Il primo impatto è stato tremendo: lo stile di disegno di Arabson è fottutamente caricaturale. Curatissimo e dettagliato, sì, ma i suoi sgorbi sono un misto di Paul Pope e de Crécy, con un vago retrogusto di De Felipe (mi pare si chiamasse così), quel fumettista spagnolo che fu pubblicato con una certa frequenza nei primi anni ’90 da L’Eternauta e Bronx per poi sparire nel nulla. Come stile funzionerà pure in certi fumetti, ma non qui. Una volta letta la storia, l’impressione non è migliorata poi tanto.
Il diavolo torna dopo vent’anni a riscuotere la sua parte di un patto che aveva concluso con un contadino brasiliano che ha reso ricco: gli deve l’anima di suo figlio Gregorio. Ma il tizio non vuole cedere e gli propone uno scambio: invece di suo figlio, che si prenda l’intrattabile figlia Elizabeth, rinchiusa in una pensione-prigione. Avvisata dalla madre e preparata a questa eventualità da una vita, Elizabeth scappa e sulla sua strada incontra un chitarrista blues che parla per sottintesi ed è realmente il miglior musicista del mondo (tanto per non farsi mancare nessuno stereotipo, il tizio è ovviamente una versione di Robert Johnson, ha pure il suo secondo nome – che Arabson non sa scrivere correttamente!). Lunga sequenza muta di combattimento contro un emissario del diavolo e poi la resa dei conti a casa del paparino. Una sessantina di tavole che si leggono in fretta e non lasciano niente, ma chi non ha letto molti romanzi o fumetti o ha visto pochi film potrà trovare alcuni elementi interessanti o addirittura originali. Certo, meno ne ha visti e letti e meglio è.
James Robinson ha curato l’adattamento per il mercato statunitense: avrà fatto coprire qualche tetta o smussato i dialoghi più blasfemi, se ce n’erano. Colori, almeno questi piuttosto validi, di Anderson Cabral.
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