Alla fine alla mia edicola di
fiducia non è mai arrivato e ho dovuto procurarmelo altrove… spero vivamente
che non sia il presagio di un embargo da parte della Mondadori, stamattina non
ho trovato nemmeno il nuovo Historica
Biografie, che ogni tanto arriva di giovedì.
Le spie di Cambridge è una sorta di spin-off de I cosacchi di Hitler,
non ne è proprio un seguito perché usa alcuni riferimenti all’altro volume solo
come introduzione a una storia realmente accaduta – anche se uno dei
protagonisti ha la faccia di Cary Grant e un altro quella di Jorge Luis Borges.
Nell’intermezzo tra le due Guerre
Mondiali cinque studenti dell’esclusivo college inglese abbracciano gli ideali
del Comunismo e accarezzano l’idea di sostenere la Russia: un po’ per reazione
alla politica inglese, un po’ per il terrore sollevato dalle dittature
fasciste, un po’ perché alcuni hanno toccato con mano la miseria del modello
del capitalismo occidentale, un po’ per il fascino che esercitano su di loro
certe frequentazioni ma anche per reazione a una società che li disprezza: la
maggior parte di loro sono omosessuali in un periodo in cui la cosa era un
reato in Inghilterra.
La vicenda prende le mosse quando
due personaggi satellitari de I cosacchi
di Hitler vanno a intervistare l’ultimo sopravvissuto dei cinque, Anthony
Blunt, con un espediente classico della narrativa che apre a svariati flashback e salti temporali, con un
narratore onnisciente che tiene le file della storia. Blunt racconta quindi
come fossero diventati delle spie per la Russia, con destini (e livelli di
disincanto) diversi.
Nonostante il titolo originale
fosse Les Cinq de Cambridge i
protagonisti sono principalmente tre, e le loro vicende si intersecano con
quelle della Storia sino a poco prima della caduta del muro di Berlino. Data la
natura della storia, la narrazione è frammentaria e un pochino didascalica,
senza molto spazio per l’azione né per i dialoghi brillanti che comunque
affiorano qua e là. Di vero pathos ne ho trovato solo alla fine. Trattandosi
poi di una storia di spie non è sempre facile raccapezzarsi tra la serie di
nomi veri e falsi con cui agiscono i personaggi e i loro interlocutori, che
spesso cambiano ufficio o mansione, se non proprio barricata.
Il fumetto è comunque molto
interessante perché mette in luce aspetti curiosi e a me poco noti dei rapporti
internazionali europei prima e durante lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale
e offre un ritratto molto pittoresco (ma non dubito che sia realistico) di
Stalin.
Olivier Neuray sfoggia anche
stavolta una ligne claire glamour,
forse più adatta a questo contesto rispetto a I cosacchi di Hitler visto che come dicevo non ci sono molte scene
d’azione e anche se i personaggi sono imbalsamati non è un problema se si
limitano a parlare o a camminare. A dire il vero, si nota quanto Neuray si sia
sforzato di far recitare i personaggi, usando molto sapientemente le loro
posture (evidentemente ispirandosi a fotografie) ma questo sottolinea
impietosamente le anatomie improvvisate, soprattutto nei profili, quando invece
ha lavorato senza riferimenti. E poi usa troppo, troppo, troppo computer. Le
immagini copiaincollate da un archivio di suoi disegni risultano dei corpi
estranei, rimpicciolite come sono sugli sfondi. E al contrario certi primi
piani hanno i contorni troppo marcati, come se fossero ingrandimenti di disegni
più piccoli. È uno stile che andrebbe bene per le pubblicità su una rivista
d’alta moda o per un fumetto sperimentale ma non per il genere realistico. E
sempre parlando di computer… già è fastidioso (perché risultano finti e
artefatti) che i cecchini tedeschi di pagina 87 siano lo stesso identico
soldato copiato pari pari nella stessa vignetta, così come sono irreali gli
aerei tutti uguali a pagina 80, però posso capire che per un disegnatore sia una
gran rottura di palle disegnare i dettagli di una divisa o di un mezzo
militare. Ma è mai possibile che Neuray abbia dovuto ricorrere al digitale
anche per ricopiare le pieghe sulle tendine delle finestre all’interno dei bar?
E addirittura per le gambe di Blunt seduto al centro di pagina 91! Questo senso
di artificialità non dà fastidio nelle architetture, ma in tutti gli altri casi
è un pugno nell’occhio.
I colori sono opera di Dominique
Osuch e si sposano molto bene con i disegni. Dopo la requisitoria di cui sopra
potrebbe sembrare un insulto o un appunto ironico, invece voglio dire che
integra bene con le sue tinte i disegni freddini di Neuray.
Le spie di Cambridge non è male, ma della coppia Lemaire-Neuray
avevo preferito I cosacchi di Hitler.
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