giovedì 25 settembre 2025

JLA di Joe Kelly: I Distruttori

Dopo gli esordi spumeggianti di Grant Morrison l’impressione è che la JLA inibisca un po’ gli sceneggiatori. Io almeno non ho trovato Mark Waid al top della forma nella sua run e l’impressione è parzialmente confermata in questi sedici episodi scritti da Joe Kelly. Probabilmente non era facile gestire dei personaggi che avevano le loro vicende personali da portare avanti nei rispettivi comic book, e non tutti hanno la vulcanica fantasia di Morrison per tirare fuori trovate che siano contemporaneamente “larger than life” e al contempo poco impattanti nella vicissitudini editoriali dei singoli protagonisti.

Dopo un frenetico capitolo introduttivo di presentazione del cast (non che ce ne fosse bisogno, ovviamente, ma immagino servisse per anticipare lo stile sincopato e un po’ ridanciano di Kelly) la prima missione della JLA vede il lazo magico di Wonder Woman strapparsi perché lei non accetta la verità che le mostra: il bambino che pensava di salvare è in realtà veramente indispensabile alla preservazione della vita del paese vivente di Jarhanpur. Ora, l’idea del paese vivente è buona ma le ripercussioni della rottura del lazo sono ridicole: nel mondo non esiste più la verità oggettiva e si verificano a raffica fenomeni come la Terra piatta, la luna fatta di formaggio, Krishna personificato che dorme (e guai a svegliarlo perché finirebbe il mondo) e altre piacevolezze a cui la Justice League deve mettere una pezza. Mio dio. Neanche il discorso sulla legittimità di una potenza di intervenire sulla politica di uno Stato estero nobilita questa sequela di cazzate. Forse voleva essere un omaggio alle storie pazzerelle degli anni ’50 (mai lette, ma immagino siano così) se non fosse che fanno capolino anche riferimenti alla continuity degli anni 2000, che oltretutto rendono un po’ farraginosa la lettura.

Segue un episodio autoconclusivo in cui Plastic Man chiede aiuto a Batman per scoraggiare il figlio che ha ereditato i suoi poteri (ma migliori) dall’unirsi a una gang di criminali.

Ecco quindi il lungo ciclo che dà il titolo al volume. Una pioggia di pesci a Daytona, anticipata nello one shot, è il preludio all’apparizione di un guerriero tecnologico precolombiano. Nel mentre Lanterna Verde/Kyle Rayner fa degli strani sogni. Sarà proprio lui, dopo essere sopravvissuto al veleno che lo aveva incapacitato, a salvare gli altri sei supereroi catturati con impressionante facilità da uno stregone che proviene da un’altra epoca e dai suoi corvi che si infilano in bocca. A quanto pare lo sciamano amerindio dietro tutto ciò vorrebbe eliminare la Justice League in quanto aralda della fine del mondo (i “distruttori” sarebbero loro), e nel mentre ha pure ricreato Atlantide che evidentemente all’epoca nell’universo DC era andata distrutta. O così si credeva: a causa di eventi successi altrove e prima, Aquaman e la sua città furono apparentemente annichiliti ma l’intervento di quegli strani personaggi incaici rivelerebbe che in realtà furono rimandati indietro nel tempo di 3000 anni. E quindi gli eroi viaggiano nel passato per salvare gli atlantidi e il loro compare anfibio, sparendo proprio mentre la Terra è preda di catastrofi e attacchi demoniaci che portano quindi alla costituzione di una nuova Justice League con altri supereroi della DC.

Il ciclo avrà un suo fascino per i lettori sensibili al sense of wonder (ci sono nuovi nemici dai poteri pressoché indecifrabili) e di certo il rimpallo da un’epoca all’altra è ben gestito, ma alla fine mi sembra che sia stata tutta una tirata per giustificare il ritorno di Aquaman nell’universo DC, e non ne sono nemmeno sicuro. C’è anche il gusto di vedere la Justice League in versione non-morta, peccato che il trucchetto per farne tornare vivi i membri sia abbastanza ridicolo.

Nell’ultimo episodio si tirano le somme di quanto successo rimescolando le fila della JLA e introducendo i soliti cambiamenti temporanei nell’universo DC. Il più evidente: adesso che scopre di essere immortale Plastic Man decide di abbandonare la vita di supereroe per riallacciare i legami col figlio.

Ora, Joe Kelly è sicuramente bravo a scrivere. I dialoghi sono spumeggianti e mi pare che i personaggi siano caratterizzati molto bene anche con le poche pennellate che riesce a darne nella sede fisiologicamente circoscritta delle poco più che venti tavole mensili. Purtroppo per coinvolgere tutti questi grossi calibri anche lui deve inventarsi delle trovate tanto titaniche da diventare ridicole e il modo in cui gli eroi le superano non sempre si rivela geniale (anzi, quasi mai). Inoltre il ritmo incalzante e la necessità di dover gestire più personaggi in una ventina di pagine a volte rende confusa la lettura, tanto più che Kelly ama flashback e sottotrame. E Plastic Man dopo un po’ stufa. Anzi, sin da subito se non si amano i personaggi-pagliaccio. Ho poi trovato le parti con la “nuova” JLA un po’ noiose, ma potrebbe essere un pregiudizio mio immaginando che forse siano state messe lì tanto per accontentare i lettori nostalgici di certi personaggi come Freccia Verde o per spingere i fumetti di quelli nuovi come Maggiore Disastro e Faith.

Comunque la vera delusione di questo ciclo, un vero calcio nelle palle, sono i disegni di Doug Mahnke. Sì, la brutta immagine in copertina già era un segnale, ma poteva benissimo essere una defaillance momentanea (ma allora perché metterla in copertina, in effetti). E invece anche i singoli capitoli sono disegnati in maniera quasi cartoonesca, con sproporzioni, esagerazioni anatomiche, distorsioni innaturali. Come sempre in questi casi mi è venuto spontaneo incolpare l’inchiostratore (nella fattispecie Tom Nguyen) ma la cosa non poteva essere così semplice: se ci sono tante e tali carenze alla base del disegno chi fa le chine non può aggiustarle più di tanto. Dove diavolo era finito il maestoso disegnatore realistico e rigoroso, per quanto squadrato, del Lanterna Verde New52 e di Multiversity? Semplice: non era ancora nato. Dalla biografia di Mahnke apprendo che il suo esordio avvenne coi fumetti di The Mask (!) e quindi era inevitabile che nascesse caricaturale. I suoi lavori che ho conosciuto e apprezzato io risalgono a una decina o una quindicina d’anni fa al massimo, mentre questa JLA è dei primissimi anni 2000. L’evoluzione del suo stile verso il realismo si intravedeva, ma purtroppo era ancora lontana.

A un certo punto Mahnke si alterna con Yvel Guichet (inchiostrato da Mark Probst e occasionalmente da Bob Petrecca) e nonostante lo stile dei disegni sia simile ho apprezzato di più il secondo.

Per il numero 75, celebrativo e più lungo, hanno contribuito anche i disegnatori Darryl Banks e Dietrich Smith con gli inchiostri di Wayne Faucher e Sean Parsons (i risultati sono stati alterni: alcuni disegni sono molto curati e altri tirati via) mentre l’ultimo episodio è stato disegnato da Lewis La Rosa e Al Milgrom.

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