Giuseppe Ferrandino: un’assenza ingombrante
Giuseppe Ferrandino nasce ad Ischia il 24 gennaio del 1958. Abbandona la Facoltà di Medicina al 25° esame, quando un’altra carriera è stata seriamente avviata. Negli ultimi anni ’70 (ma in un’occasione egli ricorda che tutto ebbe inizio nel 1982) diventa infatti sceneggiatore professionista di fumetti e per tutto un decennio avrà modo di segnare con il suo stile e le sue tematiche gli ambiti più svariati della letteratura disegnata: dall’Eura a Bonelli, dall’Isola Trovata a Dargaud, da Granata Press alla Disney Italia, a Phoenix. Molti titoli della sua vasta produzione vengono ricordati ancora oggi con ammirazione e nostalgia dagli appassionati: Sera Torbara, La foresta di Tenon, Storia di cani, Zampino, alcune tra le interpretazioni più ispirate di Dylan Dog…
Nel 1993 esce presso Metropolis/Granata Press il suo romanzo Pericle il nero, scritto sotto lo pseudonimo di Nicola Calàta. Con l’edizione francese curata da Gallimard (1995, nella prestigiosa “Serie Noir”) avviene la sua consacrazione. Pericle il nero viene ristampato nel 1998 da Adelphi e con la stessa casa editrice pubblica nel 1999 Il rispetto (ovvero Pino Pentecoste contro i guappi). Il 1999 è anche l’anno di Lidia e i turchi, edito da Mondadori.
Nel 2001, a quasi dieci anni dal suo addio effettivo ai fumetti, esce l’ultima fatica letteraria di Giuseppe Ferrandino: Saverio del Nord Ovest (Bompiani).
Giuseppe Ferrandino rappresenta un caso unico nel panorama fumettistico italiano. Intrapresa assai presto la carriera di sceneggiatore, ha saputo adattarsi ai generi ed alle realtà editoriali più diversi, giungendo spesso a vette qualitative (contenutistiche e formali) irraggiungibili da molti altri. È stato uno degli sceneggiatori più importanti che l’Italia abbia mai avuto, se non addirittura il migliore in assoluto.
Eppure, Ferrandino è ormai un nome legato al passato. Qualche suo vecchio progetto è riaffiorato nelle librerie italiane, qualcun altro forse riaffiorerà, ma si tratta comunque di inezie rispetto alla moltitudine di capolavori con cui ha caratterizzato il fumetto italiano degli anni ’80. Se poi questa sua lunga militanza nella letteratura disegnata abbia significato per lui solo una inevitabile gavetta per approdare alla più blasonata letteratura tout-court non è il caso di discettare…
Sperando che una rapida catalogazione dei suoi fumetti possa invogliare chi ancora non lo conosce alla riscoperta della sua produzione, tentiamo un’analisi delle opere di Ferrandino.
Nei primi anni ’80 l’Eura Editoriale rappresentava, tra le altre cose, una sicura ed intelligente fucina per i giovani talenti di casa nostra. Nel periodo in cui le altre riviste popolari stavano accelerando la loro corsa verso l’estinzione e l’oblio, Lanciostory e Skorpio erano ancora seguitissime grazie alla scelta oculata di rispondere alla crisi del settore puntando sulla formula «tuttofumetto» laddove le altre ripiegavano su sport, cinema, spettacolo o addirittura enigmistica. Insieme a tantissimi altri autori oggi riconosciuti Maestri, Ferrandino segue la trafila classica dei «fumetti modello Lanciostory»: prima si cimenta con le storie autoconclusive dal finale a sorpresa (l’originalità era il primo requisito richiesto agli esordienti) per poi passare alle serie articolate quando gli viene riconosciuto il “mestiere” necessario. È ovviamente abbastanza ingenuo cercare di stabilire una gerarchia tra questi primi lavori o individuare delle costanti in essi: tendenzialmente si trattava solo di trovare uno spunto o un’ambientazione inediti cui applicare le formule abituali (il ribaltamento del punto di vista, il “twist ending”, ecc.).
Ancora un paio d’anni e Ferrandino si troverà inserito in quel flusso di “nouvelle vague” fumettistica all’italiana che avrebbe avuto la rivista Orient Express come primo referente e portavoce. A riguardarli oggi, certi fumetti non si discostavano ancora dalla matrice popolare un po’ standardizzata da cui provenivano i loro autori (Saudelli difatti pubblicava occasionalmente i suoi western anche su Alterlinus) ma senza dubbio la ricerca programmatica di una “autorialità” che mettesse in luce una scuola italiana spronava sceneggiatori e disegnatori coinvolti a fare i “loro” fumetti, dando corpo alle ossessioni o alle semplici idee che rimanevano inespresse nelle riviste ad alta diffusione. Per Ferrandino, come vedremo, non è ancora il momento di celebrare e ristrutturare i suoi miti, ma è innegabile che la maggiore libertà creativa lo porta a manifestare più apertamente i suoi temi preferiti ed a sviluppare un suo stile personale.
Prima di vedere nel dettaglio quali siano i principali lavori di questo periodo, va segnalato il fatto che in Pericle il nero la delirante sequenza del rifugio nel negozio del barbiere è anche un’occasione per citare en passant le vecchie riviste della casa editrice Universo. Ciò avvalorerebbe l’ipotesi che il vero “battesimo” professionale di Ferrandino sia avvenuto sull’Intrepido o su Monello. Ma su Comic Art 25 (settembre 1986) l’autore ricorda con precisione che il suo esordio avvenne presso l’Eura nel 1982. La fonte di queste informazioni è un ritratto-intervista di Renato Genovese, su cui torneremo in seguito.
Giuseppe Ferrandino, dicevamo, diventa uno degli autori di Orient Express e va quindi ad inserirsi nel filone “nuovo” del fumetto d’autore italiano che troverà poi sbocchi sulla rivista Comic Art e su altre situazioni editoriali successive. Due serie in particolare concretizzano la sua personalità: Zampino e Sera Torbara. Nel primo caso siamo di fronte ad una classica serie a puntate di 10/12 pagine che potrebbe quasi essere pubblicata anche da Lanciostory. Quel “quasi” è dovuto alla particolare ambientazione della storia, i rioni popolari di Napoli e la fauna di camorristi e malamente che vi bazzicano; non si tratta di vicende particolarmente crude o efferate (alcune trame sono anzi pervase da uno spirito romantico) ma il realismo disincantato che le caratterizza è decisamente innovativo nel panorama fumettistico italiano dell’epoca.
Nel caso di Sera Torbara il modello è invece il classico feuilleton storico-avventuroso tanto apprezzato in Francia (di cui riprende l’ancor più classica lunghezza di 46 tavole). Luigi Bernardi, editore dell’Isola Trovata e di Orient Express, si sarebbe rivelato decisamente lungimirante. I disegnatori impegnati nei due progetti, rispettivamente Ugolino Cossu e Massimo Rotundo, stavano infatti appena imboccando, dopo una buona frequentazione con l’editoria popolare, la strada verso la consacrazione a Maestri del fumetto riconosciuti persino Oltralpe e questi loro primi esperimenti velleitari, benché professionalmente validissimi, tradivano ancora una certa omologazione (non a caso i due dividevano con Saudelli lo stesso studio e a volte siglavano le loro tavole col medesimo simbolo, un pennino che esce da una bocca).
Sera Torbara e Zampino rappresentano una parte minima della mole di lavori, seriali e non, che Ferrandino produce in questo periodo ma rivestono un’importanza decisiva nel corpus generale delle sue opere.
La prima cosa a saltare subito agli occhi è l’importanza che riveste Napoli nelle due serie. Benché distanti come epoca e come genere, entrambe eleggono la città a teatro privilegiato e quasi inevitabile degli eventi (per Sera Torbara ciò è vero principalmente per il secondo volume, Le Lacrime di Giuda, in cui Rotundo fa anche un paio di omaggi a Eduardo De Filippo). E. constatata questa prima analogia, se ne noterà un’altra.
Sia Zampino che Sera Torbara sono personaggi ambigui, calati in un contesto in cui i contorni tra il bianco e il nero non sono poi così netti. Gli stessi protagonisti sono personaggi “borderline” che subiscono (o suscitano) il fascino del Male. Zampino tira a campare facendo il corriere o il manovale per i criminali più spregevoli, Sera Torbara non si ferma davanti a nulla pur di raggiungere i suoi scopi: ruba, ammazza, stupra, ricatta, tradisce…
Ferrandino si affida quindi ad una scrittura “amorale” per imbastire le trame di queste storie, che evidentemente rivestono per lui un ruolo troppo importante per essere omologate alle altre serie più rassicuranti che scriveva per Orient Express e soprattutto per Lanciostory. Le scene di sesso piuttosto ostentate che comparivano in La Città del non ritorno e L’isola degli uomini stanchi non potevano certo smuovere il lettore come i dubbi e le ansie che caratterizzavano Zampino e Sera Torbara. E per elevare ulteriormente la qualità delle due serie, Ferrandino vi profonde un lirismo appassionato e coinvolgente, praticamente senza pari nelle sceneggiature di qualsiasi altro collega. Quando la scena editoriale italiana lo avrebbe permesso, il loro autore avrebbe mostrato chiaramente dove voleva arrivare con i suoi due antieroi.
Nel 1985 Orient Express chiuse i battenti. Se l’Italia perse una gloriosa testata, Ferrandino non si trovò certo disoccupato: trasferì le sue serie “alla francese” su Comic Art (che poi ne ospiterà di nuove come Udo di Acquascura e, appunto, Sera Torbara) e continuò con successo il lavoro per l’Eura. Su Lanciostory 29 del 1987 un lettore, preoccupato da un ipotetico abbandono di Ferrandino, viene rassicurato con la citazione delle nuove serie a cui stava lavorando, ben sei: Urik degli uomini, Ali, Stan Morgan, Darkan e due seguiti: Il venditore di sogni e La Foresta di Tenon (solo quest’ultima, a dire il vero, viene citata come prossima). Sempre nel 1987 scrive la prima sceneggiatura per Dylan Dog, Vivono tra noi (n° 13), cui faranno seguito altre due.
Gli ultimi anni ’80, insomma, sembrano quelli dell’affermazione definitiva di Ferrandino e per i ’90 è naturale aspettarsi ancora ottime prove. E invece lo sceneggiatore comincia a disertare le riviste con cui aveva collaborato con tanti buoni risultati. Se i problemi di programmazione di Lanciostory e Skorpio fanno sì che la presenza di Ferrandino sia mantenuta anche dopo il suo effettivo abbandono delle due testate, la brusca interruzione dei rapporti con la Comic Art lascia un impressionante numero di “incompiute”. Chissà come avrebbe fatto il mago Balthazar a salvare il tormentato feudo di Acquascura, e chissà chi era in realtà il bambino che al termine de L’isola degli uomini stanchi prometteva di spiegare tutto al prossimo episodio…ma soprattutto (tacendo di un auspicabile terzo capitolo per la serie de Il colore del vento) Sera Torbara avrebbe poi avuto la sua vendetta?
Purtroppo questi dubbi sono destinati a rimanere tali e considerato il forte pathos che Ferrandino sapeva profondere nelle sue storie l’assenza di un seguito risolutivo risulta ancora più castrante. Sera Torbara, in realtà, avrà il privilegio di un terzo episodio ma è veramente una scarsa consolazione visto che le cinque storie brevi del ciclo Marcia turca costituiscono un prequel (e Massimo Rotundo non è nemmeno al meglio della sua forma).
Nei primi anni ’90, insomma, Ferrandino inizia a scomparire progressivamente dalla ribalta del fumetto italiano, e ciò è dovuto anche ad una parcellizzazione del suo lavoro. Scrive infatti anche per Topolino ed altre realtà editoriali come Playmen Comix (non è escluso che in quest’ultimo caso la destinazione originaria fosse qualcosa di più dignitoso: anche il Killer Joe di La Neve e Morales fu annunciato per Torpedo n° 10 e venne invece pubblicato dal nuovo Intrepido e poi da Playmen Comix).
Terminato il periodo delle riviste-contenitore, popolari e non, ha inizio una breve stagione di grande libertà editoriale durante la quale Ferrandino può affrontare i temi e gli stili che più ama. Facciamo un passo indietro: nel succitato articolo di Genovese su Comic Art 25 il giovane Ferrandino non si sbilancia troppo a trarre un primo consuntivo del suo lavoro o a citare con chiarezza le sue fonti d’ispirazione («Leggo molto e vedo parecchi films, ma non riesco a vedere un punto tangibile d’incontro tra una precisa opera letteraria, cinematografica o d’altro genere ed il momento in cui invento o sceneggio una storia.»), si limita ad indicare che Zampino «è l’unico personaggio realistico che abbia ideato, e l’ho sentito di più per vari motivi.» Ma qualche piccola sfumatura d’inquietudine artistica la si riesce a cogliere se non altro dalla grande versatilità che già dimostra nel lavorare per gli editori più svariati e dal fatto che in definitiva non sa indicare, tranne l’accenno a Zampino, una sua vera serie preferita tra quelle che scrive. Circa quattro anni dopo, sempre sulle pagine di Comic Art (sul numero 67 del maggio 1990), Ferrandino si lascia andare ad una feroce autocritica del proprio lavoro, con particolare riferimento al suo nuovo personaggio di successo, Sera Torbara. E finalmente confessa quale fosse la sua ambizione nello scrivere fumetti e quali limiti abbia trovato.
Il suo intervento viene ospitato nella “bollente” rubrica di Luigi Bernardi, Parola di Gaijin, che profeticamente lo battezza «Nero di Sera». Com’è facile condividere e sottoscrivere appieno il giudizio di Bernardi su Ferrandino («[…] da Ferrandino mi sono sempre aspettato quelle cose che ad altri non avrei mai avuto il coraggio di chiedere. […] E oltre che a me le darà anche al fumetto italiano, che ha bisogno di quella sua robusta arteria d’intolleranza che scorre fra decine di vene più facili e accomodanti») ma, al contempo, quanto stupore suscitano le parole dello stesso sceneggiatore: «Con Sera Torbara volevo (e voglio ancora!) creare un nuovo nero da anni Novanta. Un cattivo totale e faustiano inserito in un contesto storico che mi appassiona da sempre.» Insomma, il geniale sceneggiatore di Ischia si era posto in realtà come meta di dare un seguito storicizzato alle vicende di Kriminal, Diabolik (che difatti viene citato come modello) e compagnia! Per chi ne aveva seguito le trame complesse ed i dialoghi raffinati è uno choc non da poco…
Ancora una volta Bernardi si rivelerà lungimirante: dopo aver consigliato a Ferrandino di ambientare il “nero” in un contesto contemporaneo, l’unico che si presti a questo tipo di narrativa, conclude così la sua Parola di Gaijin: «Io ho fiducia che, accanto a mille altri racconti che spero sempre più “caldi” e sempre meno dettati dalle sollecitazioni di editori che non sanno leggere, Ferrandino trovi presto la chiave che apre la porta giusta, e che sia proprio lui a firmare il primo grande nero degli anni Novanta.»
Alla fine del 1992 vedrà quindi la luce, per i tipi di Granata Press (già editori della fallimentare Dark), la rivista Nero, di cui Ferrandino è il principale artefice ed animatore. Brossurata e col formato di un comic book, presenta senza mezzi termini il suo programma:«Il Nero è nato tanto tempo fa, così tanto che mò nessuno se lo ricorda. A voler fare i buffoni si potrebbe dire che pure la Medea di Euripide (roba di duemila e passa anni fa) era un Nero […] Negli anni sessanta di questo secolo, qualcosa accadde. Sappiamo tutti cosa. Dalle ceneri di Fantomas nacque Diabolik. E, alla buon’ora, eccoci col nero italiano. Kriminal, Satanik, Zakimort, Sadik e compagnia bella furono gli scuri campioni di un’epoca. Inutile parlarne, al riguardo se ne sono già dette tante. E comunque anche quell’epoca finì. Ebbene, udite udite, il nero tenuto da allora in ibernazione, vuole ora tornare a dire la sua. Difatti: nero qua, nero là: lo dicono tutti. E a questo carro, il nostro giornale si va ad attaccare. Le regole di NERO. 1 È una rivista per tutti perché ci stanno colpi di scena, mazzate e un sacco di azione. Però non è per famiglia, a causa delle maleparole. 2 Le storie andranno avanti a cicli. Ogni sei numeri si ricomincia con materiale fresco. 3 Il nero Moderno di norma va ambientato nella Metropoli Moderna, ma noi lo ambientiamo dove ci pare. 4 Evviva Garibaldi.». Decisamente un “manifesto” interessante, che espone con sarcasmo e goliardia un programma tutt’altro che facile (anche se già azzardato o almeno ipotizzato in epoca postmoderna): recuperare lo spirito ed i personaggi dei vecchi fumetti neri per farli rivivere in un contesto moderno. Ma non è semplice appropriarsi di un’icona e farne contemporaneamente un protagonista classico che deve vivere le sue avventure, un protagonista moderno e la parodia di se stessa. E difatti i “neri-omaggio” saranno la parte più debole di Nero, a cui comunque Ferrandino affiderà il suo ultimo capolavoro: Storia di cani. Ma ne parleremo dopo. È decisamente più urgente rilevare come lo stile di Ferrandino subisca un drastico cambiamento nel narrare le vicende di K (cioè Kriminal), Il Re (Diabolik) e gli altri antieroi tolti dalla naftalina. Sembra che la solidissima lezione delle riviste dell’Eura sia stata del tutto dimenticata. Forse la possibilità di mettere finalmente su carta le sensazioni che all’epoca gli dettero quei fumetti ha spinto lo sceneggiatore ad adottare coscientemente uno stile immediato e piuttosto nebuloso, ma il risultato non si rivela all’altezza delle premesse. Innanzitutto chi, anzi cosa, diavolo sono questi Il Re, K, Zakimort e Demoniak? Ci vengono presentati come figure mitiche (alcuni risultano addirittura già morti!) le cui imprese passate sembrano aver avuto proporzioni ciclopiche. Ma di tali gesta il lettore non saprà mai nulla e dovrà accontentarsi dei miseri riferimenti che casualmente Ferrandino si degnerà di spargere tra i dialoghi. Lo sceneggiatore, insomma, vorrebbe rendere partecipe il suo pubblico della grandissima passione che nutre per i figli ed i nipoti di Magnus & Bunker e delle sorelle Giussani, ma fa partire le sue agiografie da un punto troppo avanzato per non renderle supponenti e, in tutta franchezza, piuttosto incomprensibili. In effetti, i sottintesi si sprecano e in alcuni casi l’elevazione dei personaggi a sfuggenti entità che non invecchiano o risorgono senza spiegazioni getta una frustrante ombra di irrealtà su queste storie all’apparenza interessanti e ben congegnate. In effetti ci troviamo agli antipodi dei fumetti “modello Lanciostory” in cui le attese del pubblico devono venir soddisfatte e i conti devono sempre tornare. Gli antieroi di Nero si muovono in un contesto in cui l’accumulo descrittivo ha la meglio su ogni possibile ricostruzione logica ed in cui si può uscire dal seminato senza tanti problemi (vedi ad esempio, in K, l’omaggio alla Marnie Bannister di Satanik, in verità decisamente riuscito). E questa curiosa applicazione del flusso di coscienza risulta ancora più ambigua e straniante visti i riferimenti nemmeno tanto velati alla situazione politica coeva, con tanto di attacchi piuttosto manifesti contro Bettino Craxi. E poi, cosa sta a significare quello strano linguaggio misto di italiano e “qualcos’altro”? È forse un tentativo di inserirsi nel filone dei nomi “impossibili” alla Diabolik (nome proprio italiano e cognome straniero)?
Se lo straniamento celebrativo è comunque l’obiettivo di Ferrandino, va detto che decisamente ci ha calcato troppo la mano o forse, chissà, tutti i nodi sarebbero venuti al pettine solo con gli annunciati seguiti delle storie, che però non videro mai la luce. L’esperienza di Nero si concluse nel 1994, dopo un’esistenza comunque travagliata. Non sempre le uscite erano regolari e dal n° 8 in poi si tentò la carta della storia completa per avvicinare più lettori. Nei fatti la scelta di presentare in un’unica soluzione una storia che era divisa in capitoli ben delimitati ne rendeva ancora meno facile la lettura. Ma aldilà dei “neri-omaggio” e degli editoriali assai scarni e canzonatori, Nero avrebbe meritato maggiore fortuna visto che il resto delle storie a fumetti era generalmente di qualità molto elevata. Storia di cani, di Ferrandino e Caracuzzo, era forse la migliore.
A differenza delle altre proposte di Nero, si trattava di una storia iperrealista dai toni alquanto crudi. Lontana anni luce dall’umorismo di Dizionario ragionato del genere nero e di Acquanera, dotata di una drammaticità ben più tangibile di quelle di La chiesa trionfante e di Pig Pig Pig, Storia di cani segnò il ritorno di Ferrandino a Napoli. La truce vicenda prende le mosse dai rioni popolari per poi attraversare in un crescendo di ferocia e insana violenza tutti gli ambienti del crimine organizzato, fino ad arrivare alle vette più alte della camorra.
Mimì è un guappo ambizioso ed intraprendente, talmente megalomane e dedito alla droga da rivelarsi alla fine un pazzo furioso. Tanta e tale è la sua pazzia che riesce persino a salvarsi dall’inferno che ha scatenato. Ed un matto come lui, che proprio in virtù della sua follia può dire grandi verità («Quell’uomo [Giulio Andreotti] ha dimostrato che uno forte fa quello che vuole perché uno intelligente passa su tutto e tutti crepano ma a lui non lo fermi! L’intelligente fa e sfa, Gino! Spacca, inchioda e si magna quello che vuole e nessuno stronzacchione può permettersi di dirci niente perché noi siamo troppissimamente più forti e o li ammazziamo o li impapocchiamo o ce ne fottiamo!»), uno così matto non può non suscitare un’immediata e liberatoria simpatia nel lettore.
La disumana guerra fratricida tra i due boss Alvaro e Dario Colombo offre una buona occasione a Ferrandino per creare tutto un universo vivo e palpitante di personaggi e situazioni che coniugano magistralmente l’iperbole macchiettistica con il realismo più credibile. Peccato solo per quelle due pagine introduttive (al primo ed al quarto capitolo) che sembrano voler porre la storia su un piano puramente narrativo, quasi a volerne mettere in dubbio l’effettiva realtà.
Storia di cani mantiene costante un’accelerazione parossistica della violenza, sia fisica che morale, superando il grottesco fino ad assurgere al grado di elegia inumana di fronte alla quale non si può nemmeno più essere attoniti o divertiti, ma si può solo seguire la storia con un lucido distacco (se non si vuol fuggire a gambe levate come fanno i cani randagi all’apparire del Mimì mannaro ormai fattosi definitivamente Bestia). E questo, ricordiamolo, prima che Quentin Tarantino facesse proseliti a destra e a manca (anzi, Pulp Fiction non era nemmeno ancora uscito). Ma Storia di cani offre anche la possibilità di recuperare Zampino il quale, finalmente impegnato in una storia lunga, è forse l’unica figura positiva in tutto questo marciume; il che non gli impedisce di sfoderare un feroce sarcasmo: «E lo sai Alvaro? [al boss consegnato alle forze dell’ordine] Come pentito mi daranno pure la pensione.» Il ritorno del personaggio ed il suo ruolo chiave di vendicatore fanno sembrare Storia di cani una sorta di testamento professionale di Ferrandino, soprattutto perché è una delle sue ultime creazioni originali in assoluto. Di lui vedremo ancora il secondo episodio di Udo di Acquascura, pubblicato su Comic Art 115 del maggio 1994 (il fumetto è comunque datato 1993), e poi un silenzio lungo tre anni cadrà sullo sceneggiatore. Sarà la Phoenix a romperlo nel 1997 dando alle stampe in due fascicoletti Il re e il vaso, secondo episodio (francamente assurdo anche se avvincente) dell’antieroe ricalcato su Diabolik. Poi Pericle il nero farà brillare la stella letteraria di Ferrandino, alla cui luce non sopravvivrà alcun fumetto.
«Se poi questa sua lunga militanza nella letteratura disegnata abbia significato per lui solo un’inevitabile gavetta per poi approdare alla più blasonata letteratura tout court non è il caso di discettare», ma l’appassionato qualche domanda se la farà. Perché gli editori nostrani non hanno voluto o saputo trattenere una delle migliori “teste” della storia del fumetto italiano? L’abbandono di Ferrandino fu qualcosa di calcolato o una conseguenza del disincanto verso l’ambiente? Quanta convinzione o quanta “maniera” vi fu nelle sue storie, sempre così partecipate e drammaticamente coinvolgenti?
Chissà con che spirito Ferrandino si era avvicinato al fumetto e chissà se credeva poi veramente a quello che faceva. Sia come sia, agli ammiratori rimangono comunque i suoi ottimi romanzi (ma, accidenti, come sarebbe bello sapere come andava a finire Sera Torbara…)
Bibliografia (?) di Giuseppe Ferrandino
Questa che segue non è una vera bibliografia perché pur se il materiale prodotto da Ferrandino è tanto e di livello tendenzialmente ottimo, ben poco è stato ristampato in volume. Cominciamo dalla fine: Storia di cani è stato raccolto in volume da Granata Press ed Il Re e il vaso è composto da due albetti spillati editi da Phoenix. Nessuno dei due, però, è facile da trovare (nel colofon di entrambi i fascicoli de Il Re e il vaso si legge un impietoso «prima tiratura: 2000 copie», e non c’è traccia di seconde tirature). Sera Torbara è ospitato sui numeri 31 (Il volo degli dei) e 50 (Le lacrime di Giuda) della collana Gli albi Orient Express, edita prima dall’Isola Trovata e poi da Bonelli. Anche i due volumi del ciclo de I signori del silenzio sono stati pubblicati nella stessa collana: sono i numeri 23 (La città del non ritorno) e 40 (L’isola degli uomini stanchi). In entrambi i casi però le serie sono tronche visto che gli ultimi episodi con la conclusione delle vicende non sono mai stati realizzati. Comunque, Sera Torbara è così appassionante e coinvolgente da poter essere letto con piacere anche se privo di una vera fine.
Per il resto, ci si può solo rivolgere alle fumetterie o al mercato dell’usato per reperire le tantissime riviste con cui collaborò Ferrandino (Lanciostory, Skorpio, Orient Express, Giungla, Comic Art, ecc.). Tanto vale citare le opere pubblicate più di recente e quindi, in teoria, più facili da recuperare:
La Foresta di Tenon parte terza (da Lanciostory 17 del 1991)
Stan Morgan (da Skorpio 14/91 e poi, con disegni di Coletta, da 12/92)
Udo di Acquascura (Comic Art 86-87-88 e 115)
Marcia turca (Comic Art 66-88-89-90-91: si tratta di 5 storie brevi che costituiscono un prequel a Il volo degli dei; il rapporto temporale che le lega è invertito cioè la prima si svolge cronologicamente dopo la seconda, la seconda dopo la terza e così via).
Per l’attuale Sergio Bonelli Editore (all’epoca variamente Cepim, Daim Press, ecc.) Ferrandino ha scritto i seguenti episodi:
Dylan Dog 13 (soggetto di Sclavi), 27 e 39 (il titolo di quest’ultimo è, guarda caso, Il signore del silenzio);
Martin Mystere 101, 102, 119 bis;
Nick Raider 23, 27, 31, 36.
Buona caccia, ne vale la pena.
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