Il dodicesimo Don Camillo non vuole proprio saperne di
arrivare, quindi mi tocca dedicarmi a spulciare le offerte della fumetteria per
compensare.
Il Fotografo pubblicato in Italia dalla Lizard non mi ha mai
interessato, anzi l’ho sempre guardato con un certo sospetto, ma lo mettevano
al 50% di sconto e alla
fine sono capitolato.
Questo genere di fumetto non mi
interessa, il graphic journalism o
qualunque sia la categoria in cui rientra Il
Fotografo è una semplice esposizione di fatti (talvolta narcisistica) che
proprio in virtù della sua natura di reportage può permettersi, anzi si sente
quasi in dovere di fare, di essere disegnato approssimativamente – e con
Guibert mi è pure andata bene. Senz’altro un volume da lasciare sbadatamente
sul tavolino del soggiorno, oppure in bella vista nella libreria, per fare
colpo su una certa categoria di ospiti, ma fumettisticamente parlando siamo al
Neolitico. La mia impressione è stata confermata, ma tutto sommato poteva
andarmi peggio.
Nel 1986 Didier Lefèvre accompagna
come fotografo una missione di Medici Senza Frontiere diretta a Badakhshan in
Afghanistan, fotografa praticamente tutto («Mi chiedo cosa ci faccio qui. E,
come sempre, mi rispondo scattando delle foto» è la sua spiazzante filosofia di
vita) e il fumettista Emmanuel Guibert compone i ricordi di Lefèvre come una
sceneggiatura integrandoli con dei disegni per imbastire un fumetto, o
qualsiasi cosa sia Il Fotografo.
L’apporto più importante viene da Frederic Lemercier, colorista e “montatore”
dell’opera che le dà il suo aspetto compiuto e quindi la parvenza di BéDé. Per
quanto il ricorso a enormi didascalie che incorniciano le foto e le vignette
cristallizzi l’opera e la renda più simile a un libro illustrato, soprattutto
all’inizio.
Come prevedibile, ci sono appunto
un sacco di didascalie a riassumere e descrivere quello che i disegni, scarni e
spesso privi dei benché minimi sfondi, non possono lasciar trapelare (e Guibert
ha pure un tratto molto piacevole e maturo, con cui potrebbe realizzare opere
“classiche” di sicura qualità). Di conseguenza sono spesso i dialoghi le parti
migliori, quelle in cui le nozioni passano con maggiore efficacia grazie alla
verve degli interlocutori e in cui alcuni scambi di battute riportano Il Fotografo su un piano più narrativo
che meramente descrittivo. Il viaggio si snoda con una certa piacevole
indolenza da studio entomologico soffermandosi anche sulle diversità
antropologiche delle popolazioni incontrate, cosa che offre però il destro a
commenti talvolta un po’ infelici.
Alla fine un certo interesse viene
suscitato (e considerato l’argomento mi sembra inevitabile) e non mancano neppure
bei momenti come l’episodio dei 15 minuti di black-out in Pakistan, ma il
fascino di quella sequenza e il suo ritmo si devono al lavoro del colorista Lemercier.
Paradossalmente, in più di un’occasione mi sono trovato a pensare che Il Fotografo avrebbe funzionato meglio proprio
senza le foto che spezzano quel poco di ritmo che ha. Anche perché alcune sono
state riprodotte in formato molto piccolo oppure inspiegabilmente storte,
costringendo il lettore a uno sforzo per decifrarle e quindi estraniandolo
ancora di più dal tessuto della narrazione.
Il lettering, che sicuramente
Nadège Vaïnas avrà elaborato a partire da quello originale di Guibert, non è
molto bello e rende un po’ ostica la lettura (i punti sembrano delle virgole),
e questa prima edizione della Lizard datata 2004 non è nemmeno scevra da
refusi.
Il valore di documentazione di
quest’opera è innegabile (tecnicismi a parte, la sequenza dell’operazione del
tumore al piede è veramente toccante) ma dal punto di vista del fumetto è meglio
stendere un velo pietoso.
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