Dietro una copertina un po’
incongrua di Gloria Pizzilli si celano tre storie piuttosto particolari.
Nella prima, Dì ciao, scritta e
disegnata “al neon” da Piero Dall’Agnol, Dylan Dog si muove in alcune sequenze
di film un po’ modificati ma perfettamente riconoscibili, con l’occasionale
apparizione di un volto misterioso. La spiegazione di questo delirio è la
soluzione classica a cui storicamente ricorrono gli scrittori quando non sanno
trovare una “vera” spiegazione, e qui questo meccanismo viene anche duplicato,
cosa già vista in molti altri contesti e probabilmente anche in Dylan Dog. Anche se il motivo principale
di interesse di questa storia è la parte grafica, inizialmente si rimane un
pochino delusi ma tutto sommato una volta metabolizzato il tutto non è stata affatto
una brutta lettura, considerati anche i dialoghi simpatici e le situazioni surreali
in cui è calato Dylan Dog.
La seconda storia breve è ancora
più strana: in Welcome to the Jungle
il cast della serie è trasfigurato in versione animale! Si tratta
principalmente di una storia muta, niente affatto disneyana ma anzi piuttosto
violenta, in cui alla fine viene svelato il motivo di questa “mutazione”. In
realtà non viene spiegato per esteso ma lo si intuisce, e non ci vuole tanto
per farlo. I disegni stilizzati di Yang Yi mi sembrano più adatti a un libro
per bambini che non a un fumetto realistico, per quanto trasognato come in
questo caso. Ben tre autori (Isaak Friedl, Luca Leo e Marco Nucci) hanno
elaborato soggetto e sceneggiatura.
Alessandro Baggi in Brokedown Palace si muove invece in
territori più canonici: è la classica storia in cui Dylan Dog riflette su se
stesso, anche se con un’indagine di mezzo, e riepiloga un po’ la sua essenza.
Data la struttura, il fumetto assomiglia più a un racconto illustrato, cosa che
il bravissimo Baggi si può sicuramente permettere data la sua maestria nel
disegno e nel colore, già dimostrata proprio sulle pagine di questa collana.
Però in questo frangente ho notato una certa disarmonia tra alcune vignette non
perfettamente amalgamate tra loro: le ottime immagini dipinte convivono con
disegni realizzati al tratto e colorati successivamente, e lo stacco si nota.
Anche questa storia si conclude con un ribaltamento di prospettiva, ma anche
questa si gusta di più per la bellezza grafica che per l’originalità del
soggetto, per quanto sia sicuramente la più densa delle tre.
Rimango dell’idea che la carta
patinata sarebbe molto più adatta a valorizzare i disegni e soprattutto i
colori, tranne forse nel caso di Dì Ciao
in cui la porosità contribuisce all’effetto di evanescenza che (immagino)
Dall’Agnol voleva trasmettere in alcune vignette.
In definitiva questo Color Fest è
una raccolta di storie interlocutorie (sicuramente consapevolmente progettate
per esserlo) che una volta “digerite” non faranno pentire chi ha comprato
l’albo.
Ti dai ai Bonelli in maniera massiccia, ultimamente :D
RispondiEliminaIn effetti la necessità di stare sul pezzo il più possibile hanno portato a due post Bonelli consecutivi. Per Stalin aspetto domani.
EliminaVedo che sul Color Fest si divertono spesso a sperimentare e ad osare :) Vediamo se lo recupero!
RispondiEliminaSe non sbaglio alternano numeri antologici con altri "regolari" (ma colorati). Solo i primi ovviamente sono sperimentali, con risultati alterni.
EliminaE comunque è San Valentino, la serata avreste dovuto passarla con le vostre signore, non a leggere il mio blog!