sabato 30 agosto 2025

Cosmopirati 1: I Prigionieri dell'Oblio

Tra brutte sorprese e commenti francesi piuttosto tiepidi non mi sarebbe dispiaciuto che questo volume avesse ritardato ancora un po’, o magari non fosse proprio uscito. E invece eccolo qua.

Xar-Cero è un guerriero formidabile che nelle arene spaziali affronta i mostri più letali. Conoscendo Jodorowsky è probabile che il suo nome sia un gioco di parole, non ho capito se con “carcel” (prigione in spagnolo) o con “cero”, cioè zero, a sottolineare la sua unicità. Comunque sia, guerriero formidabile, dicevo: tanto che i Magnobanchieri che controllano l’universo a suon di Acquadollari lo rapiscono per affidargli una missione: dovrà dare una lezione a un pianeta insolvente – che ha anche il vizio di cambiare nome da Samppa a Sammpa da una pagina all’altra. Giunto sul posto gli basta attivare una micidiale macchina di morte che lo sterminio dei 100 miliardi di abitanti è bello che fatto. Mi sono chiesto quindi perché diavolo mandare proprio lui (oltretutto pagandolo) a compiere una missione semplicissima, ma i Magnobanchieri avevano (anche) un altro piano: vogliono fare di Xar-Cero l’ottavo dei loro e per questo con un elisir portano la sua aspettativa di vita a 30.000 anni e gli riprogrammano il cervello facendolo diventare un medico. Veramente imperscrutabili, le vie dei Magnobanchieri.

Con la nuova identità del dottor Zang (o Dzang, a leggere le insegne del suo ambulatorio rimaste in francese) vive una felice esistenza in un pianeta poco più evoluto del medio evo, ammirato dai suoi compaesani e adorato dalla figlia adottiva. È proprio lei a rinvenire un corpo nel lago dove si stava lavando: si tratta di un terrorista che ha guidato un attacco suicida contro una delle astronavi dei Magnobanchieri ma all’ultimo momento è stato colto dalla paura. C’è poco da discutere con la polizia protobancaria: visto che Zang ha ospitato e curato l’uomo, anche lui passa per terrorista e sarà giudicato come tale. La smania di profitto, o forse qualche altra trama che verrà svelata in seguito, porta a commutare la pena di morte in vendita al mercato degli schiavi.

Ecco quindi che i due vengono regalati alla nipote dal tiranno di un intero pianeta. A Zang viene risparmiata la miniera ma comunque la sua vita di stalliere non è affatto piacevole, per quanto la succitata nipote cerchi un contatto con lui riconoscendone le abilità mediche. Un tentativo di fuga sventato prelude a funeste conseguenze se non fosse che proprio in quel frangente i cosmopirati del titolo fanno finalmente la loro apparizione mettendo a ferro e a fuoco il pianeta. Zang e compagnia ne approfittano per fuggire e rubando la nave dei cosmopirati lo diventano a loro volta. Questa almeno la mia interpretazione.

Orbene: Xar-Cero/Zang sa di aver subìto una rimozione della memoria, ma come potrà recuperarla? La soluzione è sfregarsi una tartaruga dorata sulla nuca e guarda caso dovrebbe essercene una in un asteroide diviso in due parti, una soleggiata e l’altra perennemente in ombra. La visita dai ragni ematofagi si rivela infruttuosa: le tartarughe che hanno loro non sono del tipo giusto. Quindi il nostro eroe dovrà andare a recuperare l’unico esemplare nel tempio dei monaci che risiedono nella parte luminosa, che la custodiscono e la venerano. Zang supera la prova per avere udienza con la bestiola e torna a essere Xar-Cero, massacra i monaci e parte verso nuove avventure insieme alla tartaruga che si unisce al gruppo perché la vita da divinità le era venuta a noia.

Insomma, azione e trovate inventive non mancano certo in queste 66 pagine. Negli Stati Uniti (e non solo là) con tutto questo materiale ci avrebbero fatto una serie di 12 episodi. La carne messa sul fuoco è tantissima, pur se non proprio originalissima, e forse i cambi di scena sono anche troppo repentini, ma di sicuro non ci si annoia e tra gli elementi surreali messi in campo da Jodorowsky ce n’è qualcuno che mi ha fatto sorridere. In quest’epoca cupa per il fumetto come lo intendo io direi che è un buon viatico per l’acquisto del prossimo conclusivo volume. Sempre che non me lo annuncino a 22 euro per poi venderlo a 25.

Pete Woods ha un tratto troppo pulito e schematico per suscitare grandi entusiasmi, le sue tavole trasmettono una sensazione di sintetica artificialità. In appendice viene presentata una selezione di sketch (dove viene chiamato Peter Woods) che mostrano il suo processo creativo nell’elaborare le tavole e gli studi fatti per i costumi, le astronavi e le ambientazioni.

Potrebbe essere solo una mia impressione, ma non escludo che per arruffianarsi il mercato statunitense a cui guardano oggidì gli Umanoidi (anche perché quello francese se lo sono nuovamente giocato) qualche scena sia stata ammorbidita: la violenza non è così esplosiva come ci si aspetterebbe da Jodorowsky e le pulzelle fanno il bagno vestite solo su Tex.

Curiosa la scelta della traduttrice Francesca Giulia La Rosa di lasciare anche in italiano la forma di cortesia francese col desueto (in Italia) “voi”. All’inizio stona un po’ ma poi crea un simpatico contrasto con la truculenza di alcune sequenze.

giovedì 28 agosto 2025

Batman: Luna Piena

Un licantropo scorrazza a Gotham City mietendo vittime. È un soldato che è stato infettato durante una missione in Romania. Eh, sì: missioni di guerra statunitensi in Romania! Ha cercato un rimedio alla sua condizione in un’industria farmaceutica di John Wayne e non trovandola ha devastato il laboratorio, finendo poi in un ricovero per derelitti nei bassifondi, dove la fede dei caritatevoli non basta a calmarlo. Batman indaga insieme al vampiro Langstrom, a Zatanna e a John Constantine. Il problema è che viene infettato pure lui, e a quanto pare alla licantropia non c’è una cura né magica né medica.

La storia è molto lineare e viene risolta con estrema semplicità ma Rodney Barnes scrive dei bei dialoghi e ha delle trovate abbastanza simpatiche. Queste però sono controbilanciate da riferimenti per me ascosi all’universo DC: Langstrom, chi era costui? E da quando Bruce Wayne e Zatanna escono insieme? La sua stucchevole e ingenua rappresentazione dell’Europa dell’est fa poi il paio con quella dello Stan Lee anni ’60.

I disegni di Stevan Subic mi hanno lasciato perplesso. Un po’ Zezelj, un po’ McKean, un po’ Andrea Sorrentino, un po’ Bisley, un po’ Sienkiewicz, forse un po’ Corben, prende in prestito elementi o suggestioni da tutti questi disegnatori (e chissà quanti altri) ma alla fine risulta freddo e impersonale. Oddio, “impersonale”; un paio di marchi stilistici li ha: i volti tanto gonfi da risultare ridicoli e gli occhi troppo ravvicinati nei visi femminili. E al di là di questo, alcune immagini di Zatanna sembrano un inno alla body positivity. Non credo che con un altro disegnatore Luna Piena sarebbe diventato un capolavoro, ma con Subic alla tavoletta grafica dalla lettura passabile che poteva essere è diventato un lavoro riuscito a metà.



martedì 26 agosto 2025

La sfinge nera e altre storie antiche

Nuovo e consistente recupero filologico del grande De Luca che riprende alcune delle sue primissime opere. Vengono antologizzati 11 fumetti un po’ sulla falsariga di quanto già fatto da Nicola Pesce Editore con Dino Battaglia.

Praticamente nessuna di queste storie resiste alla prova del tempo a livello di stile di scrittura e a volte anche di soggetto, tranne forse l’ultima. Del resto parliamo di racconti edificanti che solitamente riprendono storie bibliche o leggende varie piegandole alle necessità divulgative ed ecumeniche delle testate cattoliche in cui apparvero.

Oltre al prolifico Raoul Traverso in arte Roudolph che ne firma la maggior parte, le restanti sono scritte da Danilo Forina, Renata Gelardini (citata anche come Gelardini De Barba nel rispetto dello stato civile e soprattutto della firma originale) e Attilio Monge in ragione di due a testa. Anonimo invece lo sceneggiatore de L’ultima Atlantide, forse a causa della sua lunga e travagliata realizzazione.

Leggere buona parte di questi fumetti è uno stillicidio. La lingua usata da Forina e Traverso risulta oggi desueta (d’altra parte s’era a cavallo degli anni ’40 e ’50) e se leggere «orgasmo» per intendere la frenesia può suscitare un sorriso, spesso sono dovuto andare un po’ a intuito per capire cosa volessero significare gli sceneggiatori (la Gelardini usava «bruttare» invece di sporcare), anche perché le immagini non aiutano molto: il testo è sovrabbondante e spesso riassume sequenze che si svolgono fuori scena. La presentazione delle storie in maniera organica senza la precedente serializzazione rende poi evidenti certi cambi di rotta imprevisti o rattoppi improvvisati: mi è venuto il dubbio che tra le pagine 145 e 146 ne fosse saltata una, visto che viene risposto a una domanda che non era stata fatta nella tavola precedente. Le trame si risolvono quasi sempre con un deus ex machina. In senso letterale, perché è il Dio cristiano a risolvere le situazioni, indifferentemente che le storie siano ambientate nell’antico Egitto, nello Yemen o tra i fiordi vichinghi. E anche quando sarebbe anacronistico immaginarlo, come nell’antica Etruria o ad Atlantide, si avverte comunque il suo zampino.

Anche De Luca però ci mise del suo: aveva il vezzo di inserire le didascalie che segnalano uno stacco o introducono una nuova scena in calce alle vignette e non in alto a sinistra come logica vorrebbe. In questa maniera si crea uno sfasamento temporale per cui il lettore vede una scena prima di “leggerla”, facendo sfumare suspense e sorpresa. Scellerata poi la sua scelta di colorare anche le zone preposte alle didascalie e ai dialoghi (che già di per sé sono degli ineleganti rettangoli posti ai margini delle vignette, quasi a vergognarsi di far fumetti), rendendo di fatto un’impresa ardua decrittare cosa c’è scritto in nero nelle campiture rosse. D’altro canto osservando le tavole originali in bianco e nero ci si accorge di quanto questa scelta fosse probabilmente dettata anche dall’occasionale incapacità di De Luca di contenere tutto il testo dove sarebbe dovuto stare: un colore uniforme forniva una guida per seguire il testo anche se debordava dalle vignette o finiva in quelle sottostanti. Al massimo il fascino di queste storie si può trovare nel confronto tra Il cantico dell’arco e I due amici, che raccontano entrambe la storia di re David.

Poco importa: se in tutta la storia dell’umanità è mai esistito qualcuno che si è avvicinato ai fumetti di De Luca per i testi, non sono certo io.

Come prevedibile dalle date di realizzazione di queste opere e come giustamente anticipato anche nell’introduzione, questo volume permette di vedere concretamente come lo stile di De Luca si sia evoluto nel corso degli anni. È incredibile come già nel 1947, praticamente ventenne, con Nel regno di Kamrasi dimostrasse una straordinaria maturità a livello di composizione, anatomia, espressività, ricchezza di sfondi e dettagli. Ma si trattava di uno stile ancora debitore ai Maestri delle strisce sindacate, e forse memore di alcuni poster o copertine o illustrazioni dell’epoca. Sarà con I due amici del 1955 che comincerà a prendere forma la sua inchiostrazione fluida e decisa integrata da ragionati dettagli. Qui “ragionati” a maggior ragione perché De Luca lesina sul tratteggio e sui neri, probabilmente confidando di riempire poi le tavole con il colore, ma già con la successiva L’ebreo errante (sempre del 1955 e sempre da Il Giornalino) sfoggia uno stile ricco di pennellate, dettagli e profonde campiture a creare volumi e drammaticità. Le sequenze della tempesta marina sono spettacolari e il completamento amodale della croce di Gesù è una raffinatezza aggiuntiva.

Con L’ultima Atlantide giungiamo alla maturità definitiva di De Luca. Ed è un po’ un mistero, perché questa storia che nel 1967 segnò il ritorno dell’autore al fumetto venne realizzata a blocchi a distanza di parecchi anni (quasi 10) ma, come rilevato nell’introduzione, non si percepisce alcuno stacco stilistico tra le tavole. Qui finalmente De Luca esplode: pointillisme, dinamismo, architetture stupefacenti, estrema espressività, chiaroscuro, inquadrature dinamiche... E finalmente i balloon sono tali e non cornici delle vignette.

Purtroppo l’eterogeneità dei formati su cui videro la luce queste opere, in particolare quelle transitate su Il Vittorioso fino al 1950, avrebbe reso necessario in alcuni casi un formato più grande per goderne appieno essendo la diagonale posta molto in basso facendone quindi quasi delle tavole quadrate (una tavola doppia di Prora vichinga è stata riprodotta direttamente in verticale spostandola di 90 gradi). Ma d’altra parte per altri fumetti il formato è adattissimo e non si poteva certo togliere l’uniformità tipografica della collana, comune alle altre di Nicola Pesce Editore.

Il volume si apre con una introduzione a cura di Pier Giuseppe Barbero, che riesce a non spoilerare troppo e soprattutto fornisce degli interessanti retroscena. Dai crediti che introducono i singoli fumetti evinciamo inoltre che Barbero è l’unico essere umano in grado di realizzare delle scansioni perfettamente riproducibili a partire dal materiale stampato e non dagli originali. Addolora dirlo, ma invece Paolo Altibrandi che ha potuto effettuare le scansioni dagli originali messi a disposizione da Laura De Luca non è sempre riuscito a fare un lavoro paragonabile al suo, per quanto dignitoso (e a volte quasi perfetto, a onor del vero).

sabato 23 agosto 2025

Dylan Dog/Batman: L'Ombra del Pipistrello

Ristampa deluxe della miniserie uscita qualche anno fa. Un crossover improbabile si rivela quantomeno divertente.

Joker riceve un invito da parte del dottor Xabaras, con cui aveva già avuto importanti contatti anni prima, se ho ben capito proprio in concomitanza con il numero 1 di Dylan Dog. L’arcinemico di Dylan Dog vuole una sua consulenza sull’opportunità di creare tramite le tossine del suo veleno degli zombi che non siano degli automi decerebrati. Groucho e Catwoman ne fanno le spese.

Poi però la storia prende un’altra direzione e scopriamo che Joker vuole riportare in vita Christopher Killex: dopo aver verificato che in effetti la sua anima non è più all’inferno Dylan Dog parte alla volta di Gotham City dove effettivamente sta agendo un serial killer con le stesse modalità. E per fermarlo l’Indagatore dell’Incubo viene assunto dal Joker! La risoluzione del caso mi sembra ben congegnata, anche se ho avvertito un calo di tono quando Dylan Dog avanza il sospetto che questa storia non si sia svolta davvero.

La continuity e il cast dei due eroi si intrecciano e Recchioni padroneggia una conoscenza approfondita di entrambi. Forse dimostra questa conoscenza con eccessiva ostentazione: non che sia così fondamentale per la trama, ma un lettore di Dylan Dog saprà chi è Killer Croc? Può darsi che John Constantine sia noto a un lettore bonelliano per il film con Keanu Reeves, ma dubito che Jason Blood/Demon lo sia. E il personaggio attorno cui ruota buona parte della vicenda, Killex, sarà pure importante nella cosmologia dylaniana, ma francamente non lo conoscevo. Anche se come bignami delle vite dei due protagonisti può funzionare, probabilmente L’Ombra del Pipistrello è stata immaginata più come una serie di strizzatine d’occhio ai fan dei due personaggi piuttosto che come punto d’ingresso per chi ancora li conosce solo di fama. Nel primo caso c’è di che essere comunque soddisfatti per la sagacia di molte battute (gustoso il fraseggio del primo incontro tra i due) e le derive divertenti di alcune sequenze. E incredibilmente l’interazione tra i protagonisti e i rispettivi comprimari ha effettivamente una sua logica cristallina.

I disegni di Cavenago e Dell’Edera (che tra l’altro non sono stato in grado di distinguere l’uno dall’altro: forse uno avrà fatto le matite e l’altro le chine?) non mi hanno convinto, troppo spigolosi e stilizzati. E non è che le sequenze d’azione beneficino molto di questa anemica sintesi. Fortunatamente i colori di Giovanna Niro e Laura Ciondolini arricchiscono molto le tavole.

Questa edizione deluxe (che ha una copertina appositamente realizzata da Carmine Di Giandomenico e una breve introduzione di Luca Del Savio) presenta in appendice una breve art gallery dedicata principalmente alle varie copertine, a una delle quali ha collaborato Emiliano Mammucari. Pur con la sua consueta spigolosa sintesi Cavenago si fa apprezzare per la spumeggiante esuberanza del colore.

mercoledì 20 agosto 2025

Love and Rockets Collection 6 - Palomar 1: Una Zuppa per il Crepacuore

Ho procrastinato il più a lungo possibile la lettura di questo volume perché temevo che fosse pesante. Avevo ragione.

In teoria Una Zuppa per il Crepacuore ruoterebbe attorno alla nuova bañadora giunta al sottosviluppato paesello centramericano di Palomar ma la storia si sfilaccia lungo una pletora di sottotrame e personaggi satellitari che vivono le loro vicende, spesso inconcludenti, e occasionalmente si incrociano. Lo stesso Beto Hernandez introducendo il secondo episodio sembra non raccapezzarcisi più di tanto con quello che è successo nella prima tranche della storia che dà il titolo al volume. L’unico trait d’union potrebbe essere la zuppa che viene servita per indurire il cuore degli innamorati delusi e aiutarli a sopravvivere alle loro illusioni (ma sono solo due, però). Suggestiva la scena finale, con l’unico personaggio un po’ a bolla che vede i fantasmi di quanti sono morti in questa cinquantina di tavole. Che calvario, però, arrivarci.

A seguire, un’alternanza di storie brevi e di altri cicli più articolati che però non raggiungono la complessità e la lunghezza di Una Zuppa per il Crepacuore – e meno male, direi. Alcune delle brevi le ricordo pubblicate su Comic Art, tranne ovviamente quelle che Beto Hernandez ha realizzato vent’anni dopo la pubblicazione originale. La riproposizione in volume (in questo volume, almeno) non segue infatti un criterio scrupolosamente cronologico e storie dei primi anni ’80 possono dialogare con altre dei primi 2000, arrivando a generare qualche incongruenza: in occasione di Toco (2002) Beto ha resuscitato il personaggio omonimo morto nella Zuppa, della cui dipartita si era invece ricordato in una storia del 1985 che viene pubblicata tra le ultime qui raccolte.

L’autore scrive in maniera sincopata, con lunghe ellissi che vanno riempite dal lettore e di cui si capiscono certi dettagli solo ex post, vedi ad esempio l’ascesa sociale di Luba a Palomar o il progressivo figliare dei vari personaggi. Alcuni personaggi crescono, partono, maturano mentre altri sembrano vivere in un eterno presente. Lo scorrere degli eventi potrebbe anche avere una sua logica ma è inutile perderci tempo e fatica per raccapezzarcisi.

Anche se la bañadora maggiorata Luba in seguito godrà di un ampio approfondimento, Palomar è una serie corale con una forte continuity. L’impressione è che Beto piazzasse dei tasselli di un mosaico di cui forse nemmeno lui sapeva quale forma avrebbe avuto alla fine, sospeso tra telenovelas, umorismo, allusioni sessuali, blando terzomondismo e ancor più blando realismo magico. Probabilmente la lettura scaglionata su rivista sortiva un effetto diverso e la sovrabbondanza di testo sopperiva alla brevità di alcune storie, ma sul lungo termine rende ostica e ridondante l’esperienza dell’approccio integrale. Le pesanti pagine iniziali “numerate” con lettere per introdurre personaggi e ambientazione (fatte apposta per l’occasione, immagino) non fanno che confondere ancora di più. Beto chiede al lettore una grande attenzione per districarsi tra tutti questi personaggi ma grazie a dio gli fa la cortesia di rendere facilmente identificabili i singoli protagonisti, persino le donne (cosa difficile nei fumetti), anche a costo di scadere nel caricaturale visto che all’epoca, la serie è iniziata nel 1983, le sue doti grafiche erano ancora meno sviluppate di quanto si vedrà in seguito.

Fortunatamente in corso d’opera Beto Hernandez imparerà a calibrare meglio testi e silenzi, a giocare con le forme, a creare ritmi all’interno delle tavole, ad accostare vignette in maniera drammatica, a calibrare i bianchi e i neri. Ma la sua maturità di storyteller si intravedrà solo dopo circa 200 pagine delle 287 che costituiscono questo volume – e si intravedrà soltanto, perché ci saranno ancora troppe didascalie e troppa attenzione a particolari che secondo me non necessitavano di essere sviluppati. In ogni caso non possiamo goderci dei disegni altrettanto belli quanto quelli di suo fratello Jaime.

È chiaro che a Beto si deve dare tutta la clemenza affettuosa che si riserva all’esordiente, e anche suo fratello non aveva certo brillato con Mechan-X, ma Una Zuppa per il Crepacuore resta una lettura complicata pur con qualche battuta divertente che affiora qua e là. Probabilmente per apprezzarla al meglio andava seguita coi ritmi seriali dell’epoca, senza strafogarsi del volume nelle quattro o cinque sessioni in cui l’ho letto io.

domenica 17 agosto 2025

Dinodissea 1: Chi trova un amico...

Alla mancanza di novità nelle fumetterie agostane sopperisce #Logosedizioni con un altro gioiellino de I Fumetti della Ciopi.

Stavolta sono di scena i dinosauri: il pavido velociraptor Velox, terrorizzato dalle zanzare e per questo ostracizzato dai fratelli che lo incolpano della morte dei genitori, assiste a una pioggia di meteore e il giorno successivo incontra lo stegosauro Stego anch’egli incuriosito dal fenomeno. Due impietosi ratti (o quello che sono) spiegano loro che per i dinosauri si avvicina la fine e che quando altre palle di fuoco cadranno dal cielo i mammiferi si ripareranno nelle tane mentre per la loro specie sarà l’apocalisse. Un saggio anchilosauro (indovinate come si chiama? Sì, esatto: Anky) potrebbe saperne di più e quindi i due compagni si mettono in viaggio per trovarlo. Nel corso del tragitto faranno la conoscenza di altri dinosauri bizzarri e questa Compagnia dell’Anello cretacea arriverà a contare cinque elementi fissi più l’occasionale presenza dell’archeotterige Archy che svolge più che altro il ruolo del coro greco.

A differenza di quanto già visto in questa collana, Dinodissea è meno godibile per un adulto di altri fumetti. La storia procede più che altro per accumulo e solo nelle ultime delle canoniche 46 tavole di fumetto assistiamo a una sequenza articolata in cui i protagonisti hanno la meglio su Tiranna (come altro può chiamarsi una femmina di tyrannosaurus rex?). Inoltre Gaët’s, al secolo Gaëtan Petit, ricorre spesso a una bonaria comicità slapstick, dialoghi addomesticati e interpellazioni dirette al lettore: sicuramente una goduria per il pubblico più giovane ma meno soddisfacente per quello più maturo. Che però dal canto suo potrà almeno godersi gli splendidi disegni di Clotilde Goubely, caricaturali ma coloratissimi e dettagliati. Le tavole sembrano realizzate con gli acquerelli o le matite colorate, anche se è evidente e dichiarato l’uso del computer.

Un’appendice di otto pagine parla delle varie razze di dinosauri incontrati nella storia prendendo spunto dai protagonisti e dalle comparse. Dalle schede delle singole razze evinco che il loro incontro non sarebbe stato possibile per questioni geografiche e cronologiche, ma perdono facilmente questa licenza poetica, tanto più che il titolo originale francese mi pare un omaggio a Georges Brassens.

giovedì 14 agosto 2025

Il Dylan Dog di Tiziano Sclavi n. 31 - I Racconti di Domani 4: Varie ed eventuali

Come promesso nello scorso numero Dylan Dog torna in scena, in maniera un po’ originale riavvolgendo apparentemente il nastro della serie stessa e rivivendo (modificati) i primi passi che lo hanno portato da Safarà.

Nel primo racconto, Il Treno, un automobilista si trova invischiato in una situazione surreale, bloccato in una coda interminabile con una miriade di altre persone a causa di un passaggio a livello. Ma questo benedetto treno che tiene in ostaggio gli automobilisti passerà o non passerà? Finale prevedibile ma godibilissimo, valido sia per farsi una risata macabra che per azzardare qualche considerazione sulla vita.

Anche ne L’Elastico si sorride amaramente, chiedendosi magari se il valore della vita non sia sopravvalutato.

Diversa la struttura di Oltre l’Orizzonte, non più un apologo o una trovata estemporanea ma una vera storia articolata. Nel Messico precolombiano un giovane azteco vuole scoprire cosa si nasconde oltre l’orizzonte, cosa tabù per la sua religione. A malincuore la sua amata lo denuncia presso il sommo sacerdote per evitare che porti a compimento il suo proposito scellerato ma alla fine, nonostante i guerrieri lanciati al suo inseguimento siano innaturalmente veloci, scoprirà davvero cosa c’è (o meglio non c’è) là fuori, e il lettore con lui. Anche questo colpo di scena si è visto altrove, ma la curiosità che ha saputo accendere Sclavi e la frenesia con cui è raccontata la vicenda rendono la storia appassionante e piacevole.

Il soggetto de La Macchina del Tempo è intuibile dal titolo ma si tratta di una variazione sul tema molto originale, se non altro perché la vicenda è inserita in un contesto psicanalitico, e non solo concettualmente visto che la terapia ha degli effetti concreti nella realtà.

Molto simpatica la fulminante storiellina Porsche 356, da leggersi però preferibilmente a distanza non troppo ravvicinata rispetto al Color Fest 53.

Chiude il volumetto I Testimoni di…, simpatica e fulminante scenetta in cui l’identità dell’entità testimoniata dai due baldi giovanotti è lasciata alla fantasia del lettore.

Sergio Gerasi fa un ottimo lavoro, anche se bisogna un po’ farci l’occhio a questo stile non del tutto realistico. Una menzione particolare la merita il colorista Emiliano Tanzillo, che arricchisce molto le tavole con effetti digitali ben più efficaci di quelli con cui molti pasticciano di solito.

Nel complesso mi pare che questi Racconti di Domani siano i migliori letti finora, per quanto la lettura si esaurisca fisiologicamente in tempi molto rapidi. Quasi nessuna delle idee viste apparirà geniale a un lettore scafato ma Sclavi ha saputo infiorettarle tanto da renderle molto gustose.

mercoledì 13 agosto 2025

Era ora che ne facessero un volume

Inizialmente questo post avrebbe dovuto intitolarsi "Sarà la volta buona che lo vedremo senza censure?", ma dalla descrizione mi pare di capire che sarà la ristampa delle storie brevi in bianco e nero più un paio a colori del primo El Ficcionario e non di quello successivo fatto per la Francia.

lunedì 11 agosto 2025

DC Facsimile Edition: Wonder Woman (1942) 1

Mai avrei pensato di lamentarmi perché un editore ha usato la carta patinata, e invece… Magari è solo una mia fantasia, però credo che della cartaccia sarebbe stata più indicata per restituire l’impressione della newsprint originale e avrebbe anche reso i coloracci dell’epoca meno accesi di come compaiono in questa ristampa della Panini. Che poi sicuramente i colori saranno stati rifatti ma la loro “filosofia” è sempre quella, pensati per della carta che assorbendone i toni li avrebbe smorzati. Comunque per soli 3,50 euro non è il caso di lamentarsi più di tanto.

Sorpresa: io pensavo che Wonder Woman nascesse proprio con questo primo numero a lei dedicato, ma dagli editoriali apprendo che invece esordì su qualche testata antologica per poi essere promossa titolare di una testata sua.

Come capitava all’epoca il comic book di 64 pagine strabordava di fumetti e non solo.  Mi pare sia stato Warren Ellis a dire che con dieci cent ti compravi un albo grosso come la Bibbia, però è anche vero che queste testate erano bimestrali se non trimestrali come questa. La prima storia riassume le origini della protagonista. In 13 pagine Charles Moulton infila quello che Millar e Bendis avrebbero spalmato in una miniserie di sei numeri.

Segue poi una storia ambientata in un circo dove gli elefanti sono vittime di attentati, un whodunnit anche abbastanza intelligente perché vengono appositamente infilate false piste per deviare dal vero colpevole, la cui identità è quasi obbligatoria se filtrata attraverso gli occhi razzisti e nazionalisti dell’epoca. Wonder Woman e la sua amica Etta travestite da elefantino sprofondano però irrimediabilmente la storia nel ridicolo.

Alice Marble racconta una breve storia dedicata a una Wonder Woman del passato, in questo caso Florence Nightingale. Immagino sarebbe diventata una rubrica biografica (o agiografica se mantenne lo stesso tono di questo primo episodio) a fumetti fissa, inconsapevole anticipatrice delle varie collane 50 Donne che…

Dopo quest’interludio di 4 tavole si torna a Wonder Woman che deve vedersela con una spia nazista incarcerata che però riesce a trasmettere informazioni all’esterno, e che in realtà nella prigione vive di nascosto come un nababbo! (anzi nababba: sembrerebbe una nemica vecchia conoscenza dell’eroina) Il furto del lazo magico, che non solo costringe a dire la verità come ricordavo ma permette anche di far eseguire i propri ordini all’incatenato, aggiunge un po’ di pepe e umorismo. Anche se forse l’umorismo è involontario.

Si procede poi con un racconto in prosa a firma Jay Marr, uno di quelli che venivano inseriti nei comic book come scusa per mostrare che offrivano anche testi scritti e quindi beneficiare di non so quale sgravio fiscale o distributivo. Anche qui guerra e fantascienza.

Sosta umoristica di due pagine, forse strisce quotidiane rimontate, con Sweet Adeline – Canzoni senza Musica di Art Helfant. Mai coperto, segue le sfighe di una famiglia che si è trovata proprietaria di un albergo. Vagamente simpatico ma non proprio esilarante.

Gran finale con la quarta storia della titolare: dal piglio più consapevolmente umoristico, almeno all’inizio, ha come motore principale Etta Candy il cui fratello militare non meno tonto e grasso di lei fa un incidente in moto sbattendo la testa e rischiando quindi di veder perdute (o peggio trafugate) le informazioni segrete che l’esercito gli ha fatto mandare a memoria. Altro che miniserie di sei episodi, con tutto quello che Moulton ha ficcato qui dentro (cowboy, doppi giochi, fantascienza, giapponesi, inseguimenti, una matador messicana, ricatti, rodei, sparatorie, sigarette ipnotiche, spie, traditori…) Millar e Bendis avrebbero tratto un arco narrativo di 24 numeri.

Come si sarà capito, ho trovato le storie deliziosamente ingenue, tanto da suscitare tenerezza o ilarità: un miscuglio di mitologia, esoterismo, “scienza”, propaganda bellica e soluzioni stereotipate in si perdono le poche idee originali che comunque ci sono.

I disegni (di Harry G. Peter? Sheldon Moldoff? Qualcun altro? Boh) sono talmente brutti da risultare quasi affascinanti. A guardarli si capisce perché nel 1942 le strisce quotidiane erano considerate roba seria e i comic book merda. Però probabilmente è un discorso relativo che pur calzando a Wonder Woman non è del tutto generalizzabile, perché dalle pubblicità degli altri albi DC si evince, almeno dalle copertine, che non mancavano nemmeno in questo settore dei disegnatori bravi pur tra la pletora di scalzacani che disegnava a un tanto al chilo.

Probabilmente sarebbe indelicato dire che gli elementi di contorno come le pubblicità e i redazionali (che Panini ripropone tali e quali senza tradurli) sono più interessanti dei fumetti, e tutto sommato non è nemmeno vero se non altro perché all’epoca c’erano meno pubblicità di quante appaiono oggi, però il loro fascino vintage è innegabile e sicuramente l’ossessiva pubblicità agli “war stamps” rende meglio il clima dell’epoca piuttosto che le storie pazzerelle della protagonista, in cui comunque gli inviti al sostegno delle truppe statunitensi abbondano.

La qualità della riproduzione è scadente (a tratti molto scadente), tranne che per la storia breve scritta dalla Marble e per il fumetto umoristico di Helfant, probabilmente stampati a partire da fonti più buone: probabilmente sono oggetto di maggiore interesse rispetto al resto e nel corso degli anni si saranno confezionati dei materiali di stampa migliori.

Ho notato che la diagonale delle tavole (di tutte le tavole, anche di quelle non precipuamente a fumetti) non è quella solita del 17x26 dei comic book, c’è molto spazio vuoto sia in alto che in basso. Sapevo che il formato dei comic book classici differiva da quello moderno ma pensavo che fosse genericamente un po’ più grande, mentre da quanto posso capire era più largo.

Nel complesso questa Facsimile Edition è un bel tuffo nell’archeologia fumettistica, anche se la carta patinata lascerebbe suggerire un valore artistico che in realtà è ben inferiore a quello filologico.

sabato 9 agosto 2025

Dylan Dog Color Fest 54: Estranei

Numero che raccoglie due episodi di uguale lunghezza.

Si comincia con Nostalgia del sangue: Dylan Dog è stato assunto da Abigail, una ragazza che sogna il modo in cui poi vengono effettivamente uccise diverse persone, tutte con precedenti penali. Il colpevole potrebbe essere un imitatore di tal Skean, “Stiletto”, un serial killer che operava anni prima. Solo che questa creatura ha le fattezze di un mostro e riesce anche ad apparire in sogno riuscendo a ferire nella realtà Abigail. La quale, dal canto suo, non la racconta proprio giusta mentendo sull’identità di una nonna affetta da demenza senile (che pertanto va d’accordissimo con Groucho). Considerata la soluzione del mistero, Mirko Perniola riesce a imbastire una storia abbastanza originale.

Nell’editoriale Barbara Baraldi presenta il disegnatore e colorista Paolo Massagli citando tra le sue influenze l’Art Nouveau e la Linea Chiara. Io ci metterei dentro pure Eduardo Risso, ma francamente ho trovato piuttosto monocorde il suo tratto poco modulato e a volte poco armonioso. Lodevolissima l’attenzione per gli sfondi e i particolari, invece, più british che mai.

Nella seconda storia, L’insostenibile leggerezza dell’anima, Dylan Dog partecipa a una sessione di viaggio condiviso nell’immaginario collettivo dove risiedono gli archetipi; come scopriremo in seguito ha una certa facilità nel farlo in autonomia. Quivi incontra però una strana presenza che già altri ipnoviaggiatori incontrarono, interrompendo così le loro escursioni oniriche e quindi la terapia psicanalitica collegata – gestita dall’ennesima nuova ragazza di Dylan Dog, la sua vecchia fiamma Amanda. Unica costante di questa entità è che trasmette l’impressione di raffigurare una persona morta ma cambia ogni volta aspetto, senza poter mai essere messa a fuoco. Quando Dylan scopre che i volti sono effettivamente quelli di persone morte nella realtà diventa ossessionato dalla ricerca del mostro senza volto (o meglio con troppi volti), tanto più che la sua succitata nuova vecchia fiamma Amanda lo ha lasciato di nuovo, impaurita da qualcosa. Anche questa storia mi è sembrata ispirata e originale.

Il tratto grasso e pastoso di Nicolò Pellizzon (che cura anche i testi) e i suoi colori ultrasaturi sarebbero stati adattissimi per questo contesto surreale, se non fosse per gli occhioni che disegna un po’ a tutti i personaggi, protagonista compreso, che rendono le tavole più “carine” che inquietanti.

Nel complesso, per quanto «estranei» sia un termine facilmente prono a svariate interpretazioni, mi pare che il titolo di questo Color Fest sia piuttosto azzeccato.

giovedì 7 agosto 2025

Metamorpho: L'Uomo Elementale

Per apprezzare appieno questa miniserie bisogna avere una conoscenza abbastanza buona del cosmo DC (soprattutto della Silver Age, credo) che io non ho. Ma vabbè.

Un supercriminale che può mutare il suo organismo nei tre stati della materia si infiltra nell’edificio delle industrie Stagg ma Metamorpho e l’eterogeneo cast di personaggi che lo attornia (tra cui il cavernicolo Java a cui si ispirò Castelli per il partner di Martin Mystére) riesce a farlo fuggire, non senza difficoltà visto che il tizio può anche trasformarsi nell’unico elemento che inibisce i poteri di Metamorpho. A quanto pare il marrano lavora per conto di un’associazione che ha dei piani criminali oscuri ma sicuramente apocalittici.

Prima di sbrogliare la matassa Metamorpho & co. dovranno vedersela con androidi canterini che rivaleggiano con la sua fidanzata (che è una popstar, a quanto capisco), Vandal Savage (commissario di polizia a Gotham?!), un intero edificio robotico, una nuova ridicola versione di un villain storico, divinità solari, altre varianti di Metamorpho; Al Ewing organizza insomma questa miniserie come fosse un fumetto di quelli di una volta, cioè con una trama conclusa a ogni puntata, anche se un filo conduttore unisce tutti e sei i numeri.

Lo stile di scrittura è un’imitazione di quello degli anni ’60, o così mi sembra: ogni episodio/capitolo è introdotto da una splash page simile a una vecchia copertina con strilli enfatici, presentazioni ironiche dei personaggi e interpellazioni dirette al lettore, così come ogni episodio/capitolo viene chiuso con delle ammiccanti anticipazioni del prossimo. Le allitterazioni abbondano, anzi strabordano, e Ewing infila anche qualche concetto di chimica che probabilmente vorrebbe fare il verso alle vecchie «Flash News» ma al contempo costituisce un metodo elegante per risolvere gli impicci in cui si trovano i personaggi. Accanto alla voluta artificialità del tutto non mancano dialoghi più moderni e molto simpatici. In questo contesto ridanciano e autoironico la metanarrazione per una volta non infastidisce ma anzi ci sta benissimo.

I disegni di Steve Lieber sono perfetti per il mood del fumetto. Pensavo si trattasse del fratello di Stan Lee direttamente dagli anni ’60, ma quello era Larry Lieber. Il tratto pulito e senza troppi fronzoli di Steve è espressivo e leggibile e rende i molti “freak” pittoreschi senza farne delle caricature.

Gli inevitabili ma un po’ eccessivi riferimenti al passato del personaggio mi sono risultati alquanto ascosi, ed è stato un po’ frustrante non capire se molte delle bizzarrie buttate sul piatto fossero elaborazioni da storie precedenti o farina del sacco di Ewing. Cionondimeno ho trovato L’Uomo Elementale una miniserie molto divertente.