venerdì 30 novembre 2018

Intervista a José Muñoz

Luca Lorenzon (LL): Alejandro Aguado de La Duendes mi diceva che è in corso una crisi in Argentina, anche loro hanno rarefatto la pubblicazione di volumi cartacei a causa delle condizioni economiche poco favorevoli del Paese.

José Muñoz (JM): Adesso c’è un’altra di quelle cicliche e umilianti manomissioni della popolazione argentina che ha votato per questo governo: è la prima volta che votano direttamente per i finanzieri, i bancari e gli speculatori che li uccideranno. La democrazia è problematica (certo, meglio la democrazia che la dittatura) perché non tutti sono all’altezza di votare per i propri interessi, votano per l’interesse del boia. È triste come fenomeno.

LL: Lei il fumetto lo ha messo in un angolino…

JM: No! Continuo con il fumetto, è uno dei miei amori principali. Direi che io sono un disegnatore con tendenze narrative e con dei problemi artistici… il fumetto è un campo nel quale io ho tentato di esprimermi, di realizzarmi, di crescere con altri andando oltre me stesso e il mio egocentrismo.
Approfittare di questa pulsione è stata anche un’occasione per sublimare le ferite che la Storia ti infligge vivendo. Si è trattato di sublimare l’ingiustizia e lavorare nella forma, omaggiare le forme attraverso la denuncia, come con Sampayo abbiamo fatto con le brutture che vedevamo, non soltanto nel mondo esterno ma anche nel nostro mondo interiore. Una catarsi sublimata in maniera di poter continuare a respirare. E offrire una consolazione anche estetica e narrativa a quelli che ci scelgono come partner del loro panorama di intrattenimento.

LL: Mi viene in mente Sudor Sudaca, in cui molti esuli si sarebbero potuti identificare.

JM: Sì, era il 1981/82 quando abbiamo incominciato quel fumetto con Carlitos. Ci siamo sentiti capaci di affrontare la nostra circostanza reale all’epoca delle Malvine, ci è scoppiato un desiderio argentinoide di metterci dentro la pelle della nostra gente, ritornando un po’ alla nostra infanzia. Carlos continua il suo lavoro di scrittore, continua a raccontare storie che si svolgono alla fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50 a Buenos Aires. Quella Buenos Aires che è stata la nostra infanzia e adolescenza.
In quel particolare momento storico io e Sampayo siamo stati spinti da questi dolori interni argentini (ma più in generale sudamericani se vogliamo) a dare il nostro contributo con il nostro mestiere.

LL: Se non sbaglio lei in un’intervista aveva detto che il suo primo passaggio in Europa, in Spagna, con Carlos Sampayo fu il periodo più buio della sua esistenza ma che poi le ha dato la forza di elaborare tutto questo in forma narrativa. [l’intervista è su Fumetti d’Italia 17 dell’autunno 1995 ma Muñoz si riferiva anche alla cupezza della Spagna all’epoca ancora franchista, ndr]

JM: Ci ricolleghiamo a quello che dicevo prima, cercare di realizzarmi come disegnatore espressivo: esprimere le mie gioie e il mio dolore attraverso il disegno collegato con il momento della Storia che stavamo vivendo.
In quel momento con Sampayo ci siamo trovati in un momento di rottura della sua e della mia vita, l’Argentina che si incupiva dietro di noi, uccidendo i suoi figli. Noi siamo scappati per un pelo, nel senso che non eravamo attivisti politici ma prima o poi ci avrebbero fatto fuori. È stato l’ultimo tentativo organizzato delle forze repressive argentine che possiedono il Paese di eliminare qualsiasi tipo di inquietudine critica. Noi grazie al fumetto, grazie all’Historieta [termine che in Argentina designa il fumetto, ndr] ci siamo salvati dalla Historia.

LL: Era lei che aveva detto che l’Historia vi ha deluso e quindi è meglio l’Historieta?

JM: Esatto, quello che voglio dire è che fondamentalmente quello che succede nei lavori con Carlos Sampayo è che arriva a volte una pioggia di angoscia sublimata e catartica, che esige una sopportazione vitale che non è soltanto intrattenimento, anche se “intrattenimento” è una parola che si usa male: l’intrattenimento può essere alto, basso, altissimo, bassissimo. Ossia noi siamo stati un altro tipo di intrattenitori sublimando le angosce della Storia, le nostre paure, le nostre miserie, pur senza esagerare: non siamo stati autobiografici, il nostro linguaggio si è sviluppato a partire anche dal contributo degli autori underground nordamericani e tutto lo straordinario apporto che hanno dato.
Noi della scuola di Buenos Aires, io come autore della scuola di Buenos Aires e Carlos come mio scrittore e compagno d’avventure, ci siamo piazzati come uno dei frutti della scuola di pensiero e di spessore narrativo a cui io ho avuto la fortuna di partecipare negli ultimi momenti, quando nell’imbrunire sono arrivato io con il mio pennellino e ho visto Pratt che se ne tornava in Europa, Breccia che si rifugiava nel silenzio… però noi siamo riusciti a essere formati da quelle Eccellenze.

LL: Alla Escuela Panamericana de Arte lei era brecciano? [nella scuola la differenza principale era tra chi seguiva lo stile di Pratt e chi quello di Alberto Breccia, ndr]

JM: Sono stato allievo di Breccia, ma io ero prattiano, ero un prattiano sfrenato. Però Breccia mi piaceva perché ci sono piaceri nascosti nel nostro mestiere, per esempio l’inchiostratura per me è uno dei piaceri supremi. Io vedevo questa energia che montava nel lavoro di Breccia, le cose che faceva con l’inchiostratura, i lavori con le lamette, con tutto quello che trovava: lui intingeva qualsiasi cosa nella china e la metteva sulla pagina.

LL: C’è il famoso episodio della ruota di bicicletta.

JM: Tutto quello che c’era in giro! Però io ero prattiano. Quando ho avuto, come adesso con Miraggi di Memoria, l’opportunità di avvicinare le mie linee in omaggio ai disegni del Maestro ho provato un estremo piacere, perché è un’occasione per ringraziare attraverso il mio disegno le finestre verso la meraviglia che il disegno di Pratt mi ha procurato.

2 commenti:

  1. In questo caso l'intervista l'hai condotta tu, quindi i ringraziamenti li pongo direttamente a te!

    Sempre un piacere sentire (anche se la voce devo immaginarmela!) il Maestro Munoz parlare.

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    1. Veramente un Grande, lo conobbi di persona durante (anzi, alla fine di) un viaggio in treno verso Parigi, quando sentivo che c'era questo che con accento spagnolo (o sudamericano, io non so distinguerli) parlava di mostre e cataloghi della Nuages. Ruppi i coglioni per tutto il tempo alla mia fidanzata dell'epoca con cui stavo andando a Parigi ("Ma è lui o non è lui?"), finché una volta scesi dal treno mi feci coraggio e mi presentai. Ero un po' titubante nel farlo anche perché durante il viaggio, se ricordo bene, si fece in quattro per trovare un impiego a un altro che parlava spagnolo e che stava andando a Parigi. Una persona disponibilissima e cordiale.

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