Nel consueto futuro
post-apocalittico un autobus sta portando cinque ragazzini verso San Francisco,
in un campo profughi dove saranno al sicuro dalla guerra civile nucleare che
sta infuriando negli Stati Uniti d’America. Ma l’autista dà forfeit e i ragazzini
devono arrangiarsi da soli finché arrivano in un paesello ribattezzato Duster’s
Wake dal Custer’s Wake che era in origine. Incontro di prammatica con una banda
di predoni post-atomici, poi si infilano in una misteriosa casa in stile
vittoriano (oddio, non so se lo stile architettonico sia proprio vittoriano: è
la tipica villa delle piantagioni del sud, per capirsi). Qui il più piccolo e
problematico dei cinque, Ben, entra in contatto con una realtà stramba dopo
aver già sperimentato per la strada uno strano fenomeno per cui una carcassa di
alce non voleva restare morta.
Un ufficiale dell’esercito si
mette sulle loro tracce, una misteriosa ragazzina guerriera li protegge e nel
corso dei loro dialoghi apprendiamo che non tutti i giovani protagonisti sono
innocenti come vogliono far credere o hanno raccontato delle storie veritiere
sulle loro origini.
La soluzione del mistero che
circonda la villa, o almeno una parte di essa, in realtà ci viene già data con
l’esergo che riporta una considerazione del suo proprietario Abraham Morrow, e
sarebbe anche stato un discreto tocco di classe se il fumetto avesse avuto più
mordente e fosse stato più coinvolgente.
Low Road West mischia insieme tante cose: l’ennesimo mondo
fantascientifico post-atomico, ricerche arcane a metà tra scienza e magia,
maledizioni indiane, mondi alternativi, mostri pseudo-giapponesi, tentativi di approfondimento
psicologico e forse qualche punta di critica alla politica statunitense attuale.
Troppo materiale per una miniserie di cinque episodi. Anche se l’aspetto
testuale è comunque superiore a quello grafico.
Flaviano ha infatti uno stile
sintetico e a volte stilizzato, che vorrebbe essere espressivo e che per questo
soprassiede sulla correttezza anatomica: gli occhi dei personaggi di tre quarti
sono innaturali, in molti primi piani i nasi dei ragazzi sono suini
indipendentemente dal personaggio e dalla sua etnia, a volte gli arti si
piegano e si allungano innaturalmente per assecondare i movimenti… Le derive
pupazzettistiche hanno anche il difetto di rendere i “cattivi” e i mostri non
minacciosi come dovrebbero essere ma tristemente ridicoli. Niente male, però, i
colori di Miquel Muerto (che spero per lui sia uno pseudonimo).
Un fumetto anonimo, se non
proprio mediocre, ma va riconosciuto a Phillip Kennedy Johnson lo sforzo di
cercare di inventarsi qualcosa di originale. Cos’abbia di tanto speciale
Flaviano, però, proprio non l’ho capito.
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