giovedì 27 febbraio 2020

Infedele

Infedele non è proprio il solito fumetto americano. Con la scusa dell’horror cerca di affrontare il tema del razzismo e della paranoia.
Aisha è una giovane donna musulmana che frequenta Tom, un cattolico (o quant’altro, non viene specificato) che ha una figlia dalla precedente relazione e una madre che forse non tollera molto gli islamici, anche se sta facendo di tutto per avvicinarsi ad Aisha dopo qualche incomprensione. L’appartamento dove vivono è stato teatro tempo addietro di un’esplosione accidentale di materiale accumulato da un inquilino che successivamente si è scoperto aver fatto qualche ricerca su internet in merito all’ISIS. Il palazzo (costruito in cemento prima della guerra, per questo ancora in piedi) potrebbe quindi ospitare le anime delle sei vittime, e forse sono loro che si manifestano ad Aisha, ma non solo a lei, spingendola a compiere involontariamente un gesto inconsulto che avrà gravi ripercussioni sulla vita dei suoi familiari e dei suoi amici. O la causa delle sue allucinazioni sono solo i medicinali di cui fa uso?
Più che un horror è un thriller, perché l’aspetto sovrannaturale non è poi così preponderante e l’attenzione è posta maggiormente sulle indagini con qualche colpo di scena. Pichetshote inserisce vari riferimenti pop forse per sdrammatizzare o calare la storia in un contesto subito riconoscibile al lettore, ma un po’ stonano. Anche qualche occasionale frase a effetto mi è risultata un pochino stonata, ma per fortuna sono pochissime.
Il finale è soddisfacente, ma la chiave di volta del tutto non è proprio chiarissima, chiamando in causa contemporaneamente entità cthulhoidi e fantasmi. Ma ovviamente si tratta solo di una scusa per introdurre un discorso sulla paura del diverso, sul razzismo, ecc.
I disegni di Aaron Campbell sono piuttosto buoni, l’uso massiccio di fotografie come base è funzionale anche se occasionalmente certi dettagli (come i baffetti di un personaggio) sembrano improvvisati sul momento. L’“inchiostrazione” è un po’ strana, integrata da puntini granulosi ovviamente digitali che forse vorrebbero fingere di essere tracce di grafite. Molto meglio lo stile sketchy con cui ha disegnato qualche flashback. Ma mille volte meglio delle ipertrofie supereroistiche, comunque. Un po’ meno convincenti i colori di José Villarubia, professionista di lungo corso che qui ha fatto anche da editor: sono generalmente piuttosto piatti pur con qualche rara deriva psichedelica per movimentarli un po’. Ma anche qui, nulla di cui lamentarsi.
Sicuramente avrebbe reso meglio in un film, e chissà che anche questa come il Lovecraft disegnato da Enrique Breccia non sia una sceneggiatura cinematografica riciclata. Anche il finale che lascia aperta la possibilità di un seguito mi fa sostenere questa ipotesi.
Non malaccio come lettura, ma assolutamente non così irrinunciabile da meritarsi l’esborso di 22 euro.

lunedì 24 febbraio 2020

Fumettisti d'invenzione! - 146 - Speciale Ralph Steadman

Mi permetto di integrare il divertente e interessantissimo volume di Alfredo Castelli con altri “fumettisti d’invenzione” e simili.
In grassetto le categorie in cui ho inserito la singola segnalazione e la pagina di riferimento del testo originale.
Puntata monografica, stavolta, dedicata all’illustratore Ralph Steadman che fu anche occasionalmente fumettista.

Fuori tema: fumettisti non d’invenzione: citazioni, caricature, camei; fumetti biografici; metafumetti e autoreferenzialità; parodie
METAFUMETTI E AUTOREFERENZIALITA’ (pag. 64)

THEO (IDEM)
(Gran Bretagna/Italia 1960/1967, in Linus, © Steadman/M.L.E., umorismo)
Ralph [Idris] Steadman

Fumetto dalla vita editoriale complessa, a quanto pare ripudiato dallo stesso autore che non ne dà traccia sul suo sito, nato nel 1960 ma pubblicato solo sette anni dopo da Linus in una forma ampliata con un prologo inedito, dopo essere stato rifiutato da tutte le testate a cui fu proposto.
Theo è il protagonista di una striscia a fumetti, consapevole di esserlo, in cui avvengono regolarmente delle situazioni metanarrative.
Pseudofumetto: Gli Hamilton Wilonslows, striscia a fumetti ideata polemicamente da Steadman (edita dal «Chimes» parodia del Times che gli rifiutò la pubblicazione di Theo) come contraltare alla sua striscia: a fronte dell’insuccesso totale di pubblico, la striscia viene sostituita appunto da Theo.

Come riportato sopra, Steadman è più noto come illustratore che come fumettista, e in tale veste ha anche partecipato alla trasmissione televisiva Jackanory; forse è noto ancora di più come amico e collaboratore di Hunter S. (Stockton) Thompson, l’ideatore del “gonzo journalism” la cui vita servì d’ispirazione per il film di Terry Gilliam Paura e Delirio a Las Vegas.
Proprio in quest’ultima veste Steadman è apparso in diversi documentari, anche se non sono mancati film e trasmissioni televisive dedicati interamente a lui:

[CINEMA] ILLUSTRATORI (pag. 103)

FOR NO GOOD REASON (PER NESSUNA BUONA RAGIONE)
(Stati Uniti/Gran Bretagna 2012, documentario)
Regia: Charlie Paul; sceneggiatura: non accreditata, con Ralph [Idris] Steadman (se stesso), Johnny [John Christopher] Depp (se stesso), Terry [Terrence Vance] Gilliam (se stesso), Hunter S. Thompson (materiale di rrpertorio)

Johnny Depp, amico e interprete di Hunter S. Thompson nel film Paura e Delirio a Las Vegas, incontra Steadman e parla delle sue esperienze di illustratore e di “gonzo journalist”.

[TELEVISIONE] ALTRO (pag. 129)

OMNIBUS
(Gran Bretagna 1967, 42 stagioni, 750 episodi)
Documentari, BBC1 (dal 1967 al 2001), BBC Two (2001-2003), creato da [llo staff della BBC].

Serie di documentari incentrati principalmente su arte e musica, erede della precedente trasmissione Monitor (1958-1965).

Episodio Fear and Loathing on the Road to Hollywood (1978)
Con Edward Judd (voce), Ralph [Idris] Steadman, Hunter S. Thompson
Diretto da Nigel Finch

Il documentario è noto anche come Fear and Loathing in Gonzovision e si concentra sul viaggio che Thompson intraprese insieme a Steadman nel 1971 verso Hollywood da Las Vegas. Di Steadman vengono riproposte interviste ed esempi delle sue opere.

[CINEMA] FUORI TEMA 1 – TEMATICHE LIMITROFE (pag. 108)

BUY THE TICKET, TAKE THE RIDE: HUNTER S. THOMPSON ON FILM
(Stati Uniti 2006, documentario)
Regia: Tom Thurm; sceneggiatura: Tom Marksbury, con Ralph [Idris] Steadman (se stesso), Johnny [Johnny Christopher] Depp (se stesso), Benicio Del Toro (se stesso)

Raccolta di interviste tra familiari e amici di Hunter S. Thompson.

[CINEMA] FUORI TEMA 1 – TEMATICHE LIMITROFE (pag. 108)

GONZO: THE LIFE AND WORK OF DR. HUNTER S. THOMPSON
(Stati Uniti 2008, documentario)
Regia: Alex Gibney [Philip Alexander Gibney]; sceneggiatura: Alex Gibney [Philip Alexander Gibney] con scritti di Hunter S. Thompson, con Hunter S. Thompson (materiale di repertorio), Johnny [John Christopher] Depp (voce narrante), Ralph [Idris] Steadman (se stesso)

Altra raccolta di testimonianze sulla vita e le opera di Hunter S. Thompson, con particolare riguardo all’influsso che ebbe sulla politica e la musica.

venerdì 21 febbraio 2020

Volt Stagione 2 6: Il Giorno del Giudizio

Toh, alla fine è uscito, ormai avevo perso la speranza. Anzi, me n’ero proprio dimenticato.
Questo finale di stagione rivela parecchio ma introduce anche nuove situazioni che necessitano di ulteriori sviluppi e chiarimenti. E infatti viene annunciata una terza stagione.
Ne Il Giorno del Giudizio due vicende scorrono parallele: da una parte il boss di Volt, che scopriamo chiamarsi Browno (quasi come il gestore di una fumetteria, anzi due, di Udine…), partecipa a una riunione dei Guardiani dove il suo operato viene contestato (sul perché venga contestato e quale sia il suo «operato» è meglio tacere per evitare spoiler), dall’altra il protagonista si ritrova da solo in fumetteria dove T-Rex ha colonizzato il negozio con delle sue repliche robotiche! Il titolare della serie viene quasi messo in secondo piano lasciando la scena agli altri, fino al colpo di scena finale in cui emerge il suo lato negativo.
La sequenza dello scontro di Browno contro i suoi tre contestatori è una parodia (credo) degli infiniti combattimenti di manga tipo Dragonball e francamente l’ho trovata un po’ lunga e noiosa (anche se i nomi delle mosse sono divertenti), ma per fortuna la rivelazione di come stessero veramente combattendo ha risollevato farsescamente il tutto.
Vengono chiariti i rapporti tra i Guardiani e le M.O.M.S., si scoprono gli infiltrati nei rispettivi ranghi e viene spiegato chi è il misterioso uomo coi baffi. In sostanza, non si può parlare troppo di questo episodio senza rischiare di rovinarne la lettura, per cui non aggiungo altro. Se non che Rocket, il “cagnolino” di Volt, ha un ruolo determinante nonostante pensassi che la sua introduzione fosse stata giusto una trovata estemporanea. E comunque, con tutti i mesi passati dalla sua apparizione, chi se lo ricordava?
Purtroppo manca L’Uomo Pigro, che è stato il pezzo forte degli albetti di questa seconda stagione. Stagione che si è concentrata anche sulla caratterizzazione del cast che ruota attorno a Volt e alla definizione del suo universo narrativo, e forse per questo ogni tanto ha accusato il colpo risultando un po’ lenta. Dopo un esordio molto promettente c’è stata forse una flessione qualitativa dovuta anche a divagazioni citazioniste, ma con gli ultimi tre episodi Volt si è risollevato alla grande. Di certo la periodicità molto stiracchiata non ha giovato al godimento della testata, e viene spontaneo chiedersi chissà quando vedremo il seguito così come nasce il timore che dovremo sorbircelo centellinato come in questa Stagione 2. Ma per fortuna nell’editoriale Andrea Ciccarelli auspica e anticipa che prossimamente vedremo Volt in una veste editoriale diversa.

mercoledì 19 febbraio 2020

Frigidaire

Ah, quanto adoro la sana abitudine del -50%!
Questo tomo è uscito per BUR dieci anni fa ed è un memoir più che una antologia di fumetti, anche se in effetti qualche storia a fumetti (o presunti tali) c’è. Introducendolo, Vincenzo Sparagna parla di «trailer» alla lettura di Frigidaire, con quel suo piglio un po’ fumoso che caratterizzava i redazionali di Frigidaire e le introduzioni degli albi, che non si capiva mai se fosse frutto di un reale e profondo ragionamento o una boutade estemporanea. Ma questa impressione balena solo nelle primissime pagine del volume.
Che Sparagna fosse una persona colta lo si capiva già da quei redazionali e quelle introduzioni, ma col tempo il suo stile di scrittura si è molto asciugato e perfezionato, lasciando da parte certi voli pindarici e qualche raro bizantinismo che mi lasciavano un po’ perplesso. La lettura di Frigidaire è veramente un piacere, anche al di là degli argomenti trattati. Sparagna scrive meravigliosamente e, per quanto non abbia ancora capito come si manda a capo la lettera S (ma la BUR non ha un correttore di bozze?), esprime dei concetti molto interessanti in una forma sempre avvincente ed evocativa, ma mai retorica, che spinge a divorare il volume.
A questo si aggiunge l’onestà intellettuale con cui Sparagna ammette di non poter fornire altro che la sua visione personale sugli episodi ricordati, e di aver volontariamente omesso qualcosa, sia per una questione di salvaguardia da eventuali denunce (situazioni che conosce sin troppo bene) sia per non soffermarsi su episodi dolorosi a volte già sviscerati in altre sedi.
Frigidaire parla della rivista omonima, certo, ma in maniera centrifuga: svelando (ma forse ricostruendo a posteriori) come fosse un progetto molto più vasto di cui il mensile era solo l’epifenomeno che aggregava intelligenze ed esperienze diverse in campi anche molto distanti tra di loro. La narrazione, perché tutto sommato il testo è avvincente come un romanzo (con tanto di costanti riferimenti alle traversie di Sparagna per trovare fondi e alla girandola di compagne che ha avuto), segue un filo scrupolosamente cronologico e comincia dai tardi anni ’70 con le vicende di Cannibale e Il Male per arrivare alla fondazione di Frigolandia. Le pagine sono generosamente illustrate da riproduzioni di copertine, tavole a fumetti, fotografie che ai cultori (ma anche solo ai frequentatori occasionali) delle varie riviste della Primo Carnera risulteranno piacevolmente familiari.
Non mancano sorprese e rivelazioni, come l’inaspettato odio di Sparagna per i manga o il fatto che i semi di canapa allegati a un numero della rivista non fossero esattamente quello che era stato lasciato intendere (e io scemo a piantarli nel cotone). E ovviamente ci sono alcune curiosità: nei primi anni ’80 si stava per concretizzare la realizzazione di un film su Ranxerox ma a girarlo avrebbe dovuto essere Salvatore Piscicelli! Francamente, non ce lo vedo proprio a girare un film di fantascienza (in Italia e 40 anni fa, poi), ma chissà che non si sia mancato un capolavoro.
Ovviamente tra le parti più emozionanti ci sono i ricordi di quanti, incrociata la propria esistenza con quella di Frigidaire anche solo per poco, non arrivarono fino alla fine della corsa. Curiosamente i ricordi che mi hanno colpito di più non sono quelli relativi a Tamburini e Pazienza, ma quelli del bravissimo pittore Franz Ecke e del giornalista Enzo Russo. Oltretutto il giusto spazio viene anche dedicato a segretarie e segretari di redazione, figure indispensabili quanto spesso misconosciute.
Se avessi saputo che era un così bel volume non avrei aspettato i saldi per prenderlo.

lunedì 17 febbraio 2020

Corto Maltese: Il Giorno di Tarowean

Altro volume che finalmente mi è arrivato dopo un’attesa spropositata.
Il giorno di Tarowean è il 1 novembre, il momento in cui il mondo dei morti incontra quello dei vivi, come ci spiegano le dotte disquisizioni di Corto Maltese all’inizio. Nello specifico, la storia prende l’avvio il 1 novembre 1912, un anno esatto prima della Ballata del Mare Salato, di cui è il prequel. Non tutti i dettagli collimano perfettamente con la storica entrata in scena di Corto Maltese ma forse il Corto di Pratt a suo tempo avrà voluto ingigantire e abbellire qualche dettaglio.
Corto Maltese e Rasputin sono ingaggiati per far evadere un misterioso ragazzo da un carcere dismesso della Tasmania. Si tratta di una macchinazione ordita dal Monaco, tra sottintesi e divagazioni la vera natura di questa operazione la scopriremo solo più avanti nella lettura. Come scopriremo che “il” Monaco era in origine un gruppo di più persone. Cosa che forse gli estimatori più informati di me sull’opera di Pratt sapevano già, ma che per me è stata una novità.
Comunque al di là dello sviluppo della trama, che nelle quasi 80 pagine del fumetto si snoda in vari rivoli e con risvolti diversi, è bello farsi trasportare dall’originalità delle situazioni, dalla cura con cui sono state ricostruite le ambientazioni, dall’arguta affabulazione dei personaggi – tra cui un Rasputin in grande spolvero.
Díaz Canales ha fatto suo lo stile di Pratt fondendo quello della Ballata con quello della maturità, riprendendone quindi le divagazioni colte, i dialoghi brillanti e il ritmo piacevolmente fluttuante di una trama che sembra non procedere verso nessuna direzione precisa (oltre alla comparsata di personaggi storici, se ho ben capito). Ma questo lo sapevamo già. Il Giorno di Tarowean è un gradino sopra gli altri due episodi realizzati dai nuovi autori per il buon mix di azione e riflessione, di umorismo e tensione, di magia (non molta a dire il vero) e crudo realismo, e anche perché le varie sottotrame sono ragionate e concluse degnamente, né manca qualche colpo di scena.
Buoni i disegni di Rubén Pellejero, anche se la rinuncia al suo caratteristico stile morbido in favore delle asperità prattiane e dei suoi tratteggi frettolosi mi fa sospettare di un minore impegno (o una maggiore facilità d’esecuzione) da parte sua. Inoltre come ricordato da Dominique Petitfaux in All’Ombra di Corto le donne di Corto Maltese hanno poco seno mentre Pellejero le disegna quasi sempre prosperose.
Unica nota stonata sono i colori, realizzati dallo stesso Rubén con Sasa Pellejero: smaccatamente digitali, mal si amalgamano con il resto. E poi a volte portano a una fastidiosa puntinatura che contribuisce a peggiorare un esito di stampa già non ottimale.

sabato 15 febbraio 2020

Historica Biografie 34: Stalin

Un flashforward ambientato nel 1934 anticipa la storia, che prende le mosse nel 1922 mostrandoci il protagonista mentre “accudisce” da par suo Lenin cercando contemporaneamente di sveltirne il trapasso e di farsi legittimare come suo successore. Ma i propositi di Stalin sembrano essere disperati: in una lettera che viene letta agli alti papaveri del Comitato Centrale, tra cui lo stesso Stalin, Lenin chiede esplicitamente la sua destituzione. Alla morte di Lenin inizia quindi il piano mefistofelico di Stalin per accentrare su di sé tutto il potere: un progetto che sembra destinato al fallimento sia per l’ostilità conclamata degli altri dirigenti sia per l’oggettiva rozzezza di Stalin, paranoico e privo della cultura dei suoi rivali. Vincent Delmas sviluppa quindi la sceneggiatura come un thriller, e benché l’esito sia conosciuto riesce a creare la giusta tensione nel lettore, addentrandosi nei vari rivoli della vicenda portante. Purtroppo però il volume si conclude con il consolidamento definitivo di Stalin (più una “coda” di mezza pagina ambientata nel 1940 che svela il destino di Trockij) e copre quindi solo metà della sua vita politica. Credo sia l’unico volume di Historica Biografie che non si conclude con la morte, o comunque con le ultime gesta, del protagonista. Anche se il fumetto è stato pensato per essere concluso così (come da splash page finale) sono rimasto un po’ interdetto, anche perché della vita di Iosif Vissiaronovic Dzhugashvili si sarebbe potuto parlare anche di quanto successo prima del 1922.
I disegni di Fernando Proietti, su storyboard di Christophe Regnault, sono sicuramente validi ma li ho trovati poco adatti a questo fumetto: il suo stile è espressionista, un po’ Milazzo e un po’ Zaffino, e un maggiore realismo avrebbe reso meglio l’atmosfera di Stalin, tanto più che essendo ambientato in Russia e ponendo anche l’accento sulla propaganda un po’ di monumentalismo non sarebbe stato male. Sicuramente è lodevole come Proietti riesca a far trasparire le emozioni dei personaggi con le pieghe delle loro bocche, il gioco degli sguardi e la tensione dei pugni chiusi, ma in fondo gli stessi effetti si sarebbero avuti anche con uno stile più realistico e dettagliato. I colori sono dell’Arancia Studio, habitué di questa collana.
L’apparato storiografico è firmato da Nicolas Werth e integra bene la lettura del fumetto, precisando ad esempio che Lenin venne colpito da un ictus (io non l’avevo capito) e spiegando come certe parti siano frutto di una scelta operata tra varie congetture avanzate dagli storici. Il “making of” invece è molto povero e non spiega nulla delle scelte stilistiche degli autori.

venerdì 14 febbraio 2020

Dylan Dog Color Fest 32: Altre Visioni

Dietro una copertina un po’ incongrua di Gloria Pizzilli si celano tre storie piuttosto particolari.
Nella prima, Dì ciao, scritta e disegnata “al neon” da Piero Dall’Agnol, Dylan Dog si muove in alcune sequenze di film un po’ modificati ma perfettamente riconoscibili, con l’occasionale apparizione di un volto misterioso. La spiegazione di questo delirio è la soluzione classica a cui storicamente ricorrono gli scrittori quando non sanno trovare una “vera” spiegazione, e qui questo meccanismo viene anche duplicato, cosa già vista in molti altri contesti e probabilmente anche in Dylan Dog. Anche se il motivo principale di interesse di questa storia è la parte grafica, inizialmente si rimane un pochino delusi ma tutto sommato una volta metabolizzato il tutto non è stata affatto una brutta lettura, considerati anche i dialoghi simpatici e le situazioni surreali in cui è calato Dylan Dog.
La seconda storia breve è ancora più strana: in Welcome to the Jungle il cast della serie è trasfigurato in versione animale! Si tratta principalmente di una storia muta, niente affatto disneyana ma anzi piuttosto violenta, in cui alla fine viene svelato il motivo di questa “mutazione”. In realtà non viene spiegato per esteso ma lo si intuisce, e non ci vuole tanto per farlo. I disegni stilizzati di Yang Yi mi sembrano più adatti a un libro per bambini che non a un fumetto realistico, per quanto trasognato come in questo caso. Ben tre autori (Isaak Friedl, Luca Leo e Marco Nucci) hanno elaborato soggetto e sceneggiatura.
Alessandro Baggi in Brokedown Palace si muove invece in territori più canonici: è la classica storia in cui Dylan Dog riflette su se stesso, anche se con un’indagine di mezzo, e riepiloga un po’ la sua essenza. Data la struttura, il fumetto assomiglia più a un racconto illustrato, cosa che il bravissimo Baggi si può sicuramente permettere data la sua maestria nel disegno e nel colore, già dimostrata proprio sulle pagine di questa collana. Però in questo frangente ho notato una certa disarmonia tra alcune vignette non perfettamente amalgamate tra loro: le ottime immagini dipinte convivono con disegni realizzati al tratto e colorati successivamente, e lo stacco si nota. Anche questa storia si conclude con un ribaltamento di prospettiva, ma anche questa si gusta di più per la bellezza grafica che per l’originalità del soggetto, per quanto sia sicuramente la più densa delle tre.
Rimango dell’idea che la carta patinata sarebbe molto più adatta a valorizzare i disegni e soprattutto i colori, tranne forse nel caso di Dì Ciao in cui la porosità contribuisce all’effetto di evanescenza che (immagino) Dall’Agnol voleva trasmettere in alcune vignette.
In definitiva questo Color Fest è una raccolta di storie interlocutorie (sicuramente consapevolmente progettate per esserlo) che una volta “digerite” non faranno pentire chi ha comprato l’albo.

giovedì 13 febbraio 2020

Le Storie 89: La Giungla Nera

Ho preso questo numero de Le Storie irretito dall’intervista a Dante Spada sull’ultimo Fumo di China corredata da splendide immagini delle tavole a mezzatinta.
La vicenda è ambientata a Calcutta nel 1860 e forse, da quanto si legge nell’introduzione di Gianmaria Contro, potrebbe essere il seguito di un precedente numero della collana, ma è comunque perfettamente leggibile a se stante. Contro spiega anche di non voler incorrere nelle «ire degli anti-spoileristi più sfegatati» (visto, Gianni? così si fa) e pertanto non anticipa di chi sono le comparsate eccellenti che vedremo nel fumetto. D’altra parte non ci vuole molto intuito per capire di chi si tratti considerando il titolo.
Il giovane ispettore Cuthybeart viene spedito in India dove, nonostante la pessima impressione iniziale che fa ai maggiorenti locali a causa della sua goffaggine, riesce a risolvere il caso di una ragazza scomparsa. Ma il rinvenimento della ragazza è solo il primo tassello di un mosaico ben più grande, di un complotto in cui si troverà invischiato Cuthybeart sfidando alcuni dei potenti locali. Per sua fortuna, può contare sull’aiuto delle comparsate eccellenti di cui sopra.
I dialoghi di Paolo Morales (che io ricordo ancora come dignitoso clone di Mandrafina a metà anni ’80) sono talvolta pomposi ed enfatici forse per assecondare il tono della letteratura a cui fa riferimento, il ritmo della narrazione è invece scattante e moderno. Senza didascalie, si appoggia anche su stacchi vertiginosi che creano dei begli effetti incalzanti o persino umoristici, vedi il passaggio da pagina 11 a pagina 12.
Dal punto di vista grafico, i disegni non deludono le aspettative delle anteprime su Fumo di China. Spada ha usato una mezzatinta che a volte sembra essere stata integrata da qualche sfumatura di matita. I suoi personaggi sono espressivi e dinamici, ed è molto bravo a disegnare gli animali. Più che l’auspicata ristampa in grande formato citata sulla rivista, credo che le sue tavole trarrebbero più beneficio da una carta migliore: mi pare che proprio su Fumo di China, per quanto ridotte di formate, rendessero di più.
L’unico aspetto che inizialmente mi convinceva poco di questo albo era la copertina di Aldo Di Gennaro: sicuramente realizzata con maestria ma apparentemente fuori fuoco rispetto alle azioni salienti del fumetto. In realtà rappresenta una buona sintesi di quello che il lettore si appresterà a leggere, anche senza raffigurare il protagonista.

mercoledì 12 febbraio 2020

L'Ultimo Faraone

Non è stato facile[1] ma alla fine anch’io ho potuto leggere questo episodio fuori serie della saga di Edgar Pierre Jacobs sontuosamente disegnato da François Schuiten. La vicenda è ambientata in un anno imprecisato, gli abiti e gli automezzi sembrano ispirati agli anni ’70, ma la presenza diffusa di computer negli uffici fa pensare di più agli anni ’80 – e alla fine si parla anche di server, ma si sa che i militari dispongono di tecnologia in anticipo sui tempi. L’Ultimo Faraone nasce come enorme (ben 85 tavole) depliant pubblicitario del Palazzo di Giustizia di Bruxelles e di altri monumenti ed edifici della capitale belga, e anche se 12 – L’Amata partiva da un impulso simile qui il “product placement”, chiamiamolo così, è più evidente.
Mortimer si trova a indagare proprio nel Palazzo di Giustizia, preda di incubi che lo tormentano da anni, vestigia della sua avventura nella Grande Piramide. Qui trova tracce di geroglifici e mette in azione una misteriosa fonte di energia che annulla ogni funzionamento degli apparecchi elettrici e meccanici in un raggio molto ampio, facendo regredire Bruxelles a uno stadio pre-tecnologico. Per evitare l’espansione del fenomeno oltre i confini di Bruxelles Mortimer progetta una gabbia di Faraday con cui rivestire il Palazzo di Giustizia. La città viene fatta evacuare, ma alcuni anarchici o ambientalisti o derelitti o semplicemente delusi dalla società ci vanno a vivere di propria volontà.
La minaccia di regressione sembra espandersi al resto del mondo, e l’ONU delibera a favore di un piano per risolvere il problema alla radice: lanciare delle testate nucleari al trizio con cui distruggere il Palazzo di Giustizia e quindi tutta Bruxelles. Blake si oppone a questa soluzione estrema e confida che il vecchio amico sappia risolvere la situazione recandosi sul posto, ma a quanto viene accennato nei dialoghi le forze militari (in cui Blake non è riuscito a fare carriera) non hanno più una grande opinione di lui.
In effetti sono rimasto un po’ male nel vedere come sono stati trattati i protagonisti: Blake non gode più della considerazione di prima nell’esercito (anche se ha facile gioco a convincere un giovane tecnico a ritardare il lancio) mentre Mortimer è tratteggiato come un mezzo rincoglionito ormai sconfessato dalla comunità scientifica a causa dell’abuso di medicinali a cui ricorre per tenere a bada i suoi incubi ricorrenti. Non è che questi aspetti vengano sottolineati più di tanto, ma comunque mi hanno fatto pensare che forse Schuiten, Van Dormael e Gunzig avrebbero potuto realizzare la loro storia senza chiamare in causa per forza Blake e Mortimer, ma l’aggancio con Il Mistero della Grande Piramide è fondamentale e sarebbe stato difficile adattarlo ad altri personaggi. Che oltretutto non avrebbero avuto ovviamente la stessa presa commerciale.
Mortimer giunge quindi a Bruxelles, dove scopre un mondo isolato, una sorta di comunità hippie che vive con quello che la natura (che nel frattempo si è rimpossessata della città) ha da offrire. Incontra anche una persona che provenendo dall’Egitto conosce il sistema per sedare e interpretare i suoi incubi. Seguendo la profezia che vuole che l’Ultimo Faraone imponga l’ultimo sigillo per liberare l’energia, ritorna al Palazzo di Giustizia magnificandone le bellezze anche se corrose dal tempo e dall’incuria: qui rivede una vecchia conoscenza e scopre un mare sotterraneo. Il retroscena della storia viene svelato, ma non tutti i personaggi in gioco sono dalla sua parte, e assisteremo a qualche voltafaccia. Purtroppo assistiamo anche a più di un “ritorno a effetto” di personaggi che di logica avrebbero dovuto essere usciti dal quadro. Certo, è un meccanismo abbastanza comune nella letteratura popolare per sorprendere il lettore e far evolvere la trama, ma questi ritorni mi sono sembrati inverosimili senza uno straccio di spiegazione.
Fin qui L’Ultimo Faraone è un più che dignitoso fumetto forse non originalissimo ma avvincente e ben scritto, che trasmette un notevole sense of wonder. Poi arriviamo al finale e la storia deflagra con la splendida soluzione con cui Mortimer “salva” il mondo. Data la natura del nuovo status quo è evidente che quello in cui è ambientata questa storia è un mondo alternativo rispetto a quello canonico della saga (Mortimer ne fa forse un cenno metanarrativo nell’ultimo dialogo). Ovviamente trattandosi di un’interpretazione non canonica della saga era lecito aspettarselo, ma lo stesso mi ha sorpreso piacevolmente: insomma, proprio una conclusione ben architettata e originale. Non fosse che mi è arrivato così tardi[2] un posticino nel Meglio del 2019 lo avrebbe trovato.
I disegni di Schuiten sono spettacolari, e in teoria non ci si sarebbe dovuti aspettare di meno. In effetti dalle immagini che avevo visto in anteprima mi era sembrato che non fosse stato in grado di interpretare correttamente i protagonisti, soprattutto Blake, invece per fortuna non è così. Purtroppo l’eccellente lavoro di Schuiten è stato in parte vanificato dalla colorazione digitale di Laurent Durieux. È paradossale che un’opera che racconta (e un po’ esalta) il ritorno a un mondo preindustriale sia stata un po’ rovinata dall’uso del computer. Il colorista ha quel brutto vizio di colorare anche i tratteggi e le campiture del disegnatore, definendo così una gerarchia, che si spera concordata con l’artista, di quello che il lettore deve “leggere”. Così però si vedono delle vignette in cui i personaggi risaltano su sfondi pastello spesso dettagliatissimi, che così si perdono e passano anche metaforicamente in secondo piano. Inoltre Durieux cerca di far suo lo stile di Schuiten e si inventa dei tratteggi colorati dove di logica il disegnatore non li aveva messi. Ma d’altra parte quando non ricorre a questa tecnica i suoi colori sono a volte tagliati con l’accetta, ad esempio senza seguire le logiche pieghe che dovrebbero avere i vestiti, o le sfumature delle nuvole… inoltre spesso i colori scelti mi sono sembrati troppo accesi, gli accostamenti azzardati e le sottolineature semplicemente pacchiane (il McGuffin con cui Mortimer risolve la situazione dà quasi fastidio per l’evidenza che gli viene data nelle scene che in teoria dovrebbero essere buie).
Nel complesso comunque nulla di proprio imperdonabile, ma sono sicuro che in bianco e nero avrebbe reso di più. Probabilmente molto di più.
A proposito di McGuffin, speravo che il cane di Mortimer avrebbe avuto un qualche ruolo, invece non ha nemmeno un nome…


[1] «Non ti è ancora arrivato il Blake e Mortimer di Schuiten?»
«Sì, certo, me ne sono arrivate diverse copie.»
«E non me lo hai messo da parte?!»
«Erano tutte rovinate, ho dovuto restituirle ma mi torna prestissimo.»
Questo prima di Natale.
[2] «Non ti è ancora arrivato il Blake e Mortimer di Schuiten?»
«Sì, certo, me ne sono arrivate diverse copie.»
«E non me lo hai messo da parte?!»
«Erano tutte rovinate, ho dovuto restituirle ma mi torna prestissimo.»
Questo prima di Natale.

domenica 9 febbraio 2020

Paulus

Gianni, Gianni, cosa mi hai combinato! Ahimè, preso dalla foga Brunoro nella prefazione ha ben pensato di rivelare il finale di Paulus in tutti i dettagli… saranno (saremo) poi così pochi quelli che non lo conoscevano? E va beh, a Lucca mi farò offrire un caffè se lo incontrerò.
Con Paulus si chiude un po’ un cerchio nella mia vita di lettore di fumetti, perché ricordavo distintamente che alle elementari un compagno di classe aveva portato qualche numero de Il Giornalino in cui veniva pubblicato e mi aveva molto colpito, ma non avevo mai avuto la possibilità di leggerlo. Figurarsi che mi ricordavo che era in bianco e nero. Finalmente il desiderio è stato soddisfatto e le aspettative non sono state deluse.
La storia è ambientata in un futuro remoto in cui l’universo, un unico Impero Galattico, è “pacificato” grazie all’intervento del SATS, un mefistofelico ibrido umano-computer che controlla tutto l’universo e detta le regole di comportamento. Sopra la casta dei Burocrati, degli androidi, dei robot e dei semplici cittadini ci sono i Primi Dirigenti, una sorta di ministri incaricati di seguire vari aspetti della politica e della società galattica. Paulus è uno di questi, il Primo Storico Galattico direttore del Pianeta-Biblioteca. In questo mondo futuribile i libri possono essere proiettati tramite la tecnologia disponibile ed è così che Paulus apprende delle vicende di Saulo di Tarso, fariseo acerrimo nemico dei primi cristiani che però proprio al Cristianesimo si convertirà diventando una pedina fondamentale per la diffusione della religione a Roma.
Paulus ammira dunque la vita di quello che diverrà San Paolo insieme al robottino Alter, che pare R2-D2 disegnato da Jacovitti e funge da coscienza del protagonista, e si stupisce delle molte analogie che intercorrono tra la sua vita e quella del predicatore. La corrispondenza pedissequa tra le vicende dei due personaggi (all’inizio Paulus dà consigli a un altro Dirigente su come sedare una rivolta simile a un episodio biblico, anche lui soffrirà di mal di testa esattamente nel momento in cui ne soffrirà Saulo, ecc.) viene comunque abbandonata presto per lasciare maggior margine di manovra allo sviluppo della storia. Paulus non si limita infatti a mettere in scena il “fumetto nel fumetto” della vita di San Paolo ma ha una sua trama e una sua cosmologia precisa da rispettare, per cui assistiamo anche ai contatti sempre più problematici di Paulus con il SATS (che gli ordina di eliminare proprio il documento che sta cercando) e alle trame del perfido Mavors, un altro Primo Dirigente geloso di Paulus. Per quanto il fumetto abbia un forte e voluto impianto didattico, o meglio agiografico, questo non pesa più di tanto, anzi quasi per nulla. Di per sé la storia è appassionante e alcune trovate sono anche piuttosto originali (il SATS che sceglie un sempre più riluttante Paulus per usare il suo corpo come prossimo ricettacolo della sua essenza): nulla di eclatante per chi abbia letto un po’ di fantascienza moderna, ma comunque lodevoli se pensiamo alla destinazione prima di questo fumetto. Purtroppo il technobabble è drammaticamente invecchiato, come sempre accade con la fantascienza, e sentir parlare oggi di «arma zeta» e di «cariche protoniche» fa un po’ sorridere.
Le tavole della “proiezione” dei vari reperti hanno una struttura fissa, con tre strisce in cui al centro c’è uno splendido dipinto a tempera di De Luca (comprensivo di balloon) e ai lati Alter e Paulus disegnati al tratto a fare un po’ da quinte teatrali e occasionalmente da commentatori. E fanculo allo storytelling, com’è giusto e sacrosanto che sia. Le altre tavole sono totalmente libere e già in apertura De Luca riprende ad esempio alcune soluzioni memori della Trilogia Shakespeariana. Inoltre le rare scene di lotta fisica o di battaglia stellare sono molto dinamiche ed efficaci. È probabile che a De Luca sia stata concessa la massima libertà nel visualizzare il mondo del futuro, e così ha creato degli alieni dalla fisionomia tanto rassicurante da diventare ridicola (Paulus era pur sempre pubblicato su Il Giornalino) ma che in alcuni casi hanno anche qualcosa di inquietante. I costumi sono molto originali, unendo elementi di tute spaziali ad altri dettagli di gusto precolombiano. Il SATS è un mostro biomeccanico terrificante e anche la scenografia in cui si trova trasmette un senso di inquietudine, con i “questuanti” costretti a rivolgersi a lui sospesi su un telone. I labirinti di archivi dell’Archivio Segreto del Settore Ypsilon danno veramente le vertigini, l’unica cosa che un po’ stona è l’abbigliamento di Mavors che contempla un assurdo casco da motociclista, che però nessun motociclista di buon gusto indosserebbe mai. Da quello che si può evincere dalle date poste in calce ad alcune tavole, De Luca ha impiegato due anni per realizzare Paulus e la cosa non mi stupisce visto che solo le vignettone/quadri sono più di 150, e non le ha certo tirate via. Anche il resto è curatissimo e se prestiamo attenzione agli sfondi ci accorgiamo che probabilmente non ha fatto ricorso alla fotocopiatrice nemmeno quando sarebbe stato lecito farlo. Probabilmente era questo il fumetto rivoluzionario di cui parlò nell’intervista su Fumo di China 22.
Nella postfazione Gianni Brunoro si fa parzialmente perdonare lo spoiler iniziale rivelando l’apporto a livello di ricerca (sottintendendo però che la sceneggiatura è da attribuire anche o forse solo a lei) di Renata Gelardini, una collaboratrice molto attiva e poco ricordata de Il Giornalino (e di molte altre testate) mentre Tommaso Mastrandrea ha ideato il soggetto.
Il volume è un bel cartonato stampato su una carta uso mano bella pesante, che non vanifica il tratto o i colori di De Luca. La qualità di stampa è praticamente perfetta e il fumetto in sé consta di ben 100 tavole. Sicuramente un acquisto consigliatissimo (costa 22,50 euro), ma non fate il mio errore: se non avete mai letto Paulus leggete la prefazione SOLO DOPO aver letto il fumetto. Per quanto si chiami prefazione…

sabato 8 febbraio 2020

Historica 88 - Valois 1: Il miraggio italiano

Valois è ambientato all’alba delle Guerre d’Italia, che i lettori di Dago conoscono bene: Carlo VIII in preda a manie di grandezza decide di rimpossessarsi di Napoli, anche perché malconsigliato dalla sua corte di opportunisti – non che ci volesse molto a fargli prendere quella decisione. Gli eventi storici non rimangono proprio sullo sfondo, ma procedono paralleli a quello che è in sostanza un buddy movie che vede prima contrapposti e poi amici “per forza” i due veri protagonisti: da una parte Henri Guivre De Tersac voleva fare il soldato e riempirsi di gloria ma l’ultima raccomandazione che ha potuto sfruttare gli ha permesso di diventare solo segretario dello zio diplomatico De Brie, dall’altra il catalano Blasco De Villalonga è stato indirizzato alla vita monastica dal padre mercante dopo una delusione amorosa finita col primo sangue del ricco rivale.
Il caso li fa incontrare in una taverna con i rispettivi seguiti e per sfuggire a un agguato verranno accolti dal capitano di ventura Vitellozzo Vitelli che ne farà dei soldati, introducendoli così al variegato mondo delle Guerre d’Italia e delle compagnie mercenarie.
Come dicevo, la Storia è coprotagonista di Valois e non solo il palcoscenico su cui si muovono Henri e Blasco. Forse anche per questo Thierry Gloris ha voluto enfatizzare le gesta di alcuni personaggi (figurarsi, ci sono persino i Borgia) o ha scelto le spiegazioni più spettacolari o pruriginose per le motivazioni di alcuni fatti storici. Il suo stile di scrittura riflette questa tensione tra rigore storico ed esigenze per così dire commerciali, alternando nei dialoghi un registro schietto e volgare con un altro che vorrebbe mimetizzarsi con la parlata dell’epoca. Il risultato è comunque scorrevole e si legge con piacere senza dare l’impressione che ci sia dell’infodump, benché il lavoro di documentazione sia evidente – dall’introduzione di Brancato, che però rivela un po’ troppo della trama, si apprende che Vitelli è veramente esistito. È anche vero che seguendo in ogni capitolo due trame diverse ma parallele (e a volte convergenti), cioè le avventure di Henri e Blasco e la calata di Carlo VIII, Valois avanza un po’ lentamente e nonostante il re francese morirà di lì a pochi anni potrebbero volerci ancora un bel po’ di volumi per concludere questa serie, di cui Historica ha raccolto qui i primi due episodi.
I disegni sono come piacciono a me: realistici e curati. In effetti molto del loro fascino si deve al lavoro del colorista Felideus, al secolo Juan Parra. Jaime Calderón è rigoroso e anche molto espressivo ma in alcune panoramiche non si è profuso in dettagli, ed è lì che la colorazione gli viene in aiuto integrando i disegni. Peccato che su delle tavole così belle e vivaci siano apposti dei balloon digitali che risaltano da tanto sono squadrati e artefatti.

giovedì 6 febbraio 2020

Horror - Tutti i racconti scritti da Alfredo Castelli

Talvolta nelle raccolte e nelle ristampe dei fumetti di Castelli i redazionali curati da lui medesimo sono quasi meglio dei fumetti stessi. Dato il mezzo secolo che ci separa dai lavori qui raccolti e la (relativa) giovane età dell’autore quando li scrisse, pensavo che in questo caso sarebbe stato inevitabilmente così; invece questi fumetti mantengono ancora oggi una grandissima freschezza e non sono affatto invecchiati. Forse a preservare certe storie c’è il fatto che sono tratte da racconti e romanzi (di Lovecraft, De Maupassant, Henry James, Stoker, Arpino, Bioy Casares) ma sicuramente l’epoca sessantottina della loro realizzazione ha inciso sulla loro qualità: da una parte incentivando quegli sperimentalismi che spesso rendevano la lettura un vero piacere già a livello visivo o concettuale, dall’altra spingendo a scrivere senza autocensurarsi, senza il timore tutto contemporaneo di offendere qualcuno (volendo, già le donnine delle copertine di Rostagno erano un segnale di questa libertà).
E in quegli anni i disegnatori di fumetti sapevano disegnare, non si nascondevano dietro lo storytelling per giustificare la povertà delle loro tavole (anche con le frecce tra le vignette ho faticato a muovermi in certe tavole di Riccardo Paoletti, ma chi se ne frega: erano bellissime) – forse potevano farlo perché come ricordato da Castelli solo Corriere dei Piccoli, Intrepido e Monello pagavano più di Horror.
A Lucca 2019 Castelli aveva presentato le bozze del volume, in uscita a Reggio Emilia, e se non sbaglio aveva detto che in origine il progetto era quello di una ristampa anastatica, in modo da preservare anche i testi scritti (spesso interessantissimi), cosa però infattibile per una questione di diritti. Per questo Horror è diventata una raccolta dei fumetti scritti da Alfredo Castelli, eccezion fatta per le strisce di Zio Boris già abbondantemente ristampate, per due incipit di fumetti non continuati e forse per alcune one pager de Il gabinetto del Dottor Horror.
Come anticipato da Castelli nell’introduzione, l’horror che dava il titolo alla rivista di Gino Sansoni era ben diverso dal genere come viene inteso oggi: era una cosa psicologica, d’atmosfera, rimandava ai classici del genere (Dracula, Frankenstein, ma anche la letteratura gotica più “alta”) e gli effettacci splatter non erano contemplati, forse nemmeno immaginabili. Le storie giocavano con la sorpresa, presentavano quasi sempre finali a effetto ma quello che le rende efficaci e godibili ancora oggi è il fatto che terminassero spesso in maniera beffarda, con un sarcasmo che ha mantenuto intatta la sua carica cinquant’anni dopo. E comunque certi soggetti erano genialmente folli già in partenza: la statua della libertà incinta! Un fumetto creato usando una vecchia banconota da 1000 lire!
Al di là delle riduzioni letterarie, in alcune occasioni Castelli ha cosceneggiato le storie insieme a Mario Gomboli, Marco Baratelli o Tito Monego.
Si aprono le danze in rigoroso ordine cronologico, con le storie di Castelli tratte dal numero 1 di Horror: Giovanni Cianti fa veramente un figurone, così come uno strepitoso Sergio Zaniboni che gioca con le dimensioni e la posizione delle vignette e gestisce magnificamente una storia che è quasi muta. Entrambi spettacolari. Un po’ meno convincente il Marco Rostagno de Il miglior amico dell’uomo: per quanto forse ispirato a disegnatori umoristici è un pochino ingessato. Procedendo nella lettura, ritrovo il meraviglioso Nosferatu di Gianni Grugef, che non ricordo di aver mai letto stampato così bene (sarà la carta patinata) e fa capolino la coppia Glauco Coretti e Raffaele Silvestri, niente male sebbene non indugino in sperimentalismi ma si ispirino evidentemente agli autori delle strisce classiche. Eccezionale Sergio Tuis, probabilmente “fotografaro” ma con grandissima classe. Il nervoso ma realistico Riccardo Paoletti è stato una piacevole sorpresa e Giampaolo Amstici lo è stato ancora di più: siamo ai livelli di un Alligo o di un Masciangelo. Dignitoso ma ancora acerbo il Fagarazzi della mitica (beh, per me lo è) Vita, opere, vocazione di Geremia Sacchi, scrittore, che scopro essere tratta da Bioy Casares. Le pagine finali a colori sono dedicate all’umorismo di Carlo Peroni, che oltre a due one pager di Zio Boris disegna e colora una spettacolare versione eroticomica di Frankenstein (non molto fluida, però: forse manca qualche pagina sacrificata per ragioni di spazio).
Certo, non tutte le proposte sono allo stesso livello: l’Antonio Sciotti che illustrò Dracula era di matrice prepotentemente popolare (ancor più evidente se confrontata con l’illustrazione di Dino Battaglia che introduce la storia) mentre Leone Cimpellin doveva evidentemente prendere ancora le misure con il genere horror nella sua prima storia, Armageddon!, e lo stesso vale per le prime prove del Carlo Peroni “realistico”. Ma il non esaltante Giorgio Montorio seppe evolversi già nell’arco di un paio di numeri mentre le tavole di Aldo Di Gennaro fanno un figurone anche quando non aveva voglia di disegnare gli sfondi.
La qualità di stampa è buona, non solo considerando che si tratta di materiale pubblicato quasi mezzo secolo fa ma anche per gli standard odierni. Che Castelli abbia conservato gli impianti di stampa di alcuni fumetti? Tanto, anche se lo avesse fatto, oggi comunque si stampa in digitale… La qualità della resa non è uniforme ma anche laddove si notano dei tratteggi impastati o dei segni tremolanti non sono poi così evidenti. E incredibilmente la qualità di stampa di alcuni fumetti è veramente ottima.
Purtroppo dal punto di vista del lettering questo volume adotta ogni tanto gli stessi criteri de Lo Zoo Pazzo, quindi accanto a quello originale alcuni testi sono stati rifatti digitalmente, e mi sa che alcuni balloon (cfr. seconda e terza vignetta de I topi nel muro) sono stati proprio messi ex novo, e d’altronde anche l’onomatopea della seconda tavola della bella storia di Cianti è evidentemente stata inserita con mezzi digitali. Per fortuna non si tratta di una cosa molto diffusa, però lo stacco è percepibile e rompe un po’ la magia della lettura, oltre a far balenare l’idea che non si tratti di una riproposta filologicamente impeccabile ma di una versione “riveduta e corretta”. Mentre invece un intervento correttore sarebbe stato giustificato nella storia Lassù qualcuno ti ama: è ovvio che le ultime vignette di pagina 85 dovrebbero recare la data 1971, non 1970.
I fumetti sono inframmezzati da vari interventi redazionali che non trattano solo della rivista ma parlano anche del cinema e della letteratura horror con annessi e connessi, come i kit di montaggio per mostri citati nella parodia di Frankenstein. C’è persino un fotoromanzo, realizzato dallo Studio Buratti su sceneggiatura di Castelli e Baratelli. Ma come sempre il piacere più grande è leggere gli aneddoti riguardanti quel gran paraculo di Gino Sansoni: a pag. 116 viene ricordato ad esempio come avesse ideato un logo appositamente ambiguo per creare confusione con l’editore Sansoni di Firenze.
Tra il materiale non a fumetti si segnala la riproposta dell’intervista a Mario Bava con tanto di sceneggiatura del suo episodio dell’Odissea televisiva che regalò a Castelli (Bava, un uomo d’altri tempi: «il palo viene abbassato a empire l’obbiettivo»). Non sapevo che nella versione originale di Rosemary’s Baby si vedesse il figlio del demonio, tra l’altro.
L’appendice con l’elenco dei collaboratori di Horror contiene delle interessanti curiosità: ad esempio ignoravo che anche Rinaldo Traini vi avesse collaborato, così come non sapevo che anche Jean Giraud era transitato per quelle pagine. Interessante poi la citazione del fumetto Edamon di Igor Hervatin, se ho ben capito una sorta di Conte di Piombo.
Chiudo anch’io con delle curiosità: il Nosferatu di Gianni Grugef, che non sapevo avessero “scritto” Castelli e Baratelli, è giustamente indicato come la storia più ristampata di Horror, ma Castelli si è dimenticato di elencare la sua apparizione nella Antologia de La Grande Avventura dei Fumetti, la famigerata enciclopedia della DeAgostini. Curioso anche che Castelli non abbia fatto notare come la rivista Vedo Nuda! edita da Sansoni (che in copertina promette «un’inchiesta “senza veli” di Alfredo Castelli»!) fosse stata pubblicata da una delle sue molte etichette che aveva chiamato Nona Arte proprio come quella che ha licenziato questo volume. O è un pastiche di Castelli?
Coerentemente con la natura del genere trattato da Horror, la mia copia offre un supplemento di mistero: in quarta di copertina un adesivo con un codice a barre copre chissà quale misterioso dettaglio (il codice a barre di un altro circuito, ovviamente, ma il volume lo conserverò così).

lunedì 3 febbraio 2020

I Figli di El Topo 2: Abele

Caino e la sua devota fedele seguono l’aquila che alla fine dello scorso volume indicava loro la strada per raggiungere Abele, ma sulla strada troveranno più di un ostacolo. Alla fine Caino riesce a ricongiungersi col fratello e insieme architettano un semplice piano per raggiungere la tomba del padre: visto che la loro madre è morta ma il corpo non si decompone, penetreranno nell’isola con il cadavere intonso che profuma e attira le farfalle (prova certa della sua santità) e così Caino potrà impossessarsi dei menhir d’oro mentre Abele continuerà il suo cammino verso la santità.
Per arrivare al santuario devono però superare un curioso sbarramento: dei bandidos con gilet decorati da ali angeliche stanno cercando inutilmente di espugnare un convento di omaccioni irsuti vestiti da suore. La situazione ristagna perché il capo dei banditi è impazzito e crede di essere un cane (probabilmente a ridurlo così è stata la sua compagna, vecchia conoscenza di Caino), quindi non può guidare i suoi uomini che attaccano in maniera scoordinata. Abele si fa carico della guarigione dell’uomo e il gruppetto arriva così in prossimità del santuario, dove però il corpo della madre santa è conteso dagli altri fanatici. Dopo aver superato una surreale prova di forza, Abele potrebbe aver ricevuto il testimone di assassino da Caino, tale da giustificare il titolo del prossimo episodio, Abelecaino. Sono solo congetture, e ho tutto il tempo per rifletterci sopra visto che se tanto mi dà tanto il terzo e conclusivo volume uscirà nel 2023 o giù di lì.
Jodorowsky scrive a briglia sciolta diviso come suo solito tra misticismo e grand guignol. Purtroppo tra stupri, massacri, imeni ustionanti, fiamme divine e giganti deformi sfiora spesso il ridicolo, ma forse era proprio questo il suo obiettivo. La sequenza della guarigione del capo dei banditi mi è sembrata debole a livello drammaturgico, ma probabilmente era stata pensata per la versione cinematografica dove il pathos sarebbe stato affidato all’abilità degli attori; la resa a fumetti è un po’ insapore.
I disegni di José Ladrönn sono molto buoni. Pur non essendo molto dettagliati, sono molto realistici e spettacolari per la loro efficacia a livello di espressività e dinamismo. È evidente che è partito da fotografie, ma ha saputo scegliere quelle ottimali per il suo lavoro. D’altra parte visto che due terzi dei protagonisti maschili del fumetto sono lo stesso Jodorowsky non avrà avuto problemi a trovare il modello giusto. Molto buoni anche i colori, realizzati da Ladrönn insieme a Hugo Sebastian Facio.