La meritoria opera di recupero
dei classici italiani ad opera delle Edizioni If si è arricchita di un nuovo
titolo: quel Kinowa di cui
l’enciclopedia La Grande Avventura dei
Fumetti della DeAgostini magnificava l’originalità e la violenza in
anticipo sui tempi, suscitando la mia curiosità.
A differenza di altri prodotti
dell’epoca, il protagonista Sam Boyle non è un ragazzino ma un uomo maturo e
apparentemente ben poco eroico: è stato scalpato e si profonde in risatine che
lette oggi lo fanno sembrare un pazzo o un pervertito (chissà che emozioni
voleva evocare originariamente lo sceneggiatore Andrea Lavezzolo/A. Lawson con
quella sequela di «Ih! Ih! Ih!»). A seguito dell’assassinio della moglie e del
figlioletto perpetrato da perfidi indiani, Boyle diventa uno spietato
cacciatore di indiani, a sua volta collezionista compulsivo di scalpi. Sullo
sfondo di questa trama di partenza si staglia la figura di Kinowa, un temuto
sterminatore di indiani che sia i bianchi che i pellirosse ritengono una
creatura fantastica.
La storia è però più complessa, e
il figlio di Boyle non è morto durante l’eccidio iniziale ma è stato accolto da
un capo indiano nonostante le titubanze di un altro, e si è fatto uomo in seno
alla sua nuova tribù col nome di Penna Rossa, e come tale arriva quasi a far
scoppiare una nuova guerra indiana.
Ricordata come una serie molto cruda,
in realtà Kinowa ha ben poco di
drammatico e proprio nulla di splatter, non solo per gli standard attuali. Gli
scotennamenti e le morti violente vengono evocati dai testi e le inquadrature
si concentrano sapientemente sulle gambe delle vittime o approfittano di
elementi in primo piano per coprire i dettagli.
Più che altro, Kinowa è una rilettura western del
romanzo d’appendice, in cui parenti lontani e divisi portano avanti un balletto
di inconsapevole avvicinamento fintantoché l’interesse del pubblico non scema.
Una cosa che ho apprezzato molto della serie è che il titolare compare solo in
una manciata di occasioni, è più che altro una presenza incombente (e nemmeno
poi tanto), e i veri protagonisti sono altri. Insieme alla tensione verso la
scoperta della sua vera identità, questo particolare dà la piacevole sensazione
che ci fosse una progettualità ben precisa a monte e non solo l’accumulo di
situazioni diverse per mandare avanti la collana – e in effetti nei nove
albetti originali qui raccolti c’è una continuity
abbastanza serrata.
Dopo anni di revisionismo, ho
apprezzato anche l’interpretazione che viene data degli indiani, che qui in
teoria sarebbero ancora i “cattivi”, ma che in realtà vengono rappresentati
come fieri guerrieri che devono peraltro dedicarsi a equilibrismi politici per
mettere d’accordo le varie tribù.
La parte in basso a sinistra è rifatta? |
Lavezzolo scrive in maniera
forbita e, cosa comunque comune ai fumetti di quell’epoca, dedica molto spazio
alle descrizioni di quello che succede, per quanto i disegni siano già
sufficienti a capire le situazioni. In particolare, ho notato certi afflati di
lirismo che letti oggi danno uno strano retrogusto tra il surreale e il
marinettiano: a pagina 17 un indiano segnala la posizione muovendo le braccia
come se fosse un semaforo (ma che razza di semafori avevano negli anni ’50?)
mentre a pagina 22 leggiamo del «fremito retrospettivo» di un cavallo che salta
un burrone.
La scelta dei nomi non è molto
azzeccata e oggi suona francamente ridicola: Wild City (chi diavolo vorrebbe
vivere in un posto che si chiama “Città Selvaggia”?), Fort Caution (“Forte
Cautela”!) e il cavallo di Boyle si chiama Bingo, come la tombola americana…
Anche se ero portato a credere
che refusi ed errori vari fossero tipici della nostra era contemporanea, più
automatizzata e facilona, ne ho riscontrati anche qui, così come ne ho trovati
in altri fumetti della stessa epoca o anche precedenti.
In particolare, ho notato che imperversa un viziaccio (vero e proprio errore da
matita rossa) che io ritenevo essere tipico di questa epoca: la virgola tra
soggetto e verbo. Gli educatori avevano ragione a dire che i fumetti traviavano
la gioventù, altroché.
I disegni dello studio EsseGesse,
pienamente calati nella ruspante temperie dell’epoca, sono decisamente validi: pur
con alcune comprensibili semplificazioni anatomiche dovute agli stretti tempi
di consegna, si segnalano soprattutto per la cura e la ricchezza degli sfondi e
dei dettagli (come ad esempio gli abiti). Evidentemente si trattava di una
prima elaborazione dello stile del trio, prima di privilegiare il dinamismo che
ho riscontrato nel successivo Il Grande Blek.
La qualità di stampa a volte
tende a impastare i tratteggi, e i neri non sono sempre compatti, ma nel
complesso la resa è più che dignitosa. E comunque il costo è molto conveniente:
solo 2,90 euro.
Non mi sarebbe dispiaciuto
leggere qualche nota sulla serie e la sua produzione, ma in seconda di
copertina Gianni Bono si limita a pubblicizzare le Edizioni If e la Guida al Fumetto Italiano. In terza di copertina
vengono comunque riprodotte le copertine dei nove fascicoli raccolti in questo
primo numero, con l’indicazione della data d’uscita. La copertina è affidata a
Michele Benevento: da quello che ho potuto vedere quelle originali erano molto
suggestive e ben colorate, ma non possono certo reggere il confronto con la
perizia tecnica di un disegnatore contemporaneo.
Ho ancora la precedente ristampa della Dardo del 1990 (28 spillati di 64 pagine formato 21x28) e in 27 anni non mi è mai venuto voglia di leggerli!
RispondiEliminaBeh, è decisamente vintage, ma è comunque interessante.
EliminaNon ho capito infatti perché nella copertina è disegnato di verde-alieno mentre i testi dicono che sia bianco.
RispondiEliminaComunque, lo Scotennato mi ha fatto rivivere un po' di glorioso passato, penso che continuerò la serie ma non mi aspetto guizzi particolari (ha un finale?)
Moz-
Da quello che so questa prima saga dura 18 numeri, quindi col secondo numero sarà finita! Dopodiché, vediamo se continuerò l'acquisto.
EliminaDue giorni fa Crepascolino, dopo aver lanciato una occhiata alla mia coccia rasata a zero, ha detto che i pelati si chiamano così perchè i loro capelli hanno le dimensioni di un pelo ed io ho pensato naturalmente a Kinowa e meno naturalmente ad un vecchio Alan Ford in cui una signora pelata mascherata da hombre ( El Rapador ) rasava a zero le sue vittime.
RispondiEliminaMi piacerebbe leggere una versione 21mo secolo di Kinowa in cui il maturo e pelato Sam Boyle è il borgomastro del solito villaggio fantasy che finisce rovesciato da una posse di scalmanati che, apparentemente , uccidono anche il figlio adolescente che ha avuto da una cortigiana prima di bruciarne il corpo. Il nostro anti eroe si ritrova senza palanche e senza amministrazione e gettato nel fango come senza vita. Tornerà ad infestare le coscienze di coloro che contestavano i suoi criteri in materia di esazione dei tributi dopo il crepuscolo colla maschera bianca del gabelliere Kinowa che all'alba se ne tornerà nella selvaggia Fortezza della Cautela, un castello che esiste su + piani dimensionali. Ai suoi ordini una posse di gnomi. O elfi . E' l'istess. Continuity serrata. Prima o poi ( solita cit. Luis Bicco ndr ) salterà di nuovo fuori la sua progenie opportunamente condizionata a combattere papà a cavallo del solito drago fumante. In b/n. Tascabile.
Ottima la citazione di Luigi Bicco.
EliminaPrima o poi riuscirò a schiaffaci anche un lacerto di qualcosa, ma in un post su di un tizio diversamente tricotico che scalpa i nativi americani un riferimento a brani di materia umana mi sembrava fuori posto e ti ho graziato, ciao, Graziano
RispondiEliminaQuante uscite grazie??
RispondiEliminaFrancamente non lo so... io ho preso solo i primi due numeri che ristampavano la prima serie di 18 numeri.
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