venerdì 30 giugno 2017

giovedì 29 giugno 2017

Collana Reprint n. 172 - Kinowa 1: Il Segno del Serpente

La meritoria opera di recupero dei classici italiani ad opera delle Edizioni If si è arricchita di un nuovo titolo: quel Kinowa di cui l’enciclopedia La Grande Avventura dei Fumetti della DeAgostini magnificava l’originalità e la violenza in anticipo sui tempi, suscitando la mia curiosità.
A differenza di altri prodotti dell’epoca, il protagonista Sam Boyle non è un ragazzino ma un uomo maturo e apparentemente ben poco eroico: è stato scalpato e si profonde in risatine che lette oggi lo fanno sembrare un pazzo o un pervertito (chissà che emozioni voleva evocare originariamente lo sceneggiatore Andrea Lavezzolo/A. Lawson con quella sequela di «Ih! Ih! Ih!»). A seguito dell’assassinio della moglie e del figlioletto perpetrato da perfidi indiani, Boyle diventa uno spietato cacciatore di indiani, a sua volta collezionista compulsivo di scalpi. Sullo sfondo di questa trama di partenza si staglia la figura di Kinowa, un temuto sterminatore di indiani che sia i bianchi che i pellirosse ritengono una creatura fantastica.
La storia è però più complessa, e il figlio di Boyle non è morto durante l’eccidio iniziale ma è stato accolto da un capo indiano nonostante le titubanze di un altro, e si è fatto uomo in seno alla sua nuova tribù col nome di Penna Rossa, e come tale arriva quasi a far scoppiare una nuova guerra indiana.
Ricordata come una serie molto cruda, in realtà Kinowa ha ben poco di drammatico e proprio nulla di splatter, non solo per gli standard attuali. Gli scotennamenti e le morti violente vengono evocati dai testi e le inquadrature si concentrano sapientemente sulle gambe delle vittime o approfittano di elementi in primo piano per coprire i dettagli.
Più che altro, Kinowa è una rilettura western del romanzo d’appendice, in cui parenti lontani e divisi portano avanti un balletto di inconsapevole avvicinamento fintantoché l’interesse del pubblico non scema. Una cosa che ho apprezzato molto della serie è che il titolare compare solo in una manciata di occasioni, è più che altro una presenza incombente (e nemmeno poi tanto), e i veri protagonisti sono altri. Insieme alla tensione verso la scoperta della sua vera identità, questo particolare dà la piacevole sensazione che ci fosse una progettualità ben precisa a monte e non solo l’accumulo di situazioni diverse per mandare avanti la collana – e in effetti nei nove albetti originali qui raccolti c’è una continuity abbastanza serrata.
Dopo anni di revisionismo, ho apprezzato anche l’interpretazione che viene data degli indiani, che qui in teoria sarebbero ancora i “cattivi”, ma che in realtà vengono rappresentati come fieri guerrieri che devono peraltro dedicarsi a equilibrismi politici per mettere d’accordo le varie tribù.
La parte in basso a sinistra è rifatta?
Anche se Lavezzolo cerca di mantenere il segreto (o finge di farlo) per tutto questo primo albo, è chiaro che Kinowa altri non è che lo stesso Sam Boyle, se non altro perché lascia come simbolo delle sue uccisioni il monogramma “S”, che gli indiani interpretano come un serpente stilizzato. E siccome nella storia non ci sono altri personaggi il cui nome cominci con quella lettera, anche agli sprovveduti ragazzini degli anni ’50 sarà parso evidente chi si celava sotto la sua maschera. Maschera che viene comunemente raffigurata di colore verde, nonostante i testi ricordino in più di un’occasione che è bianca.
Lavezzolo scrive in maniera forbita e, cosa comunque comune ai fumetti di quell’epoca, dedica molto spazio alle descrizioni di quello che succede, per quanto i disegni siano già sufficienti a capire le situazioni. In particolare, ho notato certi afflati di lirismo che letti oggi danno uno strano retrogusto tra il surreale e il marinettiano: a pagina 17 un indiano segnala la posizione muovendo le braccia come se fosse un semaforo (ma che razza di semafori avevano negli anni ’50?) mentre a pagina 22 leggiamo del «fremito retrospettivo» di un cavallo che salta un burrone.
La scelta dei nomi non è molto azzeccata e oggi suona francamente ridicola: Wild City (chi diavolo vorrebbe vivere in un posto che si chiama “Città Selvaggia”?), Fort Caution (“Forte Cautela”!) e il cavallo di Boyle si chiama Bingo, come la tombola americana…
Anche se ero portato a credere che refusi ed errori vari fossero tipici della nostra era contemporanea, più automatizzata e facilona, ne ho riscontrati anche qui, così come ne ho trovati in altri fumetti della stessa epoca o anche precedenti. In particolare, ho notato che imperversa un viziaccio (vero e proprio errore da matita rossa) che io ritenevo essere tipico di questa epoca: la virgola tra soggetto e verbo. Gli educatori avevano ragione a dire che i fumetti traviavano la gioventù, altroché.
I disegni dello studio EsseGesse, pienamente calati nella ruspante temperie dell’epoca, sono decisamente validi: pur con alcune comprensibili semplificazioni anatomiche dovute agli stretti tempi di consegna, si segnalano soprattutto per la cura e la ricchezza degli sfondi e dei dettagli (come ad esempio gli abiti). Evidentemente si trattava di una prima elaborazione dello stile del trio, prima di privilegiare il dinamismo che ho riscontrato nel successivo Il Grande Blek.
La qualità di stampa a volte tende a impastare i tratteggi, e i neri non sono sempre compatti, ma nel complesso la resa è più che dignitosa. E comunque il costo è molto conveniente: solo 2,90 euro.
Non mi sarebbe dispiaciuto leggere qualche nota sulla serie e la sua produzione, ma in seconda di copertina Gianni Bono si limita a pubblicizzare le Edizioni If e la Guida al Fumetto Italiano. In terza di copertina vengono comunque riprodotte le copertine dei nove fascicoli raccolti in questo primo numero, con l’indicazione della data d’uscita. La copertina è affidata a Michele Benevento: da quello che ho potuto vedere quelle originali erano molto suggestive e ben colorate, ma non possono certo reggere il confronto con la perizia tecnica di un disegnatore contemporaneo.

domenica 25 giugno 2017

Il Morto 28: Araldica

Datato maggio 2017, uscito solo adesso a fine giugno. Ma l’importante è che sia arrivato.
Questo nuovo episodio de Il Morto è un thriller vagamente gotico sulla falsariga di Dieci piccoli indiani: Peg contatta un altro dei suoi ex commilitoni che ora è costretto su una sedia a rotelle e parte con lui e sua sorella alla volta del maniero di famiglia dove verranno lette le ultime volontà del Duca Armando Chieresi Della Rocca. Coerentemente con gli stereotipi del genere, gli eredi vengono eliminati uno dopo l’altro in circostanze misteriose e il gioco a cui anche il lettore è chiamato a partecipare è indovinare l’identità dell’assassino tra i parenti e gli altri convenuti al castello.
Araldica ci offre un buono squarcio sul passato di Peg, che spero non sia solo episodico ma possa smuovere un po’ di più le acque (il prossimo episodio sarà ambientato in Egitto: vedremo come evolverà la situazione); a livello di sceneggiatura Giovacca alterna una bella e originale sequenza come quella iniziale al bar, dove l’amico di Peg riesce a portar scompiglio anche se si trova su una carrozzina, con la trovata più scontata e demodé del Barone Giustino che si esprime in maniera forbita anche nelle circostanze più tese.
Con tutta questa carne al fuoco e tutti i personaggi coinvolti è inevitabile che le 110 pagine dell’episodio risultino un po’ strette: confesso che ho dovuto sfogliarmi di nuovo l’albo per capire chi era l’assassino, visto che il poco spazio a disposizione ha impedito di approfondire i singoli attori della storia e imprimerli così nella memoria del lettore. Meglio questa impressione di straripante ricchezza confinata in poche pagine, comunque, rispetto a quella di leggere una storia annacquata.
I disegni di Marco Boselli si mantengono sui consueti ottimi livelli, anche stavolta è coadiuvato alle chine dalla new entry Ivano Codina che a volte tende a fare il volto di Peg troppo duro – cosa che di per se non è un difetto ed è coerente col personaggio. Ho notato una certa profusione di “effetti speciali” come l’approssimarsi del temporale a pagina 52 o i virtuosismi automobilistici delle pagine 43-47. Non so se siano da attribuire ai disegnatori piuttosto che allo Studio Telloli, comunque la resa è molto efficace.
In appendice viene presentata Il Duca De L’Omelette, una riduzione da Edgar Allan Poe: Giovacca ha scritto di meglio ma comunque il risultato è simpatico (e in ogni caso era vincolato al testo di partenza), il disegnatore Gioele Vimercati pur dimostrando senz’altro delle doti risulta legnosetto e anche occasionalmente impreciso in certi dettagli.

sabato 24 giugno 2017

E invece... !

Non si trattava di chiusura ma di un sempice ritardo di tre mesi e mezzo (almeno formalmente, poi nelle gerenze scrivono quello che vogliono).
Certo che quelli della RW Lion proprio non hanno idea di come si vada a capo nella lingua italiana.

mercoledì 21 giugno 2017

Tif e Tondu l'Integrale 1949-1954

Nonostante la mole del volume (364 pagine) e l’oggettiva vetustà del fumetto, l’Integrale di Tif e Tondu si legge con rapidità, malgrado gli ultimi due episodi siano oltretutto organizzati su cinque strisce invece delle canoniche quattro. Merito senz’altro di una parte grafica sintetica e priva di orpelli, ma anche di storie semplici e divertenti, in cui evidentemente gli sceneggiatori navigavano a vista inventandosi colpi di scena anche improbabili per portare avanti le trame.
Tif e Tondu nasce nel lontano 1938, ma la serie non si chiama ancora così: coerentemente con la moda dell’epoca, il creatore Fernand Dineur si inventa le Aventures de Tif che compaiono sin dal primo numero di Le Journal de Spirou. Tondu arriverà comunque poco dopo e insieme i due vivranno varie avventure caratterizzate da uno stile grafico che può ricordare quello di un Antonio Rubino che cerchi maggiore realismo, in un’epoca in cui il mestiere di fumettista era più che altro un sistema per arrotondare le entrate da rappresentante di birra di Dineur. Anche per le precarie condizioni economiche che l’editore impone ai suoi collaboratori (quelli che non sono ancora delle vedette, almeno), Tif e Tondu ha una vita editoriale piuttosto travagliata, come ricordato nel dossier che apre il volume.
Finalmente, nel 1951 la serie passa ai disegni di Will, collaboratore e allievo di Jijé, mentre Dineur impone solo la sua presenza come sceneggiatore – ma si stuferà presto anche di quello, essendo probabilmente il commercio di birra più redditizio.
Ad aprire le danze è una storia di 32 tavole che all’epoca rimase nel cassetto, e che viene proposta in versione anastatica riprendendo un’edizione francese. Il tratto di Will (che aveva “rischiato” di disegnare nientemeno che Il Granchio d’Oro di Hergé se non gli fosse arrivata questa proposta) si discosta da quello di Dineur per una maggiore scioltezza ed espressività, in sostanza per una matrice più umoristica e caricaturale. Perlomeno, confrontando le sue tavole con i pochi esempi dell’arte di Dineur sparsi nell’introduzione.
Tif e Tondu sono due amici che si differenziano solo perché il primo è glabro e pelato e il secondo sfoggia invece una chioma puntuta e un discreto barbone. Per il resto, graficamente sono uguali: due uova con le gambette. Caratterialmente, l’osmosi è ancora più accentuata: non sono uno collerico e l’altro riflessivo, né uno ingenuo e l’altro scaltro, ma queste indoli saranno intercambiabili nelle storie a seconda della necessità delle situazioni. In teoria sarebbero dei detective (anche se Tondu si definisce reporter in un episodio), ma in generale sembra che tirino a campare come meglio possono, svolgendo vari lavori tra cui quello più caratteristico (e generoso di gag) è il piazzista di aspirapolvere. Entrambi nutrono una certa brama di possesso che li porta a desiderare automobili potenti, imbarcazioni e persino scafandri da palombaro, ma in ottemperanza ai precetti morali de Le Journal de Spirou queste loro smanie capitaliste sfumeranno davanti al loro buon cuore che li porterà a fare cospicue donazioni ai bisognosi al termine di molte avventure.
La prima avventura “ufficiale” con Will ai disegni è La Città dei Rubini, una piacevole sarabanda di situazioni esotiche che dopo una partenza un po’ stentata offre delle gag esilaranti nelle sue 30 tavole. L’episodio successivo, La Rivincita di Arsenio Rupin, è la diretta prosecuzione della precedente storia e, mischiando l’esotismo con le storie di mala (ma spruzzando il tutto con molto moralismo), risulta ancora più divertente dell’avventura precedente, di cui condivide la durata.
San Salvador è una storia di 15 tavole in cui i protagonisti sono coinvolti in un divertente, per quanto improbabile, complotto in America Latina e col successivo episodio Il Fantasma delle Lagune di 20 tavole (dalla trama ben più originale e ben sviluppata, inoltre qui il moralismo diventa fonte di gag) costituisce il volume Tif et Tondu en Amerique Centrale. Per la ristampa sull’Integrale è stato scelto di riproporre le precedenti edizioni in volume con tanto di gerenze, frontespizi ed elenco arretrati originali: da una parte questa scelta può spiazzare il lettore che potrebbe avere l’impressione di trovarsi davanti a delle semplici raccolte (come quelle cartonate de Le Avventure della Storia), dall’altra ha un piacevole retrogusto vintage e si fa apprezzare per lo scrupolo filologico.
La Villa “Sans-Souci” è il primo episodio progettato per la durata classica di 46 tavole. Dineur getta la spugna a un certo punto, e come sostituto subentra Henri Gilain, fratello di Jijé, con lo pseudonimo di Luc Bermar. La storia, una vicenda di contrabbandieri di alcol che ruota attorno a una villa dove risiedono i protagonisti, è divertente e trae senz’altro beneficio dalla durata più lunga del solito.
Il Tesoro di Alarico ha le stesse dimensioni de La Villa “Sans-Souci” e Gilain è ancora più scatenato che in precedenza. Come suggerito dal titolo, il duo è alla ricerca del tesoro del primo re dei Franchi, in trasferta in una Calabria a cui non risparmia parecchie stoccate razziste!
Infine, Oscar e i suoi Misteri (scritto da Albert Desprechins dopo che Gilain aveva abbandonato la scrittura per contrasti con l’editore che gli aveva rifiutato un soggetto) è una storia ben architettata in cui un pappagallo parlante aprirà a Tif e Tondu la possibilità di entrare in possesso di un fantomatico tesoro, anche arrivando a fare da domestici nella casa della precedente proprietaria. Per quanto divertente e abbastanza originale, la trama sembra chiudersi in maniera un po’ semplicistica e affrettata e non credo che l’aggiunta di altre tavole alle 40 di cui si compone avrebbe permesso a Desprechins (che si firmava Ben) di sbrogliare più di tanto una matassa un po’ troppo ingarbugliata.
Nel corso della lettura risulta evidente la lenta ma costante evoluzione di Will, che lo porta già in San Salvador a uno stile morbido ed elegante. Non dico che certe vignette sembrino disegnate da Yves Chaland, ma ci manca veramente poco.
Come scritto in apertura, Will non si perde troppo nei dettagli e negli sfondi, ma quello che deve essere evidenziato in ogni vignetta viene reso con la dovuta dovizia di particolari. Will sembrava avere una certa ossessione per la Coca-Cola, che declina anche in versione parodistica in alcuni cartelloni pubblicitari nei rari scorci urbani. Da notare che la sua raffigurazione delle donne non è stereotipata, ma offre un vasto campionario di tipologie femminili, sempre virate sull’umoristico ma talvolta somiglianti a vere pin up.
Il dossier d’apertura di questo Integrale è ricchissimo e soprattutto non contiene spoiler. Apprendiamo da quelle pagine che il decollo della serie avverrà con l’arrivo dello sceneggiatore Rosy e l’introduzione di un arcinemico per la coppia. Quindi forse sarebbe stato meglio cominciare la pubblicazione con quelle storie piuttosto che con quelle più vecchie, come fatto per gli Integrali di Spirou, ma va bene anche così dato il carattere appunto “archeologico” di questo Integrale che interesserà di più i filologi del fumetto franco-belga che non i suoi semplici appassionati.
Da segnalare, cosa praticamente unica per un Integrale della Nona Arte (almeno di quelli che ho io) che la stampa non sempre è ottimale, rifacendosi probabilmente a fonti che già di partenza si basavano su materiali rovinati.

lunedì 19 giugno 2017

Providence 3

Si conclude l’opera-monstre di Moore dedicata a Lovecraft. Un bellissimo fumetto, ma non il capolavoro che avrei voluto mettere nel Meglio del 2017 (che per la cronaca al momento contempla solo tre titoli risicati).
La vicenda di Robert Black termina nel decimo numero della saga, con una validissima spiegazione degli eventi in cui tout se tiens, che dimostra per l’ennesima volta l’abilità di architetto dello sceneggiatore, ma in cui forse il pathos è un po’ mancato e tutto sfiorisce più che concludersi. Ottima la trovata per cui l’elzeviro di Black diventa un McGuffin fondamentale per la parte successiva, ma la sorte del protagonista è stato un anticlimax micidiale e forse un po’ ingiustificato per quanto anticipato dalle sue ultime annotazioni.
L’undicesimo capitolo è quasi un corollario a tutto quanto letto in precedenza, un po’ come Dance of the Gull-Catchers lo fu per From Hell. È qui che il destino di Black si compie definitivamente, anche se il bandolo della matassa era già stato sciolto nell’episodio precedente. Il paragone con From Hell non regge poi molto perché qui Moore ha preferito uno stile frammentario piuttosto che narrativo, ma in fondo anche qui ha voluto esplicitare la sua poetica. A tal riguardo, segnalo che nella carrellata di influssi sulla cultura e sulla società Moore è stato un po’ avaro di segnalazioni di giochi di ruolo e videogame, per fortuna a suo tempo ci pensò Matteo Poropat.
Benché il dodicesimo capitolo sia formalmente la conclusione di Providence, in realtà lo è ancor di più del precedente Neonomicon, che a sua volta prendeva le mosse da Il Cortile, opera in prosa di Moore ridotta a fumetti da Andrew Johnston. Se il lettore non conosce queste due opere precedenti è probabile che rimanga perplesso davanti al finale, in cui agiscono dei personaggi che non sono mai apparsi prima in Providence, e in cui la storia si trasforma in una sorta di action movie lisergico (con assai poca azione, a dir la verità) dalla raffinata esercitazione letteraria che era fino al decimo capitolo.
In definitiva, Providence è stato una lunga dichiarazione d’amore per l’opera di Lovecraft, in cui  Moore ha fatto sfoggio di una documentazione sterminata e in cui lo stesso Lovecraft ha avuto un ruolo pienamente giustificato dalle stesse ricerche fatte. Come nelle migliori cose scritte da Moore, anche in questo caso la soluzione era evidente e gli elementi per decifrare la storia erano stati posizionati con maestria ed eleganza nei capitoli precedenti (a saperli cogliere, ovviamente). Anche le molteplici variazioni dei nomi lovecraftiani sono giustificate dal principale twist della saga, in cui vengono rivelate le identità dell’Araldo e del Redentore.
Moore è stato inoltre bravo come al solito a collegare le molteplici sottotrame, ma stavolta alcune (tante) cose che sembravano importanti non hanno poi avuto seguito: che ruolo ha avuto il massone Albert Pike che si vede nell’ottavo episodio? Che rito fanno le donne che si vedono all’inizio e alla fine del decimo episodio? La donna deforme che compare all’inizio dell’undicesimo capitolo è la madre di Carcosa vista ne Il Cortile? Qual’era la tavola anticipata all’inizio del quarto episodio? I riferimenti al nazismo non vanno poi oltre agli accenni nel terzo capitolo – e io che mi ero fatto tutta una teoria sull’“Araldo”…
E poi ci sarebbero altri aspetti del fumetto che a me personalmente sono sembrati quanto meno esornativi ma dalla sostanza incerta. La metanarratività estrema con i personaggi che sono consapevoli di far parte di una storia e si interrogano sul loro ruolo in essa è diventata un po’ stucchevole. Il birignao che Moore si inventa per i suoi personaggi più strambi (e qui sono tanti) dopo un po’ è insopportabile. L’armata Brancaleone che chiude la storia francamente mi è sembrata propendere troppo verso il brillante, se non proprio verso il parodistico e il comico tout-court ma, Cthulhu non voglia, spero che fosse proprio questo l’intento di Moore.
Le parti più dense, illuminanti e piacevoli risultano alla fine quelle in prosa: bellissimo il lavoro antropologico sull’origine dei miti delle popolazioni (e le ipotesi sulle possibili origini dei Miti di Cthulhu mi sono sembrate assai credibili), così come è rivelatore il discorso sull’effetto magico della letteratura, concetto che aveva avanzato scherzosamente anche Amelie Nothomb – ma forse alla luce delle considerazioni di Black/Moore era seria quando diceva di bandire i testi sacri.
Ma anche le parti in prosa non scritte da Moore sono interessanti. La postfazione di Rosanas, a dire il vero, sembra più che altro voler nobilitare la saga con rimandi ad Aristotele e Hegel, ma il pezzo di Leonardo Rizzi sulla difficoltà nella traduzione di Moore (e di Providence in particolare) è una lettura illuminante.
I disegni di Jacen Burrows si mantengono ai soliti buoni livelli, ma mi è sembrato che stavolta le sue posture fossero occasionalmente più rigide e meno espressive. Cosa più che giustificata, e che comunque non toglie nulla al lavoro complessivo: Burrows si è imbarcato nella tremenda ordalia di rappresentare nelle stesse tavole gli stessi sfondi con elementi diversi di vignetta in vignetta, una prova massacrante che solo il fatto di lavorare con Moore poteva giustificare.
Ripeto: Providence non è un capolavoro, ma è senz’altro un ottimo fumetto. E a furia di ripeterlo magari riuscirò a convincermene.

venerdì 16 giugno 2017

Yoko Tsuno l'Integrale 4: Vinea in pericolo

Il quarto Integrale di Yoko Tsuno (quarto come ordine di uscita uscita per Nona Arte e anche quarto nella cronologia di riferimento) ha un’ambientazione che non è tra le mie preferite, ma ciononostante le storie sono piacevoli e coinvolgenti come sempre. Inoltre i volumi qui raccolti sono l’ottavo, il decimo e il tredicesimo, quindi graficamente ci troviamo nel periodo a me più congeniale: distaccatosi dagli stilemi caricaturali degli esordi, Leloup non aveva ancora raggiunto la sua leziosità filiforme.
Ne I Titani Yoko, Vic e Pol sono chiamati su Vinea per indagare sulla inspiegabile apparizione di piante di palude sul pianeta, accompagnata dal ritrovamento di un resto organico che farebbe supporre un’invasione da parte di una forma di vita insettiforme. In effetti lo scenario è abbastanza simile a quello immaginato, ma con una svolta inaspettata che rimescola le carte in gioco e toglie ogni possibilità di identificare univocamente i “buoni” e i “cattivi” – come scritto con dovizia di particolari nell’introduzione. I Titani si conclude con un richiamo all’ideale di pacifismo e fratellanza cosmica che caratterizza Yoko Tsuno, ma che alla fine diventa ridondante.
La Luce d’Ixo non è precisamente ambientata su Vinea ma su una sua luna. Stavolta il trio indaga sull’origine del raggio di luce che appare a intervalli regolari nel firmamento, e che nasconde un’incredibile storia di oppressione e di faide ancestrali – anche queste anticipate dall’introduzione.
Per finire, Gli Arcangeli di Vinea racconta di un’esplorazione sottomarina (il pianeta ha una geografia tutta in divenire, anche per permettere a Leloup di inventarsi quello che gli fa comodo di volta in volta) per risalire al mistero di un’antica città vineana. L’episodio si segnala per una bellissima figura di antagonista, per la dimostrazione di risolutezza di Yoko Tsuno e per il vago interesse che la protagonista dimostra finalmente per un esponente dell’altro sesso, destinato però a non concretizzarsi per i motivi dettagliatamente spiegati nell’introduzione. Forse il finale è un po’ affrettato e nelle ultime 5-6 tavole c’è un’accelerazione esagerata, ma questa frenesia alla fine è anche piacevole.
Leloup ha uno stile di scrittura molto appassionante: le avventure seguono una struttura simile per cui nelle prime pagine vengono presentati tutti gli elementi del mistero per fare montare la tensione, che si scioglierà poi con calcolata maestria un po’ prima della ventesima tavola – leggere Yoko Tsuno a puntate sul settimanale Spirou doveva veramente tenere col fiato sospeso!
Il suo technobabble funziona anche con le trovate meno probabili (un insetto gigante non potrebbe esistere comunque, perché la trachea sarebbe inutilizzabile) e le sue storie sono miniere di concetti originali e ottime trovate, che seppur io preferisca vedere in ambientazioni più canoniche vanno benissimo anche su Vinea.
I suoi personaggi sono molto interessanti, sia gli antagonisti che le figure di contorno, e praticamente sono quasi esclusivamente donne, ma mai stereotipate (a partire dalla protagonista). I suoi décors e i mezzi tecnici che disegna sono sempre curatissimi e tanto dettagliati da mozzare il fiato; ancora una volta, però, io trovo che funzionino di più in un contesto realistico piuttosto che sul mondo alieno di Vinea, dove l’ambientazione già fantasiosa toglie un po’ di sense of wonder.
Il difetto di questi Integrali è che non presentano molto materiale esclusivo come schizzi inediti et similia e che i redazionali sembrano girare un po’ a vuoto concentrandosi sulle storie e finendo per inanellare uno spoiler dietro l’altro. È anche vero che rispetto a Spirou, Barbarossa e Tif e Tondu la serie di Leloup è molto più recente e quindi anche gli aneddoti da raccontare sono limitati, oltre al fatto che essendone l’unico autore non si possono approfondire le biografie di collaboratori inesistenti né ricostruire le dinamiche di uno studio che non si è mai costituito. Le note biografiche e le curiosità si sono praticamente esaurite con il primo volume.
A chiudere questo volume non ci sono però solo i soliti ingrandimenti delle vignette e le prove di colore (Leloup aveva la pazienza di un certosino a colorare a matita le tavole…) ma anche un recupero più interessante: la riproduzione di una copertina (con le varie fasi di lavorazione: matita, china e colori) che, realizzata per una fanzine prima ancora che nascesse Yoko Tsuno, anticipa le tematiche e i personaggi de I Titani.
Un pinailleur: la struttura dell'edificio cambia forma da una vignetta all'altra!
En passant, a Lucca 2016 avevo chiesto allo stand Nona Arte come stesse andando la serie degli Integrali di Yoko Tsuno e mi era stato risposto che non andavano bene e che erano altre le serie che vendevano. Zitti zitti, però, quelli di Nona Arte hanno già pubblicato quattro volumi sugli otto da programma (ma penso che un nono sarà imminente in Francia), quindi immagino che tanto male non vada.

giovedì 15 giugno 2017

Historica Biografie 2: Mao Zedong

Piuttosto deludente questo secondo numero dello spin-off di Historica. Di Mao Zedong si parla quasi incidentalmente, essendo la scena occupata dalla Grande Sorella Deng Yingchao che ricostruisce con opportuna discrezione la storia della Cina comunista davanti a un pubblico di giovani funzionari attoniti nell’apprendere le verità dietro la propaganda. L’input della vicenda viene dato dai funerali di Zhou Enlai, marito di Deng, che tanto strettamente collaborò con Mao (finendo di conseguenza nel suo mirino).
Jean-David Morvan e Frédérique Voulyzé hanno scritto una sceneggiatura frammentaria e dispersiva, con parecchi salti temporali (anche se di pochi anni) in avanti o indietro, farcendo le vignette di note a piè di pagina che rallentano la lettura, soprattutto nella prima parte.
La cosa che lascia perplessi è che molti degli episodi salienti della Lunga Marcia e della Rivoluzione Culturale avrebbero potuto fornire ottimo materiale di partenza per un fumetto impostato in maniera classica (così come effettivamente ne hanno fornito per molti romanzi), mentre vengono solo accennati e trattati sommariamente, a causa dello spazio ridotto e della necessità di comprimere le vicende nelle canoniche 46 tavole di un albo franco-belga. Certo: la materia è vastissima, l’aneddotica si mischia alla Storia e la Storia stessa non è univocamente chiara viste le censure operate dal governo cinese e la difficoltà nel reperire documenti. Ma ciò non basta a giustificare gli sceneggiatori, che oltre che caotici e insipidi si sono rivelati anche disattenti: se la vicenda è ambientata nel 1976, alcuni mesi prima della morte di Mao, come fa Deng Yingchao a citare un evento che succederà nell’84?
Si salvano la raffigurazione estremamente realistica e disincantata del luciferino Mao Zedong e l’ironia che affiora nelle reazioni dei giovani funzionari davanti alle rivelazioni di Deng. E nell’ultima tavola, vivaddio, c’è un po’ di pathos, ma è solo una pagina su 46.
Ai disegni Rafaël Ortiz non fa una figura migliore: essendosi basato massicciamente su fotografie, gli basta poco per rovinare l’insieme con una mascella spostata un po’ all’infuori, con un occhio non in linea con l’altro, con una sproporzione nelle dimensioni di un busto. Inoltre il suo tratteggio pesante e nervoso non è molto gradevole da vedere e in molti primi piani i personaggi diventano quasi mostruosi, mentre i dettagli degli sfondi sono a volte (non molte, a dire la verità) solo abbozzati.
Alla fine la parte migliore di questo volume è quella redazionale a cura di Jean-Luc Domenach, da cui però emergono discrepanze con quanto letto nel fumetto – mi è saltata subito agli occhi la differenza di età tra Mao e la sua prima moglie: quattro nel fumetto, sei nel testo.

mercoledì 14 giugno 2017

Quanti altri lo avranno comprato?

Immagino in pochi. Ma se NonaArte pubblica materiale così di nicchia evidentemente le sue proposte (alcune, almeno) devono aver centrato il bersaglio.

martedì 13 giugno 2017

Cico a spasso nel tempo 1: Mai dire Maya

Con un titolo-calembour del genere è stato spontaneo dare fiducia alla nuova miniserie Bonelli, e in effetti la lettura vale abbondantemente i 3,50 € del biglietto.
Seguendo un canovaccio classico (ne esistono pure declinazioni pornografiche), Cico si ritrova a viaggiare nel tempo a causa della sua maldestra curiosità che lo ha fatto azionare un artefatto maya. Questo primo numero si svolge nella Grecia classica, dove Cico viene “adottato” da Socrate e finisce invischiato in un tentativo di omicidio ai danni di Pericle.
Tra citazioni classiche niente affatto banali (le note finali spiegano chi era Santippe a beneficio dei lettori che non abbiano fatto il Liceo Classico) e rare frecciatine alla realtà sociale odierna, Faraci inanella una serie ininterrotta di gag farcendo i dialoghi di sarcasmo e giochi di parole.
Forse questa frenesia umoristica è dovuta al formato originario che probabilmente aveva questo progetto: è evidente infatti che si tratti di due episodi di una trentina di tavole (forse pensati per qualche albetto allegato?) fusi insieme, visto che a metà del fumetto viene riassunta nuovamente la storia – e l’attacco non è nemmeno del tutto coerente visto che i manovali prima erano divertiti dalla sparizione di Cico per poi esserne terrorizzati.
Ai disegni Walter Venturi fa un lavoro egregio: pur se di matrice solidamente realistica, è riuscito a inserire qua e là degli accenni caricaturali (non molti) che ben si sposano con il tono della miniserie. La gag del pesce è fenomenale, anche se chiaramente beneficia dei tempi comici imposti da Faraci, che la anticipa con calcolata naturalezza nell’ultima vignetta di pagina 37 per farla deflagrare in quella successiva.
In appendice ci sono la rubrica di approfondimento Il Serio e il Faceto curata da Faraci e La Comica Finale, una pagina in cui un fumettista umoristico (che sarà diverso per ogni numero) omaggia Cico: per questa prima uscita è stato Sio. C’è inoltre anche un inserto in cartoncino che riproduce la copertina del primo Speciale di Cico.
Il formato è differente dal classico bonelliano, e così a occhio mi sembra un 17x24. La colorazione non toglie né aggiunge molto alle tavole di Venturi (Pericle sarà stato veramente così scuro di carnagione o è stato scelto di colorarlo in tal modo per farlo risaltare di più?) ma stavolta la carta non patinata si adatta bene al personaggio restituendo un certo sapore vintage.
Il prossimo numero ha un titolo ancora più esilarante: Unno per tutti, tutti per unno!

domenica 11 giugno 2017

Sarà vera gloria? Ai posteri...

Ci avevo riposto molte speranze, ma arrivati al quinto episodio si intuisce appena la direzione che prenderà questa serie. Finora i singoli episodi si sono basati sullo stesso schema: il protagonista si ritrova di volta in volta in un ambiente diverso dove parla con gli animali locali che sono sin troppo didascalici nel descrivere le loro caratteristiche.
Ma forse, al termine di quello che immagino essere il primo volume, la storia ha trovato il suo senso e la trama verso cui tenderà in futuro. Speriamo bene. I disegni, comunque, sono molto buoni.

venerdì 9 giugno 2017

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Adoro le collane come Marvel Universe, Marvel Mix, Marvel World, Marvel Qualsiasialtraroba. Per una manciata di euro permettono di leggere un bel po' di roba, almeno 4 comic book al colpo, occasionalmente su buona carta e stampati bene.
Poco importa se poi nei fatti il fumetto in sé è poca roba, l'impressione di aver fatto un affarone basta a farmi produrre endorfine. È capitato con il recente Marvel Miniserie 184 che raccoglie la miniserie in quattro episodi Death of X e il numero 0 di Inhumans Vs. X-Men. Il fumetto in sé non è affatto male (valida costruzione della tensione, nessuna battuta scema, bei disegni) ma stavolta non mi ha offerto il destro per un post-pinailleur. Me lo sono spulciato varie volte per vedere se qualche personaggio cambiasse acconciatura o costume di vignetta in vignetta, o se ci fossero errori nei testi, ma non ho trovato niente!
È stato comunque piacevole vedere che i brossurati economici da edicola della Panini continuano a uscire[http://lucalorenzon.blogspot.it/2017/03/e-solo-una-mia-impressione.html], seppur diradati rispetto al passato, tanto più che questo La Morte di X è composto da cinque comic book che in alcuni casi sfiorano le 30 pagine e quindi il prezzo di 6 euro è piuttosto vantaggioso.
Niente male, insomma, per un volumetto che ho preso principalmente per sopperire alla latitanza dell’ultimo Martin Mystère, annunciato proprio per oggi.

giovedì 8 giugno 2017

Giuseppe Bergman Integrale Volume 2

Della pessima resa dei colori in Indian Summer avevo già avuto modo di lamentarmi.
La colorazione del secondo Integrale di Giuseppe Bergman non è altrettanto deludente, ma mette comunque impietosamente in risalto i limiti delle tecnologie moderne, o forse della creatività di chi le usa. In pratica ognuno dei tre episodi qui raccolti fornisce un esempio concreto di un difetto specifico della computer grafica: quelli realizzati da Luca Saponti per Sognare, forse… (ma perché ribattezzare la storia Le Avventure Orientali?) sono di una freddezza disarmante e il fatto che cerchi di simulare l’uso di tecniche analogiche finisce per renderli ancora più freddi e artefatti: a pagina 101 vediamo che in alto a destra nelle vignette viene ripetuto LO STESSO IDENTICO PATTERN a simulare l’uso degli acquerelli, che si può riscontrare anche altrove con colori diversi! Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Annalisa Leoni dal canto suo in A Riveder le Stelle appiattisce tutto il lavoro di mezzatinta che Manara aveva realizzato per quell’opera (che possiedo nella versione francese della Casterman con serigrafia allegata: mi chiedevo infatti da anni come avrebbero tradotto in italiano «Amour et Argent», e semplicemente non l’hanno tradotto). Per poter amalgamare i suoi colori con la colorazione preesistente, perché Manara in questo episodio non si era limitato a sfumare l’inchiostro ma aveva abbozzato dei blandi colori in certi dettagli, ha dovuto sottoporre le tavole a più passaggi di lavorazione informatica che hanno finito per indebolire il tratto di Manara.
Sempre la Leoni in L’Odissea di Bergman, quello dalla resa in assoluto migliore, cede alle lusinghe degli effettini finendo così per vanificare il lavoro dignitoso che aveva realizzato: i riflessi della luce sul mare sono squisitamente kitsch, tanto per limitarmi a un esempio macroscopico (dopo un po’ i raggi di luce non si notano nemmeno più visto che sono dappertutto).
Io non ho nulla contro i due coloristi, che probabilmente nel loro settore sono delle eminenze (sono sicuro di aver già letto il nome della Leoni da qualche altra parte): semplicemente hanno fatto quello che hanno potuto con i mezzi che sono stati concessi loro, forse con un budget che richiedeva tempi stretti e senza alcuna formazione accademica alla base. Tanto, ormai, quasi tutti i fumetti vengono colorati col computer e il lettore non ci fa più caso – ma dubito che i lettori moderni non coglieranno la differenza tra il lettering manuale di Sognare, forse… e quello meccanico degli altri due episodi. È proprio lo strumento che ha dei limiti che, finora e almeno in queste circostanze, risultano invalicabili.
Il volume di per sé è comunque bello. Il formato, in quest’epoca di miniaturizzazioni indiscriminate, sarà un 25x35 o giù di lì. Cartonato e stampato su patinata lucida, offre in appendice delle splendide illustrazioni di Manara con cui rifarsi gli occhi dopo i toni lividi di Saponti e il flou della Leoni. Si sente un po’ la mancanza di redazionali, ma forse erano presenti nel primo Integrale che io non ho comprato. Segnalo che manca il testo di un balloon a pagina 189 (ma è uno di quelli “urlati” di scarsa rilevanza, forse il testo era scritto in francese da Manara direttamente sulla striscia), una didascalia a pagina 214 è parzialmente tagliata (niente di che: il testo si capisce lo stesso) e l’errore di mettere «vedere» invece di «vendere» (cosa che col vecchio lettering manuale probabilmente non sarebbe successa) indebolisce il discorso che Manara voleva fare a pagina 158, ma l’edizione vale comunque i suoi 27 euro, considerando che le ultime due storie sono lunghe ben 56 pagine mentre Sognare, forse… dura quasi il doppio.
Curiosamente, ho notato che l’erezione del bambino in Sognare, forse… non è stata censurata, mentre invece la protagonista Francesca Foscari, nome che all’epoca della pubblicazione su Corto Maltese aveva sollevato le proteste di una nobildonna veneziana omonima, è diventata semplicemente Fosca! Immagino che gli interventi siano precedenti a questa edizione, perché le correzioni sono state fatte palesemente a mano. E nella loro improvvisata artigianalità sono stupende, altro che computer.

martedì 6 giugno 2017

Tanto per essere sicuri...

…la versione bonellide di Fables ha chiuso, vero? È da mesi che la fumetteria dove la compravo non ne riceve una copia, e d’altra parte non l’ho più vista nemmeno in edicola (dove arrivava un po’ dopo, ma ci arrivava). Non che la cosa mi dolga più di tanto, ma ormai che avevo cominciato mi sarebbe piaciuto sapere come andava a finire. E poi mi sembra strano che una testata pubblicata nel formato più amato dagli italiani scompaia dopo ben 35 numeri al suo attivo. E se la RW Lion avesse deciso di interromperla per dirottare i lettori sui trading paperback per completare la saga?

domenica 4 giugno 2017

Airboy

Preso principalmente per i Fumettisti d’Invenzione ma con la speranza che fosse comunque interessante. Non mi è andata bene. Airboy racconta di un tentativo di rilancio del vecchio personaggio libero da copyright da parte della Image che lo affida al recalcitrante sceneggiatore James Robinson.
Robinson si descrive come una persona disgustosa, pessimo marito perso tra droghe pesanti e autocommiserazione. Col suo sodale superdotato Greg Hinkle, che ha scelto come disegnatore, va in giro per i locali di San Francisco a strafarsi e a scopare la prima che passa, finché Airboy in persona compare nelle loro vite.
Immaginando che si tratti solo di un’allucinazione dovuta alle sostanze psicotrope e all’alcol (non disdegnando però anche altre spiegazioni) i due stanno al gioco e danno corda all’eroico e ingenuo Airboy finito nella sordida San Francisco contemporanea, finché questi esasperato li trasporta nel suo mondo di fantasia dove dovranno contribuire alla causa degli eroi aviatori che combattono contro i nazisti.
Il giochetto metanarrativo è alla fine solo la scusa per inanellare stereotipi, le battute sono spesso scontate (ma alcune fanno sorridere) e il maledettismo egocentrico di Robinson risulta esagerato e fasullo – e spero bene che lo sia: se uno si spara veramente tutti quei cocktail di droghe si guarderà bene dal dirlo pubblicamente. Non capisco proprio il vittimismo dello sceneggiatore, né trovo elegante che getti i suoi problemi e le sue paturnie in faccia al lettore: sicuramente non sarà ai livelli di popolarità di Gaiman o Moore ma mi pare che abbia comunque un suo seguito, e soprattutto che continui a lavorare nel settore. Certo, piangendosi addosso Robinson si è risparmiato la fatica di trovare qualche idea originale con cui portare avanti la trama.
Il finale di Airboy, poi, è decisamente banale (anche il cazzo enorme di Hinkle era un sogno) e finanche patetico col suo messaggino implicito sulla necessità di voltare pagina.
Robinson spiega di aver scelto proprio Hinkle come disegnatore perché si discosta dallo stile classico dei disegnatori americani. Detta così sembra una buona notizia, ma purtroppo Hinkle si differenzia dagli altri autori di comic book perché è esasperatamente caricaturale. È innegabile che molte tavole siano state costruite con abilità e che in generale abbia dedicato molta cura ai dettagli, ma comunque non è il mio genere.
Anche in riferimento ai Fumettisti d’Invenzione Airboy presenta qualche problema: come lo categorizzo? Lo inserisco in una voce a sé o parto da quella dell’Airboy originale, di cui effettivamente può essere considerato una versione?

venerdì 2 giugno 2017

Historica 56 - Hasta la Victoria! 1: Cuba 1957

Da quindicenne lettore di Nathan Never non mi piaceva affatto il tratto di Casini e per tutta la mia breve vita di lettore occasionale della testata saltavo accuratamente i numeri disegnati da lui.
Forte della maggiore consapevolezza estetica che spero di aver raggiunto (e del fatto che sicuramente l’autore avrebbe curato di più un progetto personale alla francese) ho dato una chance a questo nuovo numero di Historica. Ma non c’è nulla da fare: il tratto grottesco di Casini, i suoi personaggi caricaturali, l’inchiostrazione poco decisa e le sue donne squadrate e bruttine non fanno per me. Tanto più che la colorazione che ha scelto fa sembrare le tavole delle serigrafie con delle grandi campiture di colore a coprire spazi enormi, mentre le figure umane rimangono spesso avvolte in un pallore desolante. Visti i premi che ha vinto Casini, evidentemente è un limite mio, ma tant’è. Peccato, perché la storia è pure interessante.
Nel 1957 sbarca a L’Avana il marinaio Nero Maccanti, indirizzato da un collega verso una pensione in particolare. Qui si trova coinvolto per puro caso (ma sarà vero?) in un complotto contro il governo di Fulgencio Batista, mentre una pletora di altri personaggi animano il primo capitolo, che infatti pur essendo introduttivo conta 54 tavole contro le canoniche 46.
La ricostruzione storica è scrupolosa e affascinante, il protagonista è credibile e non troppo stereotipato (anche a me ha ricordato Corto Maltese) e la narrazione procede guizzante nei rivoli delle piccole storie di cui è composta – il secondo capitolo è nettamente più corale e Nero diventa quasi solo una figura tra le tante che animano la storia. C’è forse appena appena un po’ di didascalismo in alcuni dialoghi, a volte i personaggi tendono a “spiegare” troppo, ma visto che Casini si è sobbarcato quella che deve essere stata una ricerca di documentazione monumentale è anche giusto che faccia vedere di aver “fatto i compiti”.
La trama è insomma interessante e coinvolgente e invoglierebbe a comprare il seguito (Hasta la Victoria! si sviluppa su quattro volumi, qui ne vengono proposti i primi due). Poi però guardo le dita sproporzionate e nodose dei personaggi e mi passa tutta la voglia di sapere come andrà a finire…
Non me ne voglia Casini (che con la sua carriera e i suoi premi dubito sia interessato a quello che penso del suo lavoro), ma proprio non è il mio stile. Va detto anche che la qualità di stampa non è perfetta e il tratto già flebile di Casini viene svilito da una riproduzione che lo rende un po’ flou, maledizione delle moderne tecnologie di acquisizione e successiva riproduzione delle immagini. Molto interessante l’introduzione di Sergio Brancato, una delle migliori lette finora.