giovedì 12 dicembre 2019

Historica 86: Le spie di Cambridge

Alla fine alla mia edicola di fiducia non è mai arrivato e ho dovuto procurarmelo altrove… spero vivamente che non sia il presagio di un embargo da parte della Mondadori, stamattina non ho trovato nemmeno il nuovo Historica Biografie, che ogni tanto arriva di giovedì.
Le spie di Cambridge è una sorta di spin-off de I cosacchi di Hitler, non ne è proprio un seguito perché usa alcuni riferimenti all’altro volume solo come introduzione a una storia realmente accaduta – anche se uno dei protagonisti ha la faccia di Cary Grant e un altro quella di Jorge Luis Borges.
Nell’intermezzo tra le due Guerre Mondiali cinque studenti dell’esclusivo college inglese abbracciano gli ideali del Comunismo e accarezzano l’idea di sostenere la Russia: un po’ per reazione alla politica inglese, un po’ per il terrore sollevato dalle dittature fasciste, un po’ perché alcuni hanno toccato con mano la miseria del modello del capitalismo occidentale, un po’ per il fascino che esercitano su di loro certe frequentazioni ma anche per reazione a una società che li disprezza: la maggior parte di loro sono omosessuali in un periodo in cui la cosa era un reato in Inghilterra.
La vicenda prende le mosse quando due personaggi satellitari de I cosacchi di Hitler vanno a intervistare l’ultimo sopravvissuto dei cinque, Anthony Blunt, con un espediente classico della narrativa che apre a svariati flashback e salti temporali, con un narratore onnisciente che tiene le file della storia. Blunt racconta quindi come fossero diventati delle spie per la Russia, con destini (e livelli di disincanto) diversi.
Nonostante il titolo originale fosse Les Cinq de Cambridge i protagonisti sono principalmente tre, e le loro vicende si intersecano con quelle della Storia sino a poco prima della caduta del muro di Berlino. Data la natura della storia, la narrazione è frammentaria e un pochino didascalica, senza molto spazio per l’azione né per i dialoghi brillanti che comunque affiorano qua e là. Di vero pathos ne ho trovato solo alla fine. Trattandosi poi di una storia di spie non è sempre facile raccapezzarsi tra la serie di nomi veri e falsi con cui agiscono i personaggi e i loro interlocutori, che spesso cambiano ufficio o mansione, se non proprio barricata.
Il fumetto è comunque molto interessante perché mette in luce aspetti curiosi e a me poco noti dei rapporti internazionali europei prima e durante lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e offre un ritratto molto pittoresco (ma non dubito che sia realistico) di Stalin.
Olivier Neuray sfoggia anche stavolta una ligne claire glamour, forse più adatta a questo contesto rispetto a I cosacchi di Hitler visto che come dicevo non ci sono molte scene d’azione e anche se i personaggi sono imbalsamati non è un problema se si limitano a parlare o a camminare. A dire il vero, si nota quanto Neuray si sia sforzato di far recitare i personaggi, usando molto sapientemente le loro posture (evidentemente ispirandosi a fotografie) ma questo sottolinea impietosamente le anatomie improvvisate, soprattutto nei profili, quando invece ha lavorato senza riferimenti. E poi usa troppo, troppo, troppo computer. Le immagini copiaincollate da un archivio di suoi disegni risultano dei corpi estranei, rimpicciolite come sono sugli sfondi. E al contrario certi primi piani hanno i contorni troppo marcati, come se fossero ingrandimenti di disegni più piccoli. È uno stile che andrebbe bene per le pubblicità su una rivista d’alta moda o per un fumetto sperimentale ma non per il genere realistico. E sempre parlando di computer… già è fastidioso (perché risultano finti e artefatti) che i cecchini tedeschi di pagina 87 siano lo stesso identico soldato copiato pari pari nella stessa vignetta, così come sono irreali gli aerei tutti uguali a pagina 80, però posso capire che per un disegnatore sia una gran rottura di palle disegnare i dettagli di una divisa o di un mezzo militare. Ma è mai possibile che Neuray abbia dovuto ricorrere al digitale anche per ricopiare le pieghe sulle tendine delle finestre all’interno dei bar? E addirittura per le gambe di Blunt seduto al centro di pagina 91! Questo senso di artificialità non dà fastidio nelle architetture, ma in tutti gli altri casi è un pugno nell’occhio.
I colori sono opera di Dominique Osuch e si sposano molto bene con i disegni. Dopo la requisitoria di cui sopra potrebbe sembrare un insulto o un appunto ironico, invece voglio dire che integra bene con le sue tinte i disegni freddini di Neuray.
Le spie di Cambridge non è male, ma della coppia Lemaire-Neuray avevo preferito I cosacchi di Hitler.

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