Letto durante il viaggio di andata a Modena, copia recuperata da un amico
che si è fatto tutta la collezione. Ad accogliermi due delusioni: il fatidico
ultimo episodio non è a colori come mi aspettavo e, cosa assai più grave ai
miei occhi, il lettering, i balloon e credo anche i contorni delle vignette
sono stati realizzati col computer. A questo mondo non c’è veramente più nulla
di sacro – e neanche il refuso “adiaccio” con una sola “d” a pagina 20 è stato
un bel biglietto da visita.
Fin dove arriva il mattino è composto da due vicende parallele, una
delle quali è un flashback di Ken
Parker che comunque si ricollega alla storia portante in più di un punto. La
storia principale narra del viaggio che Ken fa in compagnia di alcuni
rapinatori che tra le altre cose hanno rapito due donne, madre e figlia, di cui
abusano sistematicamente. Un indulto presidenziale ha commutato l’ergastolo di
Ken in vent’anni di carcere: da quel poco che posso ricostruire della
crolonologia della serie credo che sia uscito da poco dal carcere, che
apparentemente è stata un’esperienza devastante in grado di minarne non solo il
fisico ma anche lo spirito.
La parte relativa ai ricordi, se ho ben capito, è una rielaborazione del Canto di Natale uscito in edizione
extralusso per Spazio Corto Maltese e narra un drammatico episodio della vita
carceraria di Ken e della variopinta fauna (non solo i carcerati) che popolava
il penitenziario del Montana.
Personalmente ho trovato più interessante questa seconda parte: il ritmo è
più sostenuto e incalzante, i personaggi sono originali e per nulla
stereotipati (mentre invece tra i banditi c’è pure l’ennesimo predicatore che
legge la Bibbia) e la risoluzione della vicenda con la vendetta di Ken è
veramente splendidamente architettata.
Con questo non dico che la trama portante sia meno riuscita: semplicemente
in quel caso c’è la necessità di far montare l’attesa per fare deflagrare il
vero piano di Ken. Credo che Berardi abbia voluto giocare apposta col lettore
affezionato che fino all’ultimo non sa se gli anni di prigionia abbiano
veramente potuto cambiare così tanto il suo beniamino che apparentemente in
questa circostanza non prende le difese dei deboli ma anzi assiste, quasi
complice, alla loro umiliazione.
Lo sceneggiatore ha optato per uno stile asciutto ed efficace, in cui
bisogna addentrarsi con attenzione nelle vignette e nei loro dettagli per cogliere
bene tutta l’azione. In ciò ovviamente si vede la sua passione per il cinema e
il tentativo di tradurre su carta piani sequenza e dolly. Tentativo non del
tutto riuscito a causa dell’apporto grafico di Milazzo.
I dialoghi sono ridotti ma carichi di significato (e ben venga che Ken
ribadisca più volte quanto sia invecchiato visto che non sempre Milazzo,
nemmeno nei primi piani, ce lo ricorda) e la battutaccia sul doppio senso di
“Lungo Fucile” mi pare una splendida e autoironica chiusura metanarrativa del
cerchio in cui il finale si congiunge con l’inizio della saga. Ciò detto, non è
che Berardi si sia convertito del tutto all’Esistenzialismo: lo sceriffo Grant,
per dire, è tratteggiato come una bravissima persona e spazio per la speranza
evidentemente ce n’è ancora. (ok, non proprio visto
che crepa impallinato, ma Berardi avrebbe anche potuto non mettercelo uno come
lui)
Come forse si sarà già intuito, i disegni di Milazzo non mi sono sembrati
all’altezza della storia. O per meglio dire, non credo che lo stile che ha
elaborato Milazzo si sposi bene con questa trama e questa ambientazione. È più
una questione stilistica che estetica, in definitiva. Anche se pure dal punto
di vista estetico...
È innegabile che Milazzo abbia dedicato grande cura e impegno a tirare
fuori dei disegni molto elaborati (beh, qualche volta, almeno), e questa
ricerca la si coglie nell’evidente stratificazione delle tecniche che ha
impiegato: sopra la matita c’è la prima pennellata, poi ce ne sono altre, ma quel
disegno non lo convinceva del tutto e allora ecco una passata di tempera bianca
a tirare fuori nuove luci in un volto o in un paesaggio. In alcuni frangenti mi
ha ricordato nientemeno che Alberto Breccia ma uno stile del genere secondo me
sarebbe stato più adatto per qualche storia sulla falsariga di Fantasticheria o Tom’s Bar, non per un fumetto di matrice orgogliosamente popolare
come Ken Parker che dovrebbe
privilegiare la leggibilità.
Inoltre va detto che queste vignette elaborate (di cui l’ottima qualità di
stampa della Mondadori rivela anche le puntinature fittizie dovute al passaggio
allo scanner, mortacci loro) convivono con altre in cui i soggetti ritratti
sono veramente poco più che schizzati. Le mani, in particolare, sono trattate
con una nonchalance disarmante. Forse
Hugo Pratt docet e se alla base di
certe semplificazioni milazziane ci fosse la sicurezza che comunque un suo
pubblico ce l’ha non saprei onestamente dargli torto.
In definitiva l’evento fumettistico italiano del 2015, insieme al Tex di Eleuteri Serpieri,
mi è sembrato pienamente soddisfacente sul piano testuale (uniche perdonabili
concessioni all’incredulità per obblighi di eroismo popolare: il denutrito Ken in galera ammazza con eccessiva facilità
il carceriere Finney e alla fine si becca una pallottola nello stomaco e
non batte ciglio) mentre dal punto di vista grafico non è stato proprio
deludente ma senz’altro un po’ spiazzante. Forse un tantinello deludente sì.
In merito al finale della saga: tutto sembrerebbe
far pensare all’effettiva morte di Ken Parker, persino Luca Raffaelli che lo
scrive a caratteri cubitali nella postfazione (i cui rimandi alla storia sono
indecisi tra tavole e pagine e uno è proprio sbagliato seppur di poco)
esponendo quindi il lettore incauto allo spoilerone. Io resto dell’idea che
finché non viene prodotto il certificato di morte ufficiale di un personaggio
di fiction non si può essere sicuri della sua effettiva dipartita, e nemmeno in
quel caso in fondo si è sicuri di nulla... A mio avviso se un domani Berardi
e/o Milazzo e/o qualche erede designato volessero riprendere la saga potrebbero
farlo benissimo proprio da qui: a parte il sorgere dell’alba non sappiamo cosa
avvenga dopo l’inizio dell’agonia di Ken che potrebbe anche cavarsela in
maniera più dignitosa a livello narrativo dei mezzucci che Raffaelli
stigmatizza – e anche se si salvasse in qualcuna di quelle maniere non ci
troverei nulla di male per un personaggio di matrice popolare.
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