Gli appassionati di fumetti sono dei pecoroni che fanno i loro acquisti in
base al nome/marchio dell’autore piuttosto che sulla base di osservazioni
oggettive. Ne sono ben consapevoli la Avatar Press e ovviamente anche la Panini,
che ha dato alle stampe questa miniserie tratta da un progetto cinematografico
naufragato di Alan Moore (il cui nome è scritto a caratteri cubitali),
commisionatogli a suo tempo da Malcolm McLaren (scritto in grande, hai visto
mai che qualche punk di ritorno vada nelle edicole) e concretamente reso
fumetto da Antony Johnston e dal disegnatore Facundo Percio (se guardate con
attenzione trovate anche i loro nomi).
Fashion Beast è ambientato in una bizzarra distopia che
rimanda agli anni ’80 britannici, in cui le divisioni tra classi sociali sono
marcatissime e in cui incombe una costante minaccia nucleare mentre infuria una
guerra globale. Uno dei pochi modi che qualcuno ha per uscire dallo squallore
della propria vita è la moda, e la protagonista Doll riesce a infilarsi nella maison del guru Celestine (che le note
dicono ispirato a Christian Dior) dove si prenderà le sue rivincite imboccando
però una china assai pericolosa.
La trama si sviluppa effettivamente come se fosse la trasposizione di una
sceneggiatura cinematografica da manuale: il primo quarto serve a introdurre
ambientazione e personaggi principali, a metà abbiamo l’ace in the hole e nell’ultimo quarto c’è la conclusione risolutiva.
A ben guardare il turning point
centrale non è affatto originale o sorprendente, tanto meno geniale: è anzi un coup de théâtre già visto in altri film
e in un sacco di altri fumetti (i primi che mi vengono in mente: l’episodio
sotterraneo di Fuori del Tempo di
Barreiro e Alcatena ed Esmeralda di
Stalner e Achdé).
Comunque molto soddisfacente e ben costruito il finale, in cui oltretutto i
tarocchi acquistano finalmente un senso e un ruolo abbastanza chiaro nella
storia dopo essere stati elementi fastidiosamente decorativi nel corso degli
altri numeri.
Rivedere questi scenari apocalittici e pessimisti ormai desueti non suscita
la rabbia e l’indignazione che probabilmente erano i primi movens di Alan
Moore. Non li suscita in me, almeno. Più che altro ho provato una sensazione di
languida nostalgia, non certo per il clima reaganiano-thatcheriano alla base
della trama ma per una sensazione di affettuosa consapevolezza della distanza
tra le suggestioni di un mondo ormai tramontato (e il pensiero va a come era il
lettore in quell’epoca) e la coscienza in prospettiva che ne abbiamo oggi – in
tedesco esiste sicuramente una parola di almeno 35 lettere per indicare questa
sensazione, io meglio di così non so spiegarmi.
Ai disegni Facundo Percio compie un ottimo lavoro. Già a livello estetico è
molto bravo, ben più di tanti altri suoi colleghi più celebrati, ma quello che
lo rende speciale e ancora più meritevole è l’abilità con cui ha saputo rendere
sulla pagina delle sequenze che denunciano palesemente quanto fossero pensate
in origine per il cinema, giocando sui movimenti di macchina o sulla fissità
della ripresa: con ogni probabilità molte scene erano state ideate come carrellate
o come piani sequenza a camera fissa. In quest’ultimo caso Percio non ha
nemmeno fatto ricorso a fotocopie o computer, se non proprio in pochi casi
verso la fine: ho controllato. Anche se arriva alla fine col fiato corto,
Percio è stato fenomenale.
In definitiva, com’è questo Fashion
Beast? Non è un capolavoro, ma è senza dubbio un buon fumetto che pur
presentando situazioni e ambientazioni per nulla originali e francamente
desuete (oltre ad alcuni elementi che sembrano buttati lì più per gusto del
bizzarro che per reale necessità) riesce comunque a infiocchettarle
sufficientemente bene da rendere la storia intrigante e la lettura scorrevole.
Se non ci fosse stato il nome di Moore in copertina probabilmente io, da buon
pecorone imbecille, non lo avrei degnato di uno sguardo: non che mi sarei perso
chissà che, ma in fondo è stata una piacevole scoperta. E tutto sommato la
Panini avrebbe potuto agire in maniera ancora più infida producendo dal fumetto
un unico volumone costoso da comprarsi a scatola chiusa invece che
serializzarlo ad una prezzo piuttosto contenuto, tanto più che è bimestrale (quindi
la spesa è ulteriormente diluita) e che la Avatar Press ha impostato generosamente
i singoli comic book che compongono la saga “come si facevano una volta”,
ovvero sulle 24 tavole a capitolo e non limitandosi alle 20 com’è uso già da un
po’.
Mi scopro un po' meno pecora di quel che pensassi, questo non l'ho comprato :)
RispondiEliminaIo ho preso il primo numero senza sapere assolutamente chi si nascondeva dietro il progetto... mezza pecora, dai^^
RispondiEliminaMoz-