domenica 30 novembre 2014

Fumettisti d'invenzione! - 87



Mi permetto di integrare il divertente e interessantissimo volume di Alfredo Castelli con altri “fumettisti d’invenzione” e simili.
In grassetto le categorie in cui ho inserito la singola segnalazione e la pagina di riferimento del testo originale.

Puntata monografica: tutti fumetti che rientrano nella categoria Fuori tema: fumettisti non d’invenzione: citazioni, caricature, camei; fumetti biografici; metafumetti e autoreferenzialità; parodie
FUMETTI BIOGRAFICI (pag. 63)
Non sono acora riuscito a mettere le mani sul libro di Vincino Una Vita Disegnata ma a rigor di logica anche quello rientra nella categoria.

L’ASCENSION DU HAUT MAL (IL GRANDE MALE)
(Francia 1996, © L’Association/David B., autobiografico)
David B. [Pierre-François Beauchard]

Le vicissitudini della famiglia Beauchard il cui promogenito Jean-Cristophe è affetto da epilessia. Benché David B. si concentri principalmente sulla narrazione delle condizioni del fratello e sugli effetti che ebbero sulla sua famiglia, un certo peso hanno anche i racconti dei suoi esordi e del suo affermarsi come autore di fumetti.
Pseudofumetti: oltre a quelli effettivamente pubblicati, l’autore ricorda diversi progetti solo immaginati, iniziati ma mai finiti oppure realizzati ma non pubblicati. Quelli di cui è più facile ricostruire il titolo sono: Tamerlan, La Flotte, Monsieur le Tigre, Le Diable Rouge, Lola Voie Lactée, La Sortie de Classe, Le Royaume Mécanique, Timide Vengeance, “Je est un autre”, Le Journal du Chat, Le Rat, La Maison aux miroirs, Le Regiment Noir, Secret Jaune, Néant Perthuis, Le Temps du rêve, La mort du Petit Loup.

GRAPHIC NOVEL IS DEAD
(Italia 2014, © Toffolo, autobiografia)
Davide Toffolo

Una graphic novel che ha come obiettivo programmatico l’uccisione delle graphic novel per rifondare il genere. Si tratta di una raccolta di brevi sprazzi sulla vita del fumettista e rocker Davide Toffolo, realizzati sia con la più canonica tecnica del fumetto (colorato da Alessandro Baronciani) che aggiungendo balloon ad alcune fotografie.
La maggior parte di queste sequenze si concentra sull’attività musicale di Toffolo/Eltofo (leader del gruppo Tre Allegri Ragazzi Morti) e sulla sua vita privata, lasciando poco spazio alla sua esperienza di fumettista – ma molto di più a quella di lettore di fumetti.
Pseudofumetto: Eltofo!, un comic book edito nel 2025 in cui Toffolo si trasfigura in un lottatore di wrestling prendendosi così sul ring delle rivincite su un politico e un organizzatore di concerti che evidentemente non gli stanno troppo simpatici.

NON E’ STATO UN PIC NIC!
(Italia 2009, © Stefano Babini & Dark Crow, autobiografia fantastica)
Stefano Babini

“Fumanzo” (misto di fumetto e romanzo) in cui l’autore trasfigurato nella figura del fumettista Bandini mette in scena la grave patologia che lo ha afflitto, le sue molteplici e spesso tormentate storie d’amore e la sua attività professionale.
Diversi fumettisti reali come Hugo Pratt fanno capolino nella storia, occasionalmente celati dietro nomi di fantasia: Davide Fabbri diventa ad esempio Davide Ferri.
Pseudofumetti: tecnicamente non sono pseudofumetti ma progetti che non hanno trovato (ancora) completa realizzazione e pubblicazione: a Bandini era stata proposta dalla Gazzetta dello Sport la biografia a fumetti del “Bucaniere” (ovvero Pantani) rimasta inedita a causa dei guai giudiziari del ciclista; Bandini abbozza inoltre una serie ispirata al film I Professionisti che incontra l’interesse di un editore francese ma che poi non realizza per orgoglio.

LA VIE EXEMPLAIRE DE JIJÉ
(Francia 1981, in Metal Hurlant, © Humanoïdes Associés, biografico)
Yves Chaland [con la collaborazione di Serge Clerc e Denis Sire]

La vita opportunamente romanzata di Jijé, al secolo Joseph Gilain, da poco scomparso e autore importantissimo del panorama franco-belga oltre che maestro, tra gli altri, di Jean Giraud e Jean-Claude Mézières.

venerdì 28 novembre 2014

Non solo "collection spaghetti"...

Quasi a bilanciare l'exploit non felicissimo di un paio di anni prima, (A SUIVRE) ospitò una ricognizione un pochino più circostanziata sulla scena fumettistica italiana e sulla sua storia, pur se i fumetti come Tex Willer venivano sempre trattati con sufficienza.
A testimoniare l'importanza e le vette del fumetto made in Italy vennero interpellati Antonio Tabucchi, Paolo Conte, Oliviero Toscani e persino Liliana Cavani e Monica Vitti, che ignoravo fossero lettrici appassionate di fumetti.
(da (A SUIVRE) 205 del febbraio 1995

martedì 25 novembre 2014

Un mistero italiano. Anzi franco-belga. Anzi belgo-tedesco.



Éric Warnauts e Raives (al secolo Guy Servais) sono due autori belgo-tedeschi che hanno realizzato un sacco di volumi a fumetti. Hanno anche lavorato divisi o collaborando con altri autori ma nei paesi francofoni sono maggiormente noti come una coppia consolidata al pari di Muñoz & Sampayo e Berardi & Milazzo.
Il loro metodo di lavoro è originale: a scrivere è sempre Warnauts e a colorare è sempre Raives, ma i disegni li fanno tutti e due insieme lavorando contemporaneamente sulle stesse tavole.
I loro marchi di fabbrica sono un rigoroso realismo, che si riflette anche sui disegni, e (da quello che ho potuto leggere) un costante sottofondo malinconico che riaffiora in tutte le ambientazioni che hanno trattato. Oltre a una certa passione per l’Italia, soprattutto per le donne italiane.
Nonostante quest’ultimo particolare sono quasi inediti in Italia; sarà che a me piacciono molto i disegni di tipo realistico e molto elaborati, ma non riesco a capire come mai qui da noi non se li sia mai filati nessuno. Solo in tempi recentissimi hanno conosciuto un po’ di interesse da parte dell’Eura/Aurea a partire dal seminale Lou Cale, ma solo da quando l’onnivora casa editrice romana ha avuto la necessità di riempire i suoi settimanali col materiale più a buon mercato che si può pagare coi diritti internazionali.

Comic Art negli anni ’90 era diventata un po’ una succursale italiana di (A SUIVRE) e avrebbe potuto presentare qualcuna delle loro storie invece che il pesantissimo Le Grinfie del Destino o il delirante L’Occhio nel Cielo o anche Leon lo Strambo, valido ma decisamente troppo fuori dai canoni. Mah.

domenica 23 novembre 2014

Da Braccio di Ferro a Provolino - Il fumetto umoristico italiano dimenticato



«Erano altri tempi. [...] Era un mondo privo di iPhone e tablet, digitale terrestre e TV al plasma e ADSL e playstation... Ma era anche un mondo nel quale i bambini e i ragazzini leggevano tanto. Le edicole venivano sommerse da una marea di fumetti [...]» Bastano queste parole in quarta di copertina per evocare quell’epoca neanche troppo lontana in cui trovarono il loro spazio i fumetti Bianconi e per riassaporare un po’ della nostra (cioè degli over 35) infanzia.
Ma l’effetto nostalgia non è affatto il principale motivo di interesse di questo saggio di Salvatore Giordano, che offre ben di più. Da Braccio di Ferro a Provolino è una scrupolosa ricognizione di TUTTE le testate prodotte dall’editore Bianconi/Metro/Il Ponte, con una corposa appendice dedicata a quei comprimari che non si videro dedicata una testata propria.

Dopo una prefazione e una breve (forse troppo) storia della casa editrice Bianconi comincia la raffica di schede con cui Salvatore Giordano ha sviscerato con rigore da entomologo i dettagli dei “giornalini”. La descrizione delle serie ha dimensione e articolazione diverse a seconda dell’importanza e della longevità dei protagonisti, e nel caso di star come Braccio di Ferro e Nonna Abelarda viene divisa in ulteriori capitoli più approfonditi. Viene poi offerta una selezione di letture consigliate e a conludere la trattazione ci sono una cronologia (comprensiva di ristampe) e delle note collezionistiche sul valore degli albetti e sulla loro reperibilità. Giordano ha saputo destreggiarsi con equilibrio tra inevitabili considerazioni tecniche, slanci passionali e succulenta aneddotica senza mai sbilanciare la trattazione in un verso piuttosto che in un altro evitando quindi sia panegirici entusiasti che sarebbero sembrati stucchevoli sia un freddo accademismo – ma quest’ultimo non ci sarebbe comunque stato viste le arguzie che inanella occasionalmente, spesso esilaranti: «Immaginate un film western interpretato da un giovane Diego Abatantuono che si ritrova come madre Tina Pica, e avrete idea del tono delle storie».
Verrebbe quasi da dire che la sola scheda di Geppo valga l’acquisto, ma non mi spingo a tanto. A tal proposito, nei miei ricordi d’infanzia mi sembra di aver letto delle origini diverse rispetto a quelle riportate: i diavoli (o il solo Geppo) erano angeli caduti corrotti in qualche maniera. Boh.

La grafica della copertina è molto bella, soprattutto quella della quarta di copertina, ma anche gli interni sono sobri ma invitanti e forse anche questo ha contribuito a farmi divorare il libro.
Refusi ed errori sono pressoché inesistenti, segnalo solo che per diventare Niko il buon Pierino deve aver subito una rinoplastica invece della mastoplastica attribuitagli: con ogni evidenza gli hanno ridotto il naso, non le tette!
L’effetto richiamato nella prefazione («Madò, ma questo me lo ricordo!») non ha mancato di coinvolgere anche me, che sono incappato in più di una madeleine proustiana, anzi giordaniana: il fumetto del tizio grasso con l’ombra magra esisteva veramente, allora! E se avessi saputo che ne sarebbe stato pubblicato un unico esemplare l’avrei fregato alla cugina da cui lo avevo visto da bambino.

Chiaramente Da Braccio di Ferro a Provolino si rivolge idealmente agli appassionati di fumetto italiano per bambini extra-Disney, sperando che esistano (dalle quotazioni irrisorie di quasi tutti gli albi sembrerebbero comunque pochi al momento), ma può essere un testo piacevole anche per un profano e sicuramente interessante per chi aprrezza in generale i fumetti italiani. Alcune storie riportate, poi, sembrano essere state inserite apposta per figurare tra i Fumettisti d’invenzione.

Ora, siccome par brutto parlare troppo bene di qualcosa che ha prodotto un amico (per quanto amico virtuale di blog, magari se ci incontrassimo di persona io e Salvatore ci prenderemmo a schiaffi, e chissà che non sia già successo) ho cercato di trovare qualche difetto nel suo saggio. Visto che i refusi sono veramente quasi inesistenti (Galeppini al posto di Galleppini, politically correct è aggettivo e non sostantivo... bazzecole, insomma) ho provato a inventarmi qualcosa ma ho trovato solo appigli ridicoli o proprio tirati per i capelli: da un editore che si chiama SensoInverso mi sarei aspettato pubblicazioni bizarre, non saggi sui fumetti… una collana che si intitola ItaliaNascosta dovrebbe trattare di P2 e SISMI, non di giornalini…
Per cui le mie critiche si limitano a una sola: io per leggere il libro ho dovuto aspettare un paio di settimane, quei paraculi di Sbam-Comics lo hanno letto un mese fa prima ancora che andasse in stampa! Spero che loro se lo siano letti solo nelle prove di stampa in .pdf, io ce l’ho cartaceo con la bella carta avoriata che contribuisce a creare un’atmosfera vintage. Tiè.

venerdì 21 novembre 2014

Il meglio di Lucca 2014

In alcuni numeri fine anni '70 attentamente selezionati di Alter e Il Mago ho trovato un bel po' di lavori di Masciangelo e Alligo (forse Alligo l'ho pure incrociato la mattina del primo giorno). Ovviamente si tratta di gioielli, e compensano tutti i Panebarco, Cavezzali e Scozzari con cui condividono quelle gloriose pagine.
Certo, è un po' inquietante che il miglior acquisto di questa Lucca sia materiale che risale a 35 anni fa.

giovedì 20 novembre 2014

Adam Wild 1: Gli Schiavi di Zanzibar



Si avvia alla conclusione la ricognizione del bottino di Lucca 2014. È un po’ ridicolo parlare con tanto ritardo di un fumetto uscito ormai da un bel po’, che già recensioni più puntuali e approfondite ha avuto; quindi manco lo faccio, tanto tutti ormai sapranno di cosa parla e quali riscontri abbia avuto Adam Wild.
Solo due appunti. Il primo: visto che c’ero ho preso una copia con la variant cover anche per me oltre a quelle da regalare in giro, cosa che mi ha permesso di scambiare due parole con Enrique Breccia che si è ricordato (il simpaticone) dell’intervista che gli avevo mandato un paio di anni fa e mi ha promesso di rispondermi il prima possibile. Attendo fiducioso.

Secondo appunto: alla fine questo Adam Wild non mi è sembrato affatto male. L’insistito e ostentato ritorno a un’avventura di stampo classico non ha significato il ricorso a scenari banali e a situazioni già viste. Come da migliore tradizione manfrediana l’ambientazione è documentatissima, inoltre (forse proprio grazie alla documentazione che ha portato alla scoperta di situazioni strane ma reali) c’è stato un ampio margine di originalità, se non altro per la strana “base” che ha il protagonista ovvero l’emporio su uno scoglio raggiungibile in barca. Molto simpatica la scena in cui Adam e Makibu se la ridono all’osservazione di Narciso Molfetta che la polizia (corrotta, ma Narciso non lo sa) deve essere informata del traffico di schiavi.
Anche Nespolino, per me una vera rivelazione su Volto Nascosto, non mi ha deluso nonostante le anticipazioni del suo Adam Wild viste in rete fossero assai più scarne e semplificate dei precedenti lavori. Dei tratteggi e dei dettagli curatissimi restano poche tracce (questo processo di semplificazione era già in corso da Shanghai Devil, comunque) ma i suoi disegni sono efficaci in ogni caso. Nettamente meno belli ma sempre validi.
Anche se non ho ancora preso il secondo numero non escludo una prossima frequentazione con Adam Wild.

martedì 18 novembre 2014

Le mirabolanti avventure di Edson Paz a El Alto 2: Edson Paz e la Signora di Cao



Ahia. Il secondo episodio di Edson Paz non comincia nel migliore dei modi. La narrazione è piuttosto confusa e uno degli elementi più rilevanti della trama è di carattere sovrannaturale, cosa che io non apprezzo molto. Per fortuna è solo un falso allarme: dopo una trentina di pagine tutti i fili della narrazioni si annodano e l’azione entra nel vivo stabilizzandosi sui binari di una classica avventura dall’impianto solidissimo, con il giusto equilibrio tra esotismo, azione e scrupolo documentaristico.
Stavolta il tassista sudamericano si trova invischiato nel caso della misteriosa “Signora di Cao” del titolo, apparentemente l’unica regnante donna del popolo Moche, presso cui si riteneva vi fossero solo sovrani maschi. Il ritrovamento delle sue spoglie (fatto realmente avvenuto a cui PiElle dà la sua interpretazione) apre inaudite prospettive archeologiche e storiche. Ma attira anche l’avidità di trafficanti e speculatori che si affidano ai personaggi senza scrupoli già intravisti nell’episodio precedente.
Edson Paz e la Signora di Cao è frenetico ma al contempo narrativamente assai denso. Basandosi su una documentazione rigorosa offre un buon tempo di lettura oltre che una vicenda coinvolgente. Rispetto alla prima avventura di Edson Paz c’è stato un certo miglioramento nel posizionamento dei balloon ma la punteggiatura a volte mi lascia perplesso: occasionalmente non ho capito se l’accoppiata punto esclamativo-punto di domanda servisse a esprimere dubbio, perplessità, una semplice domanda o cos’altro.

Dal punto di vista grafico Fabio Babich offre la sua elegante ligne claire opportunamente rinforzata da neri profondi laddove richiesto dalle singole scene. Una scelta stilistica forse un po’ troppo pulita per una storia dai toni avventurosi, ma che viene bilanciata dal lavoro di cesello fatto per rendere i numerosi flashback. Per vedere un Babich ancora più spettacolare (e a mezzatinta) procuratevi il numero 6 del nuovo Splatter.

venerdì 14 novembre 2014

A Hell of a Woman (anticipazione da Fucine Mute)



Per fare un libro d’artista non serve per forza metterci dei bulloni come usava fare Dinamo Azari o pitturare dei fumetti come faceva Paolo Canevari.
È pur vero che la versione di A Hell of a Woman/Une Femme d’Enfer edito da La Baconnière non è propriamente un libro d’artista visto che è un’opera di narrativa e viene distribuito e venduto, ma non è neppure un esperimento come quelli in cui Möebius e Manara venivano invitati a illustrare Coelho e Wilbur Smith. Quindi, per quanto il paragone sia improprio, viene spontaneo farlo visto che il volume fa parte della collezione “Trou Blanc” con cui l’editore ginevrino lascia carta bianca agli illustratori per realizzare come meglio desiderano anche l’impaginazione e la grafica. E la personalità di Thomas Ott viene fuori in tutta la sua potenza.
Il libro di Jim Thompson è una parabola desolata e beffarda (se non leggete in francese e questo stimolo non fosse sufficiente a impararlo, il romanzo è edito in Italia da Fanucci col titolo Diavoli di Donne) che accompagnato dalle quasi 200 illustrazioni di Thomas Ott raggiunge un ulteriore livello di disperato sarcasmo visto che l’illustratore non si limita a rappresentare quanto viene scritto ma ne interpreta i passaggi fornendone intepretazioni per niente scontate e offrendo delle associazioni concettuali ora spiazzanti ora illuminanti.
Sull’abilità alla scrapboard di Thomas Ott non è necessario soffermarsi: se mai ci fosse bisogno di confermare la sua statura di artista basterebbe ricordare che la sua opera figurava nella collezione di nientemeno che Hans-Rudi Giger. Ma al di là della “semplice” ed elevatissima capacità tecnica di Ott, è notevole come il suo lavoro su questo libro porti a dei corti circuiti metanarrativi e offra lo spunto per divagazioni metatestuali più o meno divertenti (le associazioni concettuali di cui parlavo sopra). Fondamentalmente le sue illustrazioni si dividono in poche tavole fuori testo a tutta pagina di gusto più classico e in una miriade di piccole illustrazioni che accompagnano e offrono nuove interpretazioni al testo. Se dal mero punto di vista estetico sono senz’altro più accattivanti le prime, trovo che sia con il sapiente uso delle seconde che Ott mostri la sua raffinatezza. Ci sono infatti sia divertiti contrappunti ironici a passaggi quali «Sono una meraviglia, i nostri clienti» e «Avevo altre cose per la testa», ma ci sono anche delle riuscite strizzatine d’occhio più elaborate: come si fa a rappresentare frasi come «Ma, caro lettore, era una trappola!»? Beh, Thomas Ott ci riesce. Mi verrebbe quasi da dire che con le illustrazioni appaiate alle pagine 152 e 153 Ott abbia voluto creare una relazione temporale come se fossero vignette di un fumetto, ma forse mi sto spingendo troppo in là...
E fin qui siamo nel campo dell’illustrazione pura e semplice. Quello che è ancora più interessante rilevare è come Ott abbia lavorato sulla confezione stessa del libro fingendo che si tratti di una raccolta di pulp magazines con tanto di copertine (patinate per distinguerle dalle altre pagine) a scandire le uscite delle fittizie riviste e bordi sagacemente ingialliti.
Gli inserti colorati confermano la predilezione di Thomas Ott per i colori primari, che già si intuiva dalla cover di Racconti dell’Errore, ed è curioso notare come ci sia perfetta continuità tra il bianco e nero allucinato e minuzioso per cui è celebre Ott e le sue masse di colore nette e brillanti: anche le seconde, proprio perché così squillanti e irreali, riescono a trasmettere un’impressione di estraneità, se non proprio di morbosa alienazione. Che poi, data la trama e l’evento centrale di Une Femme d’Enfer, è esattamente la soluzione migliore per introdurne i contenuti. Il tutto limitando la tavolozza al rosso e al blu.
La scelta del digest di inesistenti fascicoli pulp è inoltre anche funzionale alla lettura visto che così il lettore si trova tra le mani un formato schematico che invita alla lettura, in una ricostruzione incalzante del romanzo come mosaico di singoli pezzi. Romanzo che, per inciso, viene qui presentato con l’ultimo capitolo nel formato voluto originariamente da Jim Thompson e cassato dal suo primo editore statunitense – e sul quale non aggiungo altro per non rivelare nulla del punto focale della trama.
A integrare questa edizione d’artista di A Hell of a Woman un inserto biografico a cura di Markus Rottman dedicato alla strampalata vicenda umana di Thompson, che nulla aveva da invidiare a quella dei suoi protagonisti: A Hell of a Life ne è infatti il titolo e «la più dura storia di Jim Thompson è quella su Jim Thompson» l’azzeccato sottotitolo.
Gli appassionati di Thomas Ott o di grafica o di begli oggetti editoriali possono procurarsi questo gioiellino qui.

martedì 11 novembre 2014

Historica 25 - reprise



Alla fine me lo sono riletto tutto d’un fiato. Credo di aver capito perché, oltre al “reddito di posizione” già accumulato da Hermann con la sua ventennale carriera, Le Torri di Bois-Maury sia considerato un capolavoro del fumetto franco-belga.
In quelle tavole, e si era nel 1983/84, non ci sono didascalie. Hermann sviluppa la narrazione partendo da dettagli e particolari che servono a guidare il lettore e a contestualizzare le scene, ma sa anche far deflagrare le pagine con delle illustrazioni quasi a piena pagina in cui si rimane affascinati dal profluvio di dettagli, dal senso della prospettiva e addirittura dall’impressione di movimento (vedi la celeberrima sequenza dei muratori che lavorano alla cattedrale nel primo episodio). E d’altra parte Hermann è veramente il maestro del dinamismo e della mobilità, riesce a ricreare l’illusione del movimento nelle singole vignette come nessun altro, e senza ricorrere a particolari artifici. Insomma, anche se trovo che il termine sia fin troppo abusato e usato quasi sempre a sproposito, il suo stile è veramente cinematografico.
Per quel che riguarda i testi, cosa che a suo tempo mi aveva lasciato interdetto, Hermann non si abbassa quasi mai a spiegare al lettore cosa sta succedendo e cosa pensano i personaggi. Anche nelle situazioni più banali e scontate i suoi attori preferiscono parlare per allusione più che essere diretti. E così il lettore si trova a dover assumere un ruolo più attivo del solito nella lettura del fumetto e nella sua interpretazione, facendosi coinvolgere di più.
Poco importa quindi che a livello estetico tutti i personaggi di Hermann somiglino a ET l’Extraterrestre disegnato da un artista underground che deve ancora prendere confidenza con il rapidograph.

lunedì 10 novembre 2014

Una storia lemming



Io Palumbo non lo capisco. O meglio, posso capire benissimo le sue scelte professionali ma ciò non toglie che mi sembri un peccato che non riesca a mediarle in maniera più equilibrata. Per lui ci sono solo il popolare-popolare (Diabolik dopo Martin Mystére) e lo sperimentale più spinto, colto, impegnato, che spesso produce esiti più simili a saggi illustrati che a fumetti, per quanto splendidamente disegnati (vedi soprattutto L’Elmo e la Rivolta e Diario di un Pazzo).
Quanto mi piacerebbe, invece, vederlo all’opera su una classica serie franco-belga a colori, cosa che ha pure fatto ma che è rimasta senza seguito. Comunque sia, Una storia lemming si inserisce nel secondo filone della sua produzione, come si intuisce anche dalla raffinata edizione mignon della Comma22. L’esperimento nasce da una collaborazione con l’ONLUS CEFA (i dettagli in una prossima intervista a Palumbo su Fucine Mute) ed è il frutto del lavoro di 28 studenti di due scuole bolognesi che hanno fornito personaggi, soggetti e sviluppi della trama che ha come temi portanti la sostenibilità e il progresso.
Nove adolescenti si stanno preparando per l’esame di maturità ma al contempo hanno un’intensa attività sociale tramite oniro.app, una sorta di social network i cui partecipanti riescono a condividere i sogni. Durante l’attività onirica ricevono dei messaggi criptici sul loro futuro, compiono azioni che si riflettono nella vita reale e scoprono qualcosa su se stessi. A toglierli dalle situazioni più strane o imbarazzanti interviene Tusitala, che io sapevo essere il soprannome di Louis Stevenson ma che in Una storia lemming è un uomo di colore.
Se non bastassero gli splendidi disegni di Palumbo a giustificare l’acquisto, va segnalato come la storia (volutamente evanescente e centrifuga) sia molto suggestiva e coinvolgente. A integrazione della parte principale c’è la tavola unica A Mare che testimonia l’origine dell’ispirazione di Palumbo, un’altra breve “storia lemming” disegnata e colorata da Enrico Pierpaoli e tre tavole a colori in cui Palumbo interpreta a fumetti Hai viso di terra scolpita di Cesare Pavese.

domenica 9 novembre 2014

Agenzia investigativa Carlo Lorenzini



Come scritto nell’introduzione di Luca Baino, l’idea alla base di questo progetto non è originalissima – e doveva sembrarlo ancora di meno quando venne presentato per la prima volta nel 2006 come riempitivo a fumetti per la rivista a diffusione gratuita (sponsorizzata da Antonveneta) Clubba.
I personaggi delle fiabe e della letteratura vivono tra noi, resi “reali” dalla popolarità delle opere che ne parlano, e gli agenti dell’Equilibrio scelti dalla musa Clio devono vegliare affinché non commettano qualche sciocchezza. Nello specifico, il ruolo di Guardiano è attualmente ricoperto da Pinocchio che lo ha ereditato da Marco Polo (che era sì un personaggio realmente esistito ma che è divenuto immortale come protagonista di Le Devisement du Monde). Pinocchio ha messo su un’agenzia investigativa e si è cambiato nome in Carlo Lorenzini in onore del suo padre letterario.
Partendo dallo stesso assunto di base di Fables ma guardando anche alla League of Extra-ordinary Gentlemen Manfredi Toraldo è riuscito a imbastire qualcosa di un po’ differente. La causa principale della diversità dei vari prodotti va individuata ovviamente del diverso respiro delle storie: un “caso” di Agenzia Investigativa Carlo Lorenzini dura solo 4 tavole (occasionalmente spalmato su più episodi ma sempre di 4 pagine l’uno) e non le oltre 20 di un comic book. L’azione è quindi serrata, il ritmo frenetico e lo sceneggiatore deve macinare idee su idee per portare avanti la serie con qualcosa di sempre nuovo. E in effetti ci riesce con successo, creando situazioni appassionanti per nulla banali e mostrando nel contempo una grande cultura letteraria. E oltre alla risoluzione delle vicende c’è anche lo spazio per l’approfondimento dei caratteri dei singoli personaggi.
La “prima stagione” di Carlo Lorenzini durò solo 6 episodi, di cui gli ultimi due costituiscono un unicum che narra le “origini segrete” di Pinocchio/Carlo Lorenzini; il volume edito da Manfont presenta altri due cicli successivi di tre episodi ciascuno, che servono a cementare la continuity di questo universo narrativo.
Il livello grafico non è quasi da meno rispetto a quello letterario. Sia Laura Spianelli che Jacopo Tagliasacchi (inchiostrato da altri collaboratori) dimostrano una grande maturità professionale, io personalmente preferisco la prima visti gli influssi manga del secondo.
Spero che il costo del volume (15€ per 64 pagine non patinate a colori, in formato 17x24 brossurato con bandelle) sia giustificato dai compensi elargiti agli autori.

sabato 8 novembre 2014

Capitan Venezia nn. 0-3



Alla ricerca di un palliativo all’assenza di Capitan Novara (che se era presente a Lucca 2014 era molto ben nascosto) ho ripiegato su Capitan Venezia, anche se confesso che a farmi propendere per questa scelta sono stati fattori come l’ingresso gratuito nello stand dove lo vendevano, lo sconto per l’acquisto in blocco di 4 numeri e soprattutto la posa “vagamente” ammiccante di Lady Marghera sulla cover nel numero 0.
Tutto sommato, non mi è andata affatto male. Capitan Venezia è in pratica l’house organ della Scuola del Fumetto di Venezia e serve come palestra e vetrina per alcuni studenti selezionati. Ideato da Fabrizio Capigatti nel 2006, e usato principalmente come testimonial, dal 2012 si è visto intitolare il suo comic book che esce in occasione delle fiere del fumetto nel Triveneto e da qualche anno anche a Lucca. Il protagonista è un supereroe di origine mistica con testa e coda di leone, protettore della città lagunare che nella sua identità “borghese” è lo studente ventiduenne Marco Venturini. Di più non so: dovrebbe esistere uno speciale sulle origini segrete di Capitan Venezia ma non l’ho letto.
Le avventure di Capitan Venezia si segnalano per la densità dei contenuti: Capigatti infarcisce ogni numero di sottotrame, trovate e situazioni differenti, approfondendole e unendole in un’unica trama trasversale che percorre ogni episodio e dovrà sperabilmente sciogliersi nel numero finale. Così va a finire che, per dire, la sesta tavola del numero 2 bisogna quasi leggerla con la lente d’ingrandimento per capire cosa dicono i personaggi nei fitti dialoghi che intercorrono in quelle 9 vignette: io trovo che sia molto meglio così piuttosto che “leggere” delle pin up e riporre il fumetto dopo una manciata di secondi.
La storia portante che percorre la serie, composta da un numero 0 e altri sei albi, riguarda la campagna denigratoria che il supercriminale Kaos in combutta col sindaco di Venezia sta portando avanti contro i vari “Capitani” (ogni provincia del Veneto ne ha uno, “Lady” se donna) che sono apparsi da qualche tempo e che vorrebbero invece arginare il terrore che si è sparso in quei luoghi proprio a causa di supercriminali appositamente ingaggiati.
Capigatti mi sembra un appassionato, o perlomeno un grande conoscitore, del fumetto supereroistico: il protagonista Marco Venturini vive delle situazioni un po’ alla Peter Parker, e il suo alter ego ha pure un istinto felino simile al senso di ragno. La Bauta, un misterioso osservatore che compare nel numero 1, mi ha ricordato il Monitor che in due anni bazzicando in incognito vari comic book pose le basi per la Crisis della DC Comics e la stessa rappresentazione dei supereroi come minacce potrebbe essere un omaggio a Watchmen. D’altra parte le stesse dinamiche della Justice League vengono citate esplicitamente nel numero 2.
Ovviamente cercando di creare qualcosa di locale e caratteristico il rischio di cadere nel ridicolo è piuttosto concreto: passi l’Uomo Scoglio affrontato dal protagonista insieme a Capitan Jesolo in una back up story, ma l’Uomo Moeca è agghiacciante! (le moeche sono una prelibatezza della cucina veneziana, cioè granchi “raccolti” in quei particolari periodi dell’anno in cui fanno la muta e sono senza carapace). Ma comunque questi dettagli sopra le righe, forse proprio voluti e ricercati dall’autore, nulla tolgono al valore di Capitan Venezia che pur indirizzandosi programmaticamente nei primi episodi a un pubblico molto giovane (anche se con un eccesso di turpiloquio) ha compiuto una riuscita sterzata più matura sin dal numero 2, un cambio di rotta per nulla traumatico richiesto proprio dai lettori – vedi la pagina della posta del numero 1.
Dal punto di vista grafico mi sembra che Capitan Venezia si mantenga su livelli quanto meno dignitosi con occasionali punte di eccellenza. Trovo che Riccardo Bandiera sia davvero bravo e con gli agganci e la fortuna giusti non dovrebbe avere difficoltà a trovare un suo spazio anche all’estero. Ho apprezzato molto anche Michele Dissegna ma alla fine è tutta questione di gusti: obiettivamente anche Luca Resto ha fatto un ottimo lavoro, solo che io apprezzo di più uno stile realistico.
Secondo me il difetto di Capitan Venezia è il suo piano editoriale: 7 uscite così diluite nel tempo (ufficialmente il comic book è trimestrale ma mi pare che dal 2012 e oggi siano arrivati solo fino al numero 4) sono tante per leggersi una storia così organica e complessa. Per il resto, anche stavolta rimango basito nel vedere come una realtà quasi amatoriale riesca a offrire un prodotto con una qualità di stampa e dei materiali ormai impossibile da trovare presso case editrici più grandi e titolate.
E mi stupiscono pure le doti profetiche di Capigatti: due anni prima dello scandalo del Mose aveva individuato nel sindaco di Venezia il cattivo! Anche il nome è assai simile...

giovedì 6 novembre 2014

Historica 25 - Le Torri di Bois-Maury 1: Il Viaggio di Aymar

Nessuna recensione approfondita di Historica, stavolta (che con tutta la roba di Lucca che devo ancora smaltire chissà quando leggerò), segnalo solo che l’uscita di questo venticinquesimo numero rappresenta per me una manna visto che finalmente, quando potrò gustarmela, mi leggerò tutta la saga delle Torri di Bois-Maury dall’inizio alla fine dopo averla leggiucchiata a spizzichi e bocconi tra numeri de L’Eternauta, Lanciostory e volumi sparsi mai cronologici. Così a una prima occhiata mi sembra che il mio rifiuto iniziale per Hermann fosse giustificato visti i suoi personaggi deformi e sproporzionati, ma tutto sommato i testi sono più importanti – e comunque con Hermann avrei fatto pace grazie a Sarajevo Tango. Notevole l’introduzione di Sergio Brancato, che ha tratto beneficio dallo spazio ridotto (solo due pagine di introduzione, stavolta). Certo, per me è conclamato che Hermann NON fa parte della scuola della ligne claire, ma alcune considerazioni di Brancato su quello che viene chiamato Medioevo sono illuminanti.