lunedì 19 marzo 2012

I simboli sono immortali, gli uomini per fortuna no.

E così mentre mi riempivo di pustole ci ha lasciati il più grande fumettista della storia, il Picasso della BD. Sembra impossibile, ricordo che anni fa, quando Red Ronnie ci ammazzò uno dopo l’altro Bonvi, Magnus e Hugo Pratt, si discuteva con Maurizio Boscarol di chi sarebbe stato il prossimo. Moebius non poteva essere: lui era immortale.
Jean Giraud ha operato almeno un paio di rivoluzioni con cui, volente o nolente, è stato strettamente identificato e pensare che una macchina da guerra come lui potesse abbandonare le sue spoglie mortali era inconcepibile. Ma anche se era rigorosamente vegetariano, anche se era aperto ai livelli più alti di coscienza e se non fumava più da quando Jodorowsky gli aveva fatto un incantesimo sull’ultimo pacchetto di sigarette, nemmeno lui è riuscito a fermare la malattia.

Sarebbe improprio dire che con la morte di Giraud/Moebius si chiude un’epoca: di epoche ne aveva già chiuse e aperte tante nel corso degli anni, e comunque già da tempo aveva abbandonato un ruolo attivo nel fumetto e dopo l’incompiuto (da lui) Apres l’Incal si era dedicato a poco più che elaborare materiale preesistente.

La storia di Giraud è stata costellata di abissi e vette, ebbe tanta fortuna ma anche dei grandi problemi relazionali. il Picasso del fumetto, appunto. Fu il principale baluardo del fumetto “liberato”, ma lo fu per caso e controvoglia. Tanto, come diceva egli stesso, se non l’avesse fatto lui ci sarebbe stato qualcun altro a farlo.
Jean Giraud nacque nel 1938 e come si intuisce della sua autobiografia/confessione Histoire de mon double, la sua particolare condizione familiare deve essergli pesata non poco e deve aver influito molto sulla formazione del suo carattere. A volergli credere, entra alle Arti Applicate perchè è la scuola più vicina a casa sua. Studente assai poco brillante, vi conosce però Jean-Claude Mézières, suo futuro collega e autore di Valerian.
Il primo fumetto ufficiale sono Les Aventures de Frank et Jérémie, western umoristico diviso in quattro puntate da due tavole l’una: chi l’ha visto dice che si tratta di materiale assai brutto, per nulla presago di quello che Giraud farà in seguito. Seguono altri fumettini e illustrazioni per la stampa cattolica, prima di partire militare per l’Algeria, dove si dedicherà come un matto al disegno non prendendo parte a nessuna azione pericolosa. Sono anni turbolenti quelli, per l’Algeria, e non è da escludere che anche questa esperienza contribuisca a forgiare il suo carattere chiuso e introverso. Pare che un po’ del materiale seminale che realizza prima dei vent’anni sia visibile nel volume Le Lac des Emeraudes edito dagli Umanoidi Associati nel 1980.
Di ritorno alla vita borghese, la classica provvidenziale raccomandazione gli permette di accedere allo studio del disegnatore Joseph Gillain («mi ero innamorato di tutte le sue figlie»), noto come Jijé, per cui lavora “a bottega” e realizza parte dell’episodio La Route de Coronado del classico Jerry Spring. All’epoca Jijé, che i testimoni asseriscono lavorasse “alla giapponese” guardando il modello e non il foglio da disegno, era il top, un punto di riferimento a cui attingeranno anche Mézières, Hermann e perfino André Juillard.
In brevissimo tempo il discepolo raggiunge e supera il maestro: quando sarà il turno di Jijé di aiutare l’ex allievo con le consegne del quarto Blueberry, la differenza non si noterà se non forse per una maggiore fissità dei volti e delle figure di Jijé rispetto a quelli più fluidi e piacevoli di Gir. Ma per Blueberry c’è ancora tempo.
Nel 1962 Moebius, perchè è così che già si firma Jean Giraud, collabora col caustico Hara-kiri di Cavanna e del Professor Choron, sfornando diversi fumetti brevi che dice ispirati allo staff di Mad (incredibile a dirsi, al lavoro di Will Elder in particolare), ma che in effetti si rifanno ognuno a una tradizione diversa, dal vignettismo britannico all’incisione, dal fumetto umoristico americano a quello horror della EC Comics, da Roland Topor alla satira medievale. Moebius vede quindi la luce prima di Gir, la firma ufficiale e “pulita” di Giraud, ma siamo a mondi di distanza da quello che diverrà poi il “vero” Moebius cosnosciuto a livello mondiale. Non bisogna credere a Giraud quando dice che prima di Hara-kiri collaborò con Charlie Hebdo: essendo quella rivista un clone dell’italiana Linus (1965) all’epoca non esisteva ancora.
Alla fine del 1963 (così tutte le fonti ufficiali, ma a me sembra che uscì nell’ottobre del ’64...) su Pilote compare la prima puntata di Fort Navajo, primo episodio di una pentalogia che introduce il Tenente Blueberry. Ai testi nientemeno che Jean Michel Charlier, patriarca (lui nato belga) del fumetto francese moderno e cofondatore della rivista Pilote che doveva creare ed esaltare uno specifico del fumetto francese in contrapposizione alle raffinate scuole di Bruxelles e Marcinelle. Jijé gli raccomanda il suo vecchio assistente, e il resto volendo usare una formula abusata è storia: Blueberry diventa uno dei personaggi più amati e conosciuti del fumetto francobelga, un simbolo della BD.
Ma in realtà si potrebbe obiettare che come “storia” questa in realtà è decisamente anomala. Infatti Jean Giraud ebbe con Blueberry un rapporto praticamente monogamo: non esistono quasi esempi di volumi realizzati a firma Gir al di fuori della bibliografia del Tenente. C’era stato un Jim Cutlass (poi ripreso volenterosamente ma con scarsi esiti dallo stesso Giraud per i disegni di Christian Rossi), ma sempre di western con Nordisti e Sudisti si trattava. E in tempo recenti il suo contributo alla saga di XIII era dovuto a motivi squisitamente economici.
Blueberry si segnala per un’altra caratteristica unica nel panorama del fumetto mondiale: gli spin-off che gli sono stati dedicati (La Jeunesse de Blueberry, Mister Blueberry, Marshall Bluerry, l’abortito Blueberry 1900) hanno sempre e solo lui come protagonista, non i personaggi di contorno della saga.
Blueberry è un successo straordinario e dona al suo giovane e timido disegnatore fama e sicurezza economica. Tanta è la seconda da potergli permettere di abbandonare il reazionario Pilote a seguito di alcuni dissapori oggi risibili che denotano però il clima effervescente di quegli anni post-68. Ritorna a farsi vedere la sua personalità Moebius, “the dark side of Giraud”, che nel frattempo si stava tenendo allenata con le copertine della collana di libri di fantascienza Club du Livre d’Anticipation di Opta. Ma prima c’è un passaggio importante, un momento di transizione che nessuno ricorda.
Forse perchè il nome Moebius gli ricordava un periodo di apprendistato ormai passato o forse perchè legato contrattualmente ad altre realtà (va a sapere!), Jean Giraud elabora una terza personalità. O quindicesima, volendo considerare ognuna di quelle di Hara-kiri come a se stanti: Gyr. È con questo pseudonimo che firma delle storie brevi per Pilote che costituiranno le basi dello stile del Moebius oggi conosciuto. I titoli sono quelli arcinoti che conoscono tutti: Barba Rossa e il cervello pirata, L’Artefatto, ecc.
Si può fare un parallelo, ben sapendo che suona come una bestemmia, tra quello che realizzerà George Perez con Crisis e con la successiva Storia dell’Universo DC: laddove Gir è fedele allo stile più francobelga possibile, con le tavole ricolme di elementi, “comparse” e panorami dettagliati, Gyr per reazione dedica più tempo e attenzione a pochi elementi di primo piano iperdettagliati, in cui profonde una cura maniacale per definirne volume e texture. Il celebre pointillisme à la Moebius, insomma.
Il cerchio si chiude con La Deviazione, mitico lavoro autobiografico (!) in cui Moebius è finalmente Moebius e con cui Giraud dà il benservito a Pilote (ma non a Blueberry – genio sì, fesso no!).
Dopo un breve transito per L’Echo des Savanes, in cui pubblica alcune sue ossessione sessuali salvate dal cestino dei rifiuti a cui precedentemente condannava per vergogna lavori simili, arriva il fatidico momento di Metal Hurlant, la mitica rivista fatta in piena libertà dagli autori per loro stessi. Sì, fa ridere, soprattutto a distanza di anni e considerando tutti gli interessi che c’erano sotto e la progettualità che in realtà quella operazione sottendeva (doveva far parte di un poker di testate edite da L’Echo già un paio di anni prima), ma il mercato dell’idealismo è sempre il più florido.
Moebius/Gir dà pieno sfogo alla sua natura ambivalente in quegli anni: chiuso e introverso da una parte, autore di editoriali deliranti e lunghissimi dall’altra. Sono anche gli anni della famosa teorizzazione delle storie a forma di fiammifero e di elefante, stupendo esempio di dito che indica le storie a gags, a chute, ecc. e di idiota che fissa appunto le storie a forma di elefante invece di capire il discorso nel suo insieme. Ma in fondo è anche comprensibile: come si può pretendere che chi è cresciuto in balia dell’idealismo crociano e di fumetti al massimo ne conosce del tipo a Tigre di Martini possa entrare nell’ottica di chi invece (perfino un eccellente disegnatore che a scuola non è mai andato bene) è intriso per questioni nazionali di antropologia e di strutturalismo?
Moebius fa proseliti in tutto il mondo, e a tutti i livelli: perfino Milo Manara ammette la sua ammirazione per l’autore di Arzak e ne studia il metodo e lo stile. D’accordo, all’epoca (1975) Manara non era ancora “arrivato”, ma è incredibile come l’onda lunga della rivoluzione moebiusiana si possa cogliere nei suoi lavori a tutt’oggi.
Viene da chiedersi perchè lo stile di Moebius piaccia così tanto e generi così tanti imitatori. Per quanto banale sia, la risposta più convincente è che Moebius aveva saputo, come solo i grandi sanno fare, creare un “suo” stile (anzi due), un metodo di interpretazione della realtà già “digerito” e codificato a beneficio degli aspiranti disegnatori. Negli anni ’90 i ragazzini imitavano Jim Lee, alla fine dei ’70 scopiazzavano Moebius, avendo pure la scusa dell’impegno e l’illusione di far parte di chissà quale rivoluzione.
Due stili, comunque, dicevo: da una parte Moebius dedica alle sue vignette il tempo che solitamente dedicherebbe a un quadro o a un’illustrazione, e così abbiamo le celebri visioni del Garage Ermetico e di Arzak in cui un soggetto in primo piano viene reso con fitti tratteggi e puntini. Dall’altra, Moebius opera una sintesi elegantissima che porta alla creazione di figure stilizzate ma “perfette”, un anticipo dei suoi futuri androgini e delle sue donne con le labbra che si assottigliano ai bordi. In entrambi i casi, si tratta di “model sheet” di immediata presa sui giovani disegnatori, e oltretutto sono tutti e due stili molto gratificanti per chi li adotta, che permettono di ottenere subito un bell’effetto.
Ci sarebbe poi da citare il terzo stile, quello di Gir, anch’esso però diluito e imbastardito dall’estro del momento, dalla voglia effettiva di disegnare (non mi risulta difficile credere che Giraud disegnasse le tavole della Jeunesse con un cronometro vicino) e dall’abilità degli assistenti. Ma quello non ha avuto praticamente seguito al di fuori della Francia, anche se il recente numero 0 dei Seven Soldiers of Victory di Grant Morrison ha dimostrato che almeno qualcuno ci ha provato. Parlo ovviamente del classico stile BD in cui i dettagli sono fondamentali, il tratteggio è rigoroso, gli sfondi devono essere perfetti e l’horror vacui fa riempire le vignette di ogni ben di dio. È più facile disegnare mostri disarticolati e riempirli di tratti e trattini piuttosto che imbarcarsi in un lavoro di cesello che pochi al mondo, persino in Francia, possono permettersi. E difatti a parte Blanc-Dumont, Lidwine, il primo Juillard e pochi altri non rimane quasi traccia di questa gloriosa scuola.
Come dicevo, questo “terzo stile” è a sua volta caratterizzato da deviazioni, rallentamenti, modifiche e dal dodicesimo volume in poi (quello in cui il protagonista abbandona la maschera di Jean-Paul Belmondo per rivelare il suo “vero” volto) Blueberry è caratterizzato a sua volta da molte rivoluzioni interne che lo porteranno a cambiare stile ad ogni episodio, anche a livello di testi – vedi la lotta muta con l’aquila in Naso Rotto, impensabile solo qualche anno prima.
Passata la sbornia degli anni ’70, Moebius diversifica la sua produzione e guarda anche ad altri orizzonti: celeberrime le sue sequenze animate al computer per il film Tron. Sarà l’inizio di un lungo sodalizio con il cinema, che avrebbe potuto concretizzarsi qualche anno prima con l’abortita versione di Dune di Jodorowsky. Con il regista cileno si rifarà realizzando la saga dell’Incal, per cui Luca Raffaelli fece notare come avrebbe anche potuto firmarsi Girus a sottolineare il suo stato di continua ricerca che lo fa addirittura regredire sul piano del disegno.
Non so quanto valga la pena di raccontare il seguito, che è oltretutto sotto gli occhi di tutti: sempre più insicuro, Giraud si unisce al movimento mistico di Appel Guery; si appropria in toto del personaggio di Blueberry pur con qualche scontro con gli eredi di Charlier; si scopre sceneggiatore; diversifica ulteriormente la sua produzione con un sacco di portfolio e litografie (per quanto sostenga in anni recenti che le opere firmate Moebius vendono solo 5000 copie, bazzecole rispetto a quelle siglate Gir!); tiene a battesimo vari disegnatori o collabora con altri autori eccellenti, lasciando però troppi progetti incompleti.
Oggi come oggi mi sembra che, morto Jean Giraud, Moebius sia più vivo che mai.

4 commenti:

  1. Può un disegnatorucolo come me afferrmare che la forza di Moebius, come lo si voglia chiamare, sia solo nel fascino delle sue atmosfere?...Ora linciatemi!

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  2. Estraggo il forcone e accendo la torcia, Pino. Aspettati visite.
    No, dai, a parte gli scherzi secondo me Giraud era veramente un fenomeno del disegno, che oltretutto sapeva disegnare rapidissimamente e in condizioni proibitive. Così almeno i (molti) testimoni oculari che l'hanno potuto vedere all'opera.
    Non si può dire poi che si sia risparmiato, a parte la Jeunesse di Blueberry mi pare che non abbia mai "tirato via" niente anche quando la sua fama poteva permetterglielo (tu stesso hai citato la famosa teoria di Pratt, no?). Ed è anche stato bravissimo a gestire il suo talento e il suo successo.
    Poi anche le atmosfere che sapeva evocare erano fantastiche, occhio però che questo può voler dire tutto o nulla (e ognuno può trovare le proprie atmosfere dovunque): quando faccio notare a qualcuno che Frank Miller non sa nè scrivere nè disegnare di solito mi rispondono inebetiti "Eh, ma è bravo a creare l'atmosfera..."

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  3. Ottimo, hai risposto...era bravo, no bravissimo a creare atmosfere...per te è poco?

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  4. Ma le atmosfere, come le emozioni (che spesso vengono tirate in ballo per giustificare non tanto il gradimento di un'opera - che capirei - quanto la sua qualità) sono cose soggettive e per questo non possono valere come metro di giudizio.

    Le atmosfere, poi, se intendiamo con questo termine la capacità di evocare impressioni oppure un particolare contesto, sono facilmente strumentalizzabili: lo stesso Giraud aveva fatto notare come ad esempio durante l'Impressionismo tutti i media fossero impressionisti, non solo la pittura ma anche il teatro e la poesia: quelle erano le "atmosfere" che il pubblico voleva e giustamente tutti si buttarono a pesce per dargliele!

    Ad alcuni il deserto di Blueberry sembrerà glaciale, ad altri bollente, ma in entrambi i casi la perizia tecnica con cui è stato disegnato risulta evidente.

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