorio. Ma il tizio non vuole cedere e gli propone uno scambio: invece di suo figlio, che si prenda l’intrattabile figlia Elizabeth, rinchiusa in una pensione-prigione. Avvisata dalla madre e preparata a questa eventualità da una vita, Elizabeth scappa e sulla sua strada incontra un chitarrista blues che parla per sottintesi ed è realmente il miglior musicista del mondo (tanto per non farsi mancare nessuno stereotipo, il tizio è ovviamente una versione di Robert Johnson, ha pure il suo secondo nome – che Arabson non sa scrivere correttamente!). Lunga sequenza muta di combattimento contro un emissario del diavolo e poi la resa dei conti a casa del paparino. Una sessantina di tavole che si leggono in fretta e non lasciano niente, ma chi non ha letto molti romanzi o fumetti o ha visto pochi film potrà trovare alcuni elementi interessanti o addirittura originali. Certo, meno ne ha visti e letti e meglio è.

James Robinson ha curato l’adattamento per il mercato statunitense: avrà fatto coprire qualche tetta o smussato i dialoghi più blasfemi, se ce n’erano. Colori, almeno questi piuttosto validi, di Anderson Cabral.

giovedì 17 settembre 2020

Tex Stella d'Oro 31: La Frustata

Fortunatamente questo è uno di quei volumi extra-large in cui la Bonelli ha sfruttato appieno le dimensioni più ariose. Spero ce ne siano altri. Non solo: coerentemente con la matrice franco-belga del formato, il bravo Mario Milano si è rifatto alla lezione di Jean Giraud, come dichiarato anche nell’introduzione di Davide Bonelli, e mi sembra che anche il colorista Matteo Vattani abbia tratto ispirazione dagli ultimi albi di Blueberry, almeno per una buona prima metà del volume.

La trama vede due percorsi che si incrociano: il bandito Diego Portela ha finalmente raccolto abbastanza uomini per vendicarsi di chi gli ha inflitto le frustate che lo hanno deturpato (ben più della sola citata nel titolo), mentre Tex e Kit Carson inseguono dei ladri d’argento oltre il Rio Grande fino alla base del loro capo: proprio il tizio che Portela vuole ammazzare. Ad arricchire il quadro ci sono le pistole “magiche” di Portela che la madre bruja, cioè strega, gli ha incantato dopo avergli salvato la vita dalle nerbate. Considerando la procedente prova che ho letto di Ruju mi viene da pensare che abbia un feticismo per le pistole. Il vecchio haciendero intrallazzone però è morto di fresco (Tex e Kit piombano nella hacienda proprio alla fine del funerale) e la bella figlia dovrà prendere le redini dell’attività di famiglia, ignara degli aspetti più illegali – o così sembra. Visto che la vendetta del bandito ricade su di lei ma si estende indiscriminatamente anche sui suoi servi e sugli altri innocenti attardati al funerale, Tex prende in mano la situazione e si incarica di proteggerli e di parlamentare con Portela.

Ma il bandito non vuole cedere e così a pagina 35 inizia una sequenza flamboyant in cui un Tex disarmato (ma per poco) sgomina da solo (o quasi) tutta la sua banda! Per fortuna la chiave della storia non è qui, ma nelle sequenze finali che riveleranno le vere intenzioni di un personaggio e ne riporteranno in scena un altro. La Frustata è insomma una storia molto ben architettata e addirittura con un buon margine di originalità pur basandosi inevitabilmente su alcuni stereotipi del western. Menzione d’onore per i dialoghi: Tex spiega per filo e per segno perché fa quello che fa (non solo lui in effetti), ma Ruju scrive le battute con una naturalezza che non le rende affatto artefatte; più che altro sembra un soldato che giustamente valuta le opzioni di cui dispone – e in fondo è questo il ruolo che ricopre nella storia. Non avendo visto il film omonimo che nell’introduzione viene citato come ispirazione della copertina non posso dire quanto il tutto sia farina del sacco di Pasquale Ruju (stando alle parole di Davide Bonelli non ci sono legami con quel film) ma come lettura è comunque ottima.

Tornando ai disegni, oltre all’abilità tecnica va riconosciuta a Milano anche l’intelligenza con cui ha preso a modello degli attori per i volti delle “comparse”: uno dei tirapiedi di Portela è Lee Van Cleef, mentre Octavio è Fernando Sancho, un caratterista visto in tanti spaghetti western ma (credo) anche in qualche parodia con Franco e Ciccio. Così i personaggi secondari hanno abbastanza personalità per distinguerli subito uno dall’altro e al lettore rimane una piacevole sensazione di familiarità anche se non ricorda dove ha già visto un viso o non riesce ad associargli un nome. Ammetto di averci messo un po’ per risalire a Fernando Sancho, in effetti.

mercoledì 16 settembre 2020

Il Morto 44: Il Fante di Spade

Niente da fare, la struttura più recente adottata da Il Morto è poco funzionale al suo godimento. La stretta continuity che ormai da anni caratterizza la serie rende un po’ difficile seguirla, soprattutto se tra la pubblicazione di un episodio e quello precedente sono passati mesi come in questo caso. Tanto più se la singola puntata, proprio come questo Il Fante di Spade, è interlocutoria e serve principalmente a introdurre nuovi elementi nel quadro generale.
Gonni è agli arresti domiciliari e un mariuolo di cui dovremmo ricordarci dal numero precedente se la passa ancora peggio essendo finito in prigione: pretende di essere fatto uscire il prima possibile dal carcere e anche se sembra un imbelle la sua pericolosità spinge il suo “datore di lavoro” a esaudire la sua richiesta, ma le cose non andranno affatto come aveva sperato. Tutto questo per presentare il Fante di Spade del titolo, un ingranaggio in alto (ma sotto il Re di Spade, ovviamente) della società che traffica in armi. Un buon terzo dell’episodio se ne va così.
Per il resto Peg, mai così tombeur des fammes come stavolta, salva Gonni da un tentativo di omicidio sempre a opera del Fante di Spade e viene così messo a parte dell’ubicazione di documenti compromettenti con cui incastrare i trafficanti d’armi. Cosa che succederà, se succederà, nei prossimi numeri.
La storia è tesa e coinvolgente, gli intermezzi umoristici sono pochi e quindi ancora più graditi. Ci sono molti dialoghi ma non manca sul finale un bel po’ d’azione. Il problema è che non avendo il ricordo dell’episodio precedente ancora fresco in mente sembra di essere entrati in sala quando è cominciato il secondo tempo del film. Sicuramente il Coronavirus avrà influito sulle tempistiche di pubblicazione dell’albo, cionondimeno spero che in futuro la Menhir voglia e possa pianificare meglio l’uscita di altri episodi-cuscinetto, facendoli uscire per quanto possibile a ridosso di quelli a cui sono strettamente collegati.
Buona come sempre la prova di Conforti e Francesconi, sebbene le figure siano a volte un po’ troppo squadrate (ma che bella la scena in chiaroscuro di pagina 24). In questo numero tra l’altro abbondano le citazioni, come quella molto simpatica di Edward Hopper a pagina 17.
In appendice ci sono quindici tavole di presentazione di Hilka Strix (testi di Ruvo Giovacca e disegni di Boris Squarcio), immagino tratte dal primo numero che non sarà disponibile in edicola ma solo alle fiere e online.

domenica 13 settembre 2020

The Doomsday Machine #2

La seconda uscita di questa interessante rivista atompunk mantiene le promesse della prima, anche se l’impatto grafico mi ha inizialmente spiazzato.
Hero, scritto da Massimo Rosi e disegnato da Giulio Ferrara, apre le danze. La storia vede un guerriero postatomico difendere il suo prezioso tesoro di un’epoca passata da un’orda di predoni che invadono la sua villa. L’idea è abbastanza carina ma i disegni troppo espressionisti finiscono per diventare confusi. Sicuramente i volti sono espressivi, ma la lettura ne risente. Persino un negazionista dello storytelling come me deve ammettere che la sequenza in cui il protagonista si becca una freccia non è “narrata” bene, perché il disegno non dà il giusto risalto alla ferita che sarà alla base di un importante dialogo finale. Nella vignetta conclusiva non si capisce nemmeno bene cos’è il misterioso tesoro, disegnato con questo stile – e questo dovrebbe essere il colpo di scena finale! Lo humour nero di Rosi non fa comunque rimpiangere la lettura.
A seguire Wassup, Doc?, i cui disegni pupazzosi (anche se virati sul dark e a volte simili a xilografie) non promettevano niente di buono. In realtà sono funzionali alla trama, anzi quasi necessari, perché la storia è una rivisitazione in chiave postatomica dei cartoni animati della Warner Bros. Un ragazzo che vive nel sottosuolo vuole raggiungere Wonderland, un parco divertimenti di un’era passata. Il suo elmetto, i suoi atteggiamenti e altri dettagli lo rendono molto simile a Bugs Bunny; il Doc del titolo è la papera giocattolo con cui parla e si muove. Molto bello il finale che a seconda dell’umore del lettore può essere visto in chiave positiva o disperata. Gli autori hanno usato degli pseudonimi per firmare Wassup, Doc?, forse ulteriori omaggi ai cartoni: «Roy» per i testi e «Vyles» per i disegni.
Per finire Humanity, scritto da Giovanni Barbieri (quello che si firmava «l’anemico» su Fumo di China?) e splendidamente disegnato a mezzatinta da Francesco Biagini. In un mondo devastato dall’arrivo di mostri che l’hanno piegato in pochissimo tempo e che nessuno ha visto Barry incontra Hope e insieme cercano di lasciare la città per trovare rifugio altrove. Per chi ha confidenza col fumetto “modello Lanciostory” il colpo di scena finale è abbastanza intuibile, Humanity è comunque godibile e appagante anche grazie alla bellissima prova di Biagini.
Nel complesso una lettura più che valida, spero che nei prossimi numeri la qualità rimanga su questi livelli.

giovedì 10 settembre 2020

NIente da dire...

…i pesciolini d’argento di casa mia hanno un ottimo gusto visto quanto hanno gradito Terrible Trouble at Tragidore (l’avventura allegata al master screen per la seconda edizione di Advanced Dungeons & Dragons) e il Master Atlas della quarta edizione di Shadow World.



I pesciolini d’argento non sono frutto della mia fantasia, ma sono questi insettini che si nutrono di carta. Anche se sapevo che in realtà sono ghiotti della colla usata per rilegare i libri più che della carta vera e propria. O magari quei due pezzi erano già così e me ne sono accorto solo adesso.

lunedì 7 settembre 2020

La Tomba di Batman volume 1

Non è che sia proprio memorabile questa ennesima interpretazione di Batman, sebbene a opera di Warren Ellis. Suggestiva, certo, ma (almeno per adesso) poco concludente. Ellis si concentra sulla caratteristica di detective di Batman/Bruce Wayne, facendone seguire i metodi di indagine e le intuizioni. Molti elementi sono pervasi di scrupoloso realismo o perlomeno Ellis riesce a farli sembrare tali.
Dall’indagine sulla morte di un poveraccio che non dava fastidio a nessuno si passa a situazioni sempre più pericolose che coinvolgeranno anche il personale e i pazienti dell’Arkham Asylum. Sullo sfondo prende sempre più piede la presenza del “Disprezzo” e di un gruppo di tizi tatuati che lo propugna. Parti con molto testo si alternano ad altre totalmente mute affidate solo all’azione. E vorrei ben vedere: ai disegni c’è lo spettacolare Bryan Hitch. Secondo me è inchiostrato meglio da Kevin Nowlan, che costringe le sue eventuali intemperanze in un’inchiostrazione più rigida e controllata. Quando si inchiostra da solo è un po’ più caotico. Come sempre l’uso di riferimenti fotografici è un bene e un male: Alfred cambia volto a seconda del modello (Vincent Price, forse Mickey Rooney, sicuramente qualcun altro che ho riconosciuto ma di cui non ricordo il nome) e spesso i personaggi di contorno hanno veramente tutti la stessa faccia, cosa che però con l’arrivo dell’Esercito del Disprezzo ha un suo perché.
Negli scambi di battute di Batman con Alfred e il Commissario Gordon emergono delle giuste critiche alle logiche dietro ad alcuni stereotipi della serie, come il fatto che Bruce Wayne potrebbe semplicemente comprare Gotham e liberarla dal crimine, o attutire quelle politiche economiche che svantaggiano alcuni portandoli sulla strada del crimine. Probabilmente nascono con intenti umoristici, però sono degli interessanti spunti di riflessione a cui Warren Ellis (o il supervisore?) dà delle giustificazioni logiche o perlomeno credibili nel contesto del fumetto. Anche il Batman costretto a farsi a piedi Gotham ha ovviamente una punta di umorismo ma, complici i disegni dettagliatissimi, lo proietta in una dimensione incredibilmente realistica.
La storia sembra inizialmente svilupparsi su una struttura che raggruppa gli episodi a coppie, pur con una trama comune sullo sfondo, per cui ogni due capitoli viene aperto e chiuso un caso. Fosse davvero così, la scelta della Panini di pubblicare sei comic book per volta di questa serie di 12 sarebbe stata sensata. Purtroppo non è affatto così: la trama si sviluppa nell’arco di tutti e dodici gli episodi e questo primo volume termina con un “bel” cliffhanger!
Anche se non si tratta proprio di un fumetto eccezionale (i nomi coinvolti avrebbero lasciato sperare che lo fosse), La Tomba di Batman è pur sempre una piacevole lettura. E chissà, magari alla fine della lettura risulterà veramente essere un fumetto eccezionale.
Per la cronaca, la tomba del titolo è quella, ancora vuota, posta accanto a quella dei genitori di Bruce Wayne, che Alfred cura amorevolmente in attesa che ci finisca anche lui. Puro elemento decorativo o alla fine avrà un ruolo rilevante nella storia?

venerdì 4 settembre 2020

Historica 95 - Capo Horn 2: L’angelo nero di El Páramo

Leggere i primi due capitoli di questo fumetto è stato un po’ arduo, con tutti quei personaggi e la sovrabbondanza di sottotrame, ma necessario per godersi appieno il gran finale in cui tutti i tasselli si mettono al loro posto, o per meglio dire si vedono i molti protagonisti agire nella maniera più adatta a loro senza bisogno che il lettore che già li conosce abbia bisogno di spiegazioni sul loro operato.
L’angelo nero di El Páramo, terzo episodio della serie, è in sostanza il lungo scontro finale tra Orth e Mac Hilian, in cui ovviamente anche Anna Lawrence, Lagarigue, Millard e gli abitanti della missione avranno il loro ruolo (anzi, Orth non partecipa nemmeno al duello che è chiamato ad affrontare). Gli Yamana se ne tengono invece alla larga, avendo ormai giustamente le palle piene dei bianchi.
Il ritmo della storia è serrato e molto avvincente, e Perrissin inserisce sapientemente verso la fine dell’episodio qualche divagazione per seguire la sorte di altri personaggi, in modo da rallentare il ritmo e invogliare ancora di più alla lettura di come andrà a finire. In un paio di occasioni mi sembra che abbia azzardato qualche tentativo di umorismo che si è rivelato però un po’ fuori luogo, ma la narrazione funziona lo stesso benissimo. I personaggi sono resi con grande umanità e realismo, ma per appassionarsi fino in fondo al loro destino bisogna appunto aver letto il precedente volume.
Capo Horn potrebbe benissimo concludersi qui, ma ne è stato realizzato un quarto capitolo, Il principe dell’anima, che funge più che altro da dietro le quinte per chiarire il mistero dell’identità e delle motivazioni di Orth e per sciogliere i nodi di altre trame secondarie. Non solo: Perrissin conclude la saga intrecciandola con la storia della nascente Argentina, facendo ancora una volta sfoggio di grande rigore e documentazione. Anche l’architettura della trama è molto ragionata visto che alla fine alcuni personaggi a cui era stato dato abbastanza spazio si rivelano solo delle funzioni narrative, micce accese qualche numero prima per poi deflagrare al momento opportuno.
I disegni di Riboldi sono ottimi, molte sequenze de Il principe dell’anima sono mute e funzionano a meraviglia. Ma avrebbero potuto essere ancora migliori: probabilmente per imposizione dell’editore ha adottato un’inchiostrazione pulita e senza molti tratteggi, così da demandare al colorista i dettagli come le pieghe dei vestiti o le montagne sullo sfondo. Ma purtroppo i colori digitali (a opera di Hélène Lenoble con un brevissimo intervento di Sébastian Lamirand) hanno un retrogusto artificiale “plastificato” che toglie fascino all’insieme. Nel complesso Capo Horn si è rivelato un gran bel fumetto, sapientemente costruito tra fantasia e Storia e soprattutto molto appassionante. Ma per goderselo bisogna affrontare la lettura dei primi due capitoli, che apparentemente girano a vuoto. Per fortuna la Mondadori ha pubblicato questo secondo volume dopo soli tre mesi dal primo, così il suo ricordo è ancora abbastanza fresco.

mercoledì 2 settembre 2020

Neanche in Belgio è tutto oro quello che luccica

Con la scusa del lockdown mi sono procurato alcuni volumi di Melusina, una serie belga che si era vista sulla rimpianta rivista The Garfield Show. La protagonista si inserisce nel filone delle eroine storiche di Spirou (Natacha, Yoko Tsuno, ecc.), bella per attirare i lettori maschi e simpatica e intelligente per piacere alle lettrici femmine. È una giovane strega di “soli” 119 anni che va a fare la ragazza alla pari presso una famiglia di mostri: marito vampiro, moglie fantasma, maggiordomo mostro di Frankenstein, ecc. Come premessa non è certo originale e gli episodi visti in Italia si facevano apprezzare senza essere entusiasmanti, con la scusante però di essere le prime puntate e quindi di dover introdurre cast e ambientazione. La struttura è quella classica belga delle gag in una tavola, più raramente in due oppure inserite in ancor più rari nuclei tematici che possono arrivare fino a quattro tavole, ma sempre con la gag alla fine di ogni pagina. L’autore dei testi era originariamente François Gilson che però a un certo punto (ho un buco nella lettura dal 12 al 24…) ha passato la mano al disegnatore Clarke che si scrive anche i testi.
I disegni sono ovviamente di matrice umoristica ma Clarke non segue lo stile “Gros Nez” dei maestri belgi adottando un tratto più delicato e un segno meno marcato e non esageratamente modulato. La protagonista giunge alle sue fattezze definitive intorno alla tavola 75, anche se poi certi dettagli come il naso subiranno ancora qualche aggiustamento. Pur essendo vestitissima, tranne quando la gag della settimana richiede altrimenti, le sue forme sono sapientemente ben delineate. I bei colori (belli almeno fin quando non ha cominciato a usare il computer) sono di un colorista o una colorista che si firma Cerise, cioè Ciliegia – ma magari è veramente il suo cognome.
Inizialmente la serie si basa su un cast ridotto e Gilson tira fuori il solito repertorio di battute e sketch su vampiri, mummie e mostri vari. Successivamente sviluppa dei riferimenti al folklore locale, che tutto sommato è abbastanza simile in tutto il mondo. Parte della freschezza della serie deriva dall’assunto di base per cui Melusina sarebbe stata assunta al castello per le sue doti di strega mentre viene relegata a fare lavori da serva. Sin da subito comunque il cast si arricchisce di personaggi originali come la zia Adrazelle e la compagna di scuola brutta e incapace Cancrelune. Come ho già fatto notare, la serie si segnala per la particolarità delle “formule magiche” pronunciate da Melusina.
Con il passare degli episodi e il consolidarsi di alcuni comprimari, come l’inquisitore e i compagni di scuola di Melusina (tra cui la sexy Krapella), la serie assume una sua forma più definita e personale e una specie di continuità, anche se il mondo di Melusina è sospeso tra medioevo e m modernità. Fondamentale per la costituzione di questo universo sarà la stupidissima (e per di più fata, quindi vergogna della famiglia) cugina Melisande, che però comparirà appena nella tavola 251. Un altro inserimento importante avverrà con le tavole 388 (che vanno da A a D, uno dei rari casi di micro-ciclo) in cui al castello si insedierà quello che in teoria è il suo legittimo proprietario, il dottor Kartoffeln che aveva creato Winston, analogo del mostro di Frankenstein.
La successiva raccolta in volumi è tendenzialmente organizzata per temi: Halloween, l’amore, la scuola di magia, il principe azzurro, ecc. e la numerazione delle tavole, che pure presenta qualche salto, lascia intendere che già in partenza Gilson avesse in mente questa organizzazione tematica. Questa tematica obbligata (che comunque lascia alcuni margini di libertà) impoverisce un po’ il lavoro dello sceneggiatore che deve trovare delle variazioni sullo stesso tema: lette in un unico volume possono sembrare ripetitive. I colpi di genio sono rari e, pur essendo Melusina una valida serie umoristica, più che ridere si sorride. Sicuramente i disegni di Clarke contribuiscono al suo fascino grazie al loro dinamismo e alla loro espressività.
Probabilmente è stato proprio lui a imporre una decisa virata nella serie quando ha preso le redini dei testi: adesso i volumi non sono più composti dalle raccolte delle gag in una pagina ma raccontano episodi completi. Quello che ho letto io, il ventiquattresimo, si conforma al resto della serie: simpatico, ma non esilarante.
Pur con tutto il successo che ha riscosso (quasi trenta volumi usciti in patria e traduzioni varie) Melusina non è probabilmente un capolavoro al pari di altri classici franco-belgi, ma costituisce una lettura piacevole e non sarebbe male se potessimo rivederla in italiano.