Nei primi anni ’80 Anita Marsala, poco più che bambina, si trasferisce con la famiglia in una Bergamo, per la precisione a Stezzano, già intossicata da fumi leghisti. Terrona, maschiaccia e invidiosa del trattamento di favore che secondo lei è riservato al fratello minore, non vive comunque una brutta esistenza perché ha saputo farsi due amiche importanti: Tina che è un maschiaccio peggio di lei e la più “ammodo” Elena. Ognuna di loro deve convivere come tutti con drammi più o meno grandi: Tina vive in un contesto povero per metà operaio e per metà contadino, Elena è orfana dei genitori e vive con la nonna. E anche Anita ha la sua croce da portare, ovvero una madre malata. Purtroppo la sua patologia viene svelata sin dalla quarta di copertina, e anche se scopriamo di cosa soffre già a un quarto del fumetto, sarebbe stato più efficace non saperlo prima.
L’affresco viene presentato in maniera volutamente frammentaria, con un lungo flashforward iniziale che introduce la vicenda e concentrandosi sugli episodi più importanti per approfondire i caratteri delle protagoniste e il contesto in cui si muovono (essendo il padre di Anita ingegnere nella fabbrica dove quello di Tina è solo operaio questo rischia di generare degli attriti tra le due; forse il desiderio di essere un maschio di Anita rivela qualcosa del suo futuro orientamento sessuale). Il filo conduttore delle loro vite è il desiderio di andarsene, per soddisfare il quale arrivano addirittura a costruire una zattera con cui navigare il Po. Proprio questo elemento farà sfiorare la tragedia. Ovviamente, raccontando parte di una vita e non una storia, non c’è bisogno di un finale che tiri veramente le fila di quanto si è letto.
Visto l’approccio che ha scelto la sceneggiatrice Cristiana Alicata la “narrazione” viene spesso demandata a un lirismo che rende i disegni solo appendici dei testi, usando la scansione in vignette (o le pagine prive di disegni) come metronomo con cui dare il ritmo alla lettura: forse alle pagine 134 e 135 c’è una citazione dello Swamp Thing di Alan Moore. Ma per fortuna questo viene bilanciato da sequenze mute che ci ricordano che anche questo è un fumetto: una su tutte, la scoperta da parte della nonna di Elena del progetto di fuga.
A livello di disegni Filippo Paris ha prodotto delle tavole molto migliori rispetto a quelle di altri colleghi più frettolosi e meno precisi che si sono cimentati con la stessa categoria merceologica. Anche lui ovviamente ha adottato uno stile un po’ abbozzato ma non ha trascurato i dettagli laddove erano necessari (e non ha “barato” nel disegnare biciclette e interni) e ha sempre rispettato l’anatomia e le proporzioni. Forse ha perso un po’ di smalto verso la fine, ma d’altra parte 200 tavole non sono uno scherzo – come parzialmente lasciato intendere dalla Alicata nei ringraziamenti finali. E forse la colorazione avrebbe potuto essere meno scura in alcuni punti visto che non permette di distinguere bene i disegni, ma magari si tratta di una scelta stilistica voluta per evidenziare certi dettagli come le lacrime.
Nel complesso Qui c’è tutto il mondo è un’opera piacevole e anche abbastanza coinvolgente pur se non racconta propriamente una storia.
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