Si conclude la saga del signor
Joseph e tutti i nodi vengono al pettine, strigliati con pazienza dal giudice
Jacques Legentil che impiegherà quasi vent’anni per ottenere la sua vendetta.
Il primo dei due volumi qui
raccolti ha un inizio farraginoso in cui si procede come in un legal thriller a raccogliere
testimonianze e dossier e a stabilire una tattica di attacco per demolire il
protagonista sempre in bilico tra opportunismo e fatalismo, tra calcolata
crudeltà e slanci disinteressati. Dopo una ventina di pagine, però, la storia
si fa coinvolgente.
La molla che porterà alla caduta
di Joseph Joanovici è l’esecuzione del giovane partigiano Robert Scaffa,
ammazzato nello scorso volume perché aveva visto troppo degli intrallazzi del
protagonista. Ma ci vorrà un sacco di tempo prima che il giudice di Melun possa
intravedere una possibilità di colpire la sua nemesi (e come per Al Capone il
pretesto sarà una questione di frode fiscale) e nel percorso verso la fine Nury
mette a nudo la varia umanità che compone questa tragedia con tutte le sue
piccolezze, i suoi opportunismi e i vorticosi cambi di campo, non risparmiando praticamente
nessuno dei protagonisti al suo sguardo che ne rivela le bassezze.
Il ritmo della storia è
nettamente cinematografico, praticamente senza didascalie ma con inquadrature
dinamiche e occasionalmente ardite (penso principalmente a quella
dell’aggressione a Eva) e un montaggio molto narrativo e anch’esso dinamico
delle vignette, in cui Nury fa ricorso al sistema di produrre senso smentendo
quello che succede nella vignetta immediatamente precedente o contrapponendo
situazioni opposte.
Cedo alla tentazione e mi
sbilancio a dire che C’era una volta in
Francia oltre a essere un ottimo fumetto dalle grandi ambizioni pienamente
soddisfatte diventa anche un apologo sulla condizione umana, coi suoi
personaggi che escono praticamente tutti sconfitti dalla vicenda. È andato
vicinissimo a diventare un capolavoro, ma un fumetto è composto anche della
parte grafica.
Sgombro il campo da eventuali
equivoci: Sylvain Vallée è un bravo disegnatore e un ottimo fumettista, uno che
sa sicuramente raccontare per immagini. Purtroppo, però, ha anche delle derive
caricaturali molto marcate che secondo non lo rendono affatto adatto a questa
storia cupa e rigorosa. I suoi personaggi sono sicuramente molto espressivi ma
come si fa, per dire, a prendere sul serio il giudice Legentil con quel suo
mento spropositato? Francamente io non me lo ricordavo così grottesco nelle sue
prove precedente. È vero che la componente gros
nez è presente nel DNA di quasi tutti gli autori di BéDé, ma qui si è
esagerato e per me non è stato facile empatizzare con questi personaggi che
risultano poco credibili nelle loro fattezze grottesche. Come se Watchmen lo avesse disegnato Sandro
Angiolini (altro grande professionista, ma anche lui nettamente caricaturale):
non sarebbe stata la stessa cosa.
Comunque bando alle remore: C’era una volta in Francia è stata una
delle migliori letture del 2015, che la pubblicazione ravvicinata da parte
della RW Lineachiara ha reso ancora più avvincente.
In effetti non avevo riflettuto abbastanza sul fatto che Gibbons è un disegnatore assolutamente realistico, (quasi "noioso", in senso buono) e sull'importanza che ciò ha avuto nel descrivere efficacemente un universo desolato e spietato come quello di Watchmen (molti si fermano al contributo di Moore, quello di Gibbons viene notato di meno). Un realismo impietoso a volte è utile.
RispondiEliminaPer quel che vedo in rete, non mi da' troppo fastidio il mentone di Legentil. Mi pare un mezzo per sottolinearne la "tenacia". Uno che non si arrende.
Eh, ma ci sono pure le donne un po' mostruose, gli uomini-orso e altre piacevolezze... Vallée è bravo ma per disegnare questa storia io ci avrei visto meglio un altro tipo di disegnatore.
EliminaStoria eccezionale, comunque.