impossibile trovare in rete un'immagine della copertina, accontetatevi di questa porcheria |
Ma che bella sorpresa: la
Mondadori torna a pubblicare un volume dedicato alla Prima Guerra Mondiale. E
saremmo pure fuori tempo massimo, visto che il centenario della fine del
conflitto è passato da due anni. Non fosse che in questo periodo ho bisogno di procacciarmi
fumetti avrei lasciato il volume in edicola, e non mi sarei perso granché.
Il bambino soldato che dà il
titolo a questo trittico di volumi è Jean-Corentin Carré, personaggio realmente
esistito: una gloria nazionale imbevuta di patriottismo smaniosa di prendere
parte alla guerra nonostante i suoi soli 14 anni, che riuscirà veramente a
farsi arruolare mentendo sulla sua età e sulla sua identità. Jean si trova così
catapultato nell’inferno delle trincee, ma un po’ grazie al suo coraggio e un
po’ grazie alla fortuna riuscirà a mantenere salva la pelle e addirittura a far
carriera nell’esercito nonostante chiunque lo incontri noti il suo aspetto
fanciullesco. Una volta scoperto l’inghippo viene congedato ma non si dà per
vinto e, memore di quello che vedeva nelle trincee di Verdun, azzarda
l’arruolamento in aviazione riuscendo a coronare anche quel suo sogno, che però
si rivelerà deludente rispetto alla sua sete di sangue tedesco.
I testi di Pascal Bresson sono un
misto di retorica e di dettagli storici, come spesso avviene nelle storie di
questo genere. La narrazione un po’ sincopata non si fa leggere in maniera
troppo fluida (non sempre i flashback fanno riferimento alle scene a cui sono
associati) ma almeno movimenta un po’ una struttura che bene o male è pur
sempre quella tipica dei fumetti bellici. Tra le pennellate documentaristiche,
scopro grazie a Il bambino soldato che
i militi al fronte ce l’avevano coi gendarmi. Meno lodevole la deriva
metanarrativa per cui i due autori principali si siano autoritratti in tali
vesti. Confesso di non aver colto il simbolismo della penultima pagina, ma d’altra
parte non mi ci sono nemmeno messo troppo a rifletterci sopra.
La figura di Carré, che
curiosamente anche familiari e amici stretti chiamano sempre con nome e
cognome, risulta poco meno che schizofrenica: l’entusiasmo degli esordi si
stempera presto in un cinismo fatalista, che passa però anche attraverso
momenti di esaltazione, fugaci ingenuità, timore di Dio (dopo che nelle prime
pagine per poco non mandava a quel paese il parroco) e meccanico eroismo. Al
culmine di tutto ciò, Jean diventa pure un bello stronzetto. È probabile che Bresson
abbia cucito insieme la vulgata sul personaggio, ovviamente ingigantita a scopi
propagandistici, con elementi reali come le lettere che indirizzava alla madre;
la ricerca delle contraddizioni nella personalità di Jean sarebbe quindi voluta,
e certo giustificabile anche con la giovane età del protagonista ancora in
formazione, ma resta comunque un po’ spiazzante.
La parte grafica asseconda quella
testuale: al di là del fatto che nel primo dei tre capitoli i disegnatori sono
due (Stéphane Duval e Lionel Chouin), la schizofrenia si mantiene per tutto il
trittico presentando cinque o sei stili di disegno diversi: a volte si azzarda
un realismo un po’ alla Alain Mounier (tanto per citare un riferimento
vagamente simile) ma questo viene presto abbandonato in favore di concessioni
un po’ caricaturali oppure di un tratto adatto a illustrazioni per ragazzi,
mentre fanno anche capolino cascami espressionisti con derive quasi underground, inquadrature d’effetto
quasi supereroistiche e tavole disegnate con un tratto sporco e pesante. Il
risultato non è pessimo, ma comunque spiazzante. Il primo episodio è colorato
da Jean-Luc Simon che fa un buon lavoro mentre Patrick Larme non rende
giustizia ai disegni di Chouin negli episodi successivi.
In ultima analisi Il bambino soldato non è certo un brutto
fumetto, e probabilmente piacerà agli appassionati del genere. Io però mi
ricorderò questo volume principalmente per tre cose: alcuni rari fuori registro
come se la stampa fosse partita da pellicole (quando invece le pellicole di
stampa non si usano più, giusto?), la colta introduzione in cui Sergio Brancato
infila di tutto pur di non parlare della storia e rovinarne la lettura (o forse
pure a lui non è che interessasse molto) e la soddisfazione di essere riuscito
a individuare il numero 91 sul dorso, stampato in nero su un fondo scurissimo.
È visibile solo a una certa angolazione e con le giuste condizioni di luce, ma
c’è.
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