Curiosa opera del 1920, qui
riproposta in una versione “restaurata” (il reintegro di due tavole censurate) di
una versione del ’26. Definita nella bandella come nientemeno che anticipatrice
“della” (sic) graphic novel, è effettivamente una sorta di Thomas Ott
con 70 anni di anticipo: una serie di xilografie mute che poste una di fila
all’altra costituiscono una storia per immagini. Ma visto che si tratta di
vignettone uniche per ogni pagina c’è senz’altro un’affinità col terribile Poema a Fumetti di Buzzati, al cui
confronto Libro d’Ore risulta molto
più coinvolgente e interessante.
Un uomo arriva in città. Dopo un
primo impatto esplorativo con la modernità di inizio secolo, si lascia
travolgere dai piaceri che gli offre. Non disdegna però nemmeno gli ozi e le
piacevolezze della campagna. Ma non tutto è rose e fiori. Un drammatico
episodio lo spinge ad allontanarsi dall’Europa. Di ritorno dal suo viaggio in
Africa e in Asia diverrà una vera peste, provocando il mondo borghese in cui
inizialmente sembrava volersi integrare e dileggiando le convenzioni sociali e
i miti e i riti tipici del suo tempo. Tornato nell’abbraccio della natura
(bucolica ma fauves) muore.
All’inizio ci rimane male, o forse vuole solo sfogarsi in modo liberatorio con
il mondo crudele, ma pure l’aldilà ha il suo fascino.
Trattandosi di xilografie lo
stile è molto contrastato e per nulla sfumato. La peculiarità di questa tecnica
potrebbe far pensare che sia stata d’aiuto alla stampa, in realtà i monogrammi smangiucchiati
dell’autore che affiorano in molte tavole fanno capire come la resa non sia poi
così buona, probabilmente per il fisiologico logorarsi delle matrici e
sicuramente per l’uso della riproduzione digitale.
Stilisticamente Frans Masereel
ricorda l’Espressionismo, ma non mancano certe derive fauves e influssi dell’Art
Nègre, forse a seguire le suggestioni degli Impressionisti. Ma alla fine
con torchio e legno non è che ci sia poi molta libertà di manovra. Più
interessanti risultano i rari inserti astratti decisamente in anticipo sui
tempi.
L’edizione di riferimento è
quella tedesca del 1926, che per l’epoca vendette tantissimo (15.000 copie)
probabilmente anche grazie all’introduzione di Thomas Mann. Ahinoi, questa introduzione è terribilmente lunga,
irritante e autoreferenziale. Mann anticipa inoltre di parecchi decenni
l’idiozia di paragonare il fumetto al cinema, e fa pure degli spoiler. E la sua
intuizione sulla riconoscibilità del protagonista (unico senza cappello) non trova
in realtà sempre corrispondenza nelle tavole.
Per fortuna l’appendice a cura di
Luca Sanfilippo sopperisce al compiacimento centrifugo di Mann, fornendo quelle
informazioni sull’opera (e sull’autore) che sono utili a contestualizzarla e ad
apprezzarla.
Non avendo Libro d’Ore la stessa immediatezza e godibilità di altri protofumetti
come Max und Moritz
si segnala più che altro come curiosità per i filologi del fumetto e per gli
appassionati d’arte d’inizio secolo. Il libro viene venduto con una piccola stampa
(l’autoritratto dell’autore?) custodita in una busta di pergamena incollata in
terza di copertina.
Mi fa piacere che tu sottolinei con la matita rossa la declinazione al femminile di graphic novel e che parli di "idiozia" a proposito di fumetto e cinema. Non sono l'unico a pensarla così!
RispondiEliminagià il concetto di "graphic novel" mi sembra alquanto fumoso e impreciso... sulle parentele tra cinema e fumetto per fortuna sono anni che non ne vedo più molte tracce. Nello specifico di questo volume, Thomas Mann le tira in ballo per far vedere quanto è figo visto che è stato selezionato per un campione di intervistati da una rivista sul cinema (eh, sì, ne esistevano già nel 1926).
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