giovedì 30 dicembre 2010

Non capisco

sull'ultima Anteprima la Panini annuncia sia un nuovo volume, il terzo, dei Masterworks dedicati al Vendicatori che il prossimo numero della collana Marvel Collection, che conterrà gli episodi di Avengers immediatamente successivi a quelli pubblicati nel Masterwork.



Ora, la cosa era già successa con Capitan America e Thor però la cosa mi ha stupito lo stesso.
Io non amo i supereroi però i Masterworks li ho comprati, come li compravo già dai tempi della Comic Art. Un po' perchè è bello rileggere le storie dell'infanzia (con il rispetto di traduzioni e colori che mi pare la Corno non avesse) e anche perchè la struttura enciclopedica della collana ne favoriva la collezione e la consultazione. E' rincuorante sapere che in quel volume ho tutti i numeri dall'1 al 10 di una collana...
Aldilà di queste considerazione personali, però, va detto che la Panini ha addirittura confezionato dei volumi molto più belli di quelli della Comic Art: sono più grandi, hanno la sovraccoperta, la carta è di maggior pregio. E mi pare che abbiano anche fatto una lodevole pazzia confezionando il primo volume di Iron Man con quelli che in origine sono il primo e il secondo volume americani, a un prezzo solo leggermente ritoccato (vado a memoria, potrei sbagliarmi).
La qualità di stampa non è delle migliori, e dieci anni fa non li avrei comprati per principio ma purtroppo questi sembrano essere gli standard odierni accettati da tutti e siamo pur sempre italiani, non francesi.
Io avrei continuato a comprare queste ristampe nella versione in volume cartonato di pregio (che, vado sempre a memoria, costano pure di meno in proporzione al costo degli originali americani), ma perchè dovrei continuare a farlo se, a quanto sembra, la collana rimarrà tronca o, meglio, verrà continuata in un altro formato assolutamente agli antipodi rispetto a quello di partenza? Non è che la qualità delle storie sia la mia priorità nell'acquistare questi prodotti...



Se avessero affiancato a una edizione l'altra, allora la cosa avrebbe avuto un preciso motivo d'essere (e si sarebbe potuto pubblicizzare la versione da edicola come versione economica per chi non poteva permettersi quella lussuosa che "tanto successo ha riscosso", un po' come all'epoca fece la Comic Art).
Ma evidentemente non solo i Masterworks non hanno venduto a sufficienza, ma anche le ristampe da edicola vengono percepite come rischiose, se si usa la formula delle mini di 4. D'altronde anche l'ultima versione Classic da edicola dell'Uomo Ragno mi pare abbia avuto una vita assai tormentata e sia stata sul punto di chiudere un paio di volte prima di chiudere sul serio.
E' anche molto strano il lancio di questa iniziativa: il lettore sa già programmaticamente che c'è un primo volume lussuoso con le origini del personaggio e poi per continuare a leggerne le avventure dovrà comprarsi gli albi da edicola. Servirà a tastare il polso dei lettori e capire in quale direzione muoversi? Se così fosse e questa iniziativa non terminasse con le uscite preventivate, ci sarà però la necessità di ristampare del materiale in un altro formato scontentando chi le storie le ha già nell'altro.
Come ho scritto nel titolo, non capisco.

lunedì 27 dicembre 2010

Cannibale 2 Nuova Serie


Nel precedente post su Cannibale che elaborava un vecchissimo pezzo presentato su Fucine Mute ho omesso il sommario del numero 2 della Nuova Serie perchè non contemplava materiale realizzato da Pazienza, Liberatore & co. però per completezza (e anche perchè mi è stato richiesto da più di  un lettore) provvedo comunque a farlo adesso.
Potrebbe tornare utile a chi voglia completare o intraprendere la collezione di Cannibale, così da sapere cosa c’è veramente dentro quel numero: su ebay e anche altrove si trova gente che lascia abilmente intendere che il numero 2 Nuova Serie contiene materiale dei Cannibali per renderlo più appetibile.

Copertina di Greg Irons (disegno da una vignetta di Raw War Comics colorato con colori primari)
Seconda di copertina: presentazione del numero, anticipazioni e servizio arretrati, illustrazione di Liberatore
Pag. 1: storia senza titolo (potrebbe essere Questa è la storia di Vince Shazam dall’intestazione della prima vignetta) a firma GI/TV (Tom Veitch?)
Pag. 15: Beatifica Somnambula di Kim Deitch
Pag. 24: tavola scatologica di Clay Wilson
Pag. 25: di Greg Irons
Pag. 30: They came from space di Mary Kay Brown
Pag. 34: Head first (la testa, soprattutto) di Clay Wilson
Pag. 35: Götterdämmerung di Spain Roderiguez
Pagg 40-41: tavola doppia La dinamica di “un brutto incidente” di Robert Williams
Pag. 42: Th’ kiss-off di Justin Green
Pag. 52: Trashman meets the Fighting She Devils di Spain Rodriguez
Pag. 70: “You got a point there, Pop!” a firma GI/TV
Terza di copertina: “editoriale” di Liberatore
Quarta di copertina: disegno colorato in rosso e blu con resa psichedelica

giovedì 23 dicembre 2010

Cannibale (precedentemente apparso su Fucine Mute 4)

COME UNA NUOVA GENERAZIONE CANNIBALE

Liberatore, Mattioli, Pazienza, Scozzari, Tamburini. Questi nomi giungono ora a noi come echi di una leggenda, come gli esempi più veri (forse gli unici) di artisti italiani “on the road”, di autori maledetti che hanno creato e vissuto seguendo il principio del “live fast die young”. Come per le autentiche leggende, ognuno ha interpretato e aggiunto qualcosa al mito ed è inevitabile (e in fondo giusto) che chiunque abbia conosciuto e amato le loro opere si sia formato una sua personale idea di cosa avvenne tra Roma e Bologna sul finire degli anni ’70. Ma quando a reinventare la storia per i propri sordidi fini sono mercanti senza scrupoli (né vergogna) o mitomani necrofili le prospettive cambiano. E’ facile cedere alla tentazione di comprare alle mostre inediti di Pazienza a prezzi stracciati e di provenienza più che dubbia, o illudersi che un giorno salteranno finalmente fuori i primi due numeri di Cannibale ma nutrire speranze del genere oltre che sbagliato può rivelarsi economicamente dannoso. Forse conoscere un po’ di storia eviterà situazioni spiacevoli.
A metà degli anni ’70 il fumetto in Italia non passava un momento esaltante. I classici Linus, Corriere dei Piccoli e compagnia continuavano ad uscire col loro consueto passo e una rivista come Sgt. Kirk non poteva, con la sua scarsa diffusione e la sua bassa tiratura, imporre la sua estetica (nostalgica, ma almeno raffinata) alle altre riviste. In Francia nel 1974 usciva Metal Hurlant, qui da noi si progettava Lanciostory e questo parallelo la dice lunga sulla timidezza degli italiani in campo fumettistico. Eppure era fortemente avvertito il bisogno di cambiamento, se non proprio di rivoluzione, e un ampio settore editoriale (o meglio paraeditoriale: la diffusione era in molti casi quasi nulla) era occupato dalle produzioni di giovani politicizzati che si lanciavano in  arditi quanto improbabili esperimenti grafici e testuali in cui l’impegno politico giustificava la mancanza di “mestiere”. Riviste e rivistine come Polimagò, Marxiana e soprattutto Puzz offrivano a un pubblico selezionato (le tirature erano molto artigianali) degli strani prodotti che raramente riuscivano a mettere d’accordo i nuovi argomenti trattati con la grafica astratta o naif.
Queste spinte innovative portarono da un lato alla partenogenesi da Linus di un suo figlio più maturo, Alterlinus, e dall’altro a una spietata selezione naturale per cui solo i più caparbi di questi pseudo-editori privi di alcuna conoscenza tecnica o amministrativa riuscirono a rallentare la propria fine di qualche numero in più. Il Male doveva ancora nascere (e comunque cominciò a ingranare solo dopo i primi numeri) quando su Combinazioni, rivista ciclostilata del Movimento, pubblicava le sue prime storielle un borgataro del quartiere Talenti di nome Stefano Tamburini .
Il giovanissimo autore (neanche ventenne al tempo della prima pubblicazione) si presentava al suo pubblico composto principalmente da studenti contestatori con divertenti vignette e storie a fumetti. Il modello di riferimento principale erano i fumetti underground californiani (sullo stampo di Crumb, Irons, Corben, ecc.) mescolati agli stili più vari, ma era evidente che il pur volenteroso Strèkeno (uno dei suoi tanti pseudonimi) non avrebbe mai imparato a disegnare dignitosamente. La scarsità di questa sua vocazione apparve ancora più evidente sulla rivista che confezionò qualche tempo dopo: Cannibale .

Pare che al suo primo apparire, nella primavera del 1977, il giornale passò quasi del tutto inosservato, distribuito nel circuito di Stampa Alternativa e perso tra le altre rivistine che, come abbiamo visto, venivano impunemente date in pasto ai giovani rivoluzionari. Il primo numero, direttamente il numero 3, non era in effetti un capolavoro ma poneva l’accento sui fumetti più che sulle affabulazioni politiche e questo fu senz’altro un gran merito. Oltre a Tamburini la rivista ospitava un incredibile Massimo Mattioli (probabilmente anche finanziatore della rivista, benchè la leggenda la voglia esser stata stampata su carta rubata), autore già affermato in Francia su Pif e in Italia sul Giornalino (!), che qui rivelava un lato adulto e per certi versi anch’esso underground che nessuno avrebbe sospettato avesse l’autore dei candidi Pinky e Vermetto Sigh. Sulla scelta del nome esistono due versioni: secondo alcuni fu la semplice assonanza tra “cannibale” e “canna” (nel senso di spinello) a far sì che la scelta cadesse proprio su questo titolo mentre la seconda e decisamente più credibile prende in considerazione la rivista omonima che i dadaisti fondarono nel 1920 e che si interruppe proprio al numero 2. Di recente è saltata fuori la pagina di un catalogo d’arte in cui Tamburini annotò ironicamente accanto ai due numeri in offerta del Cannibale dadaista «come avere i primi due numeri di Cannibale >wow<» e questo rafforza l’ipotesi dell’ispirazione al gruppo di Breton.
Nella bizzarra storia Herpes Zooster Tamburini invita il lettore con una nota a rileggersi un fantomatico numero 2 di Cannibale per capire meglio la situazione, ma il riferimento è ovviamente solo un’ironica presa in giro del tipico espediente dei fumetti seriali per arruffianarsi lettori.
Anche il secondo numero di Cannibale  (uscito nell’inverno dello stesso anno) viene confezionato all’insegna della provocazione e della sfida alle regole rigide dell’editoria.  A livello contenutistico il parco autori è più nutrito e qualitativamente molto elevato: ai due cannibali originari si uniscono infatti le firme di Andrea Pazienza e di Filippo Scozzari. Il primo, il fumettista che più è entrato nel cuore degli italiani, arrivava da Alterlinus dove era riuscito a farsi pubblicare una serie ormai storica, Le straordinarie Avventure di Pentothal, in cui per i giovani lettori l’immedesimazione era immediata. Il fatto di aver raccontato con il primo episodio della serie il Marzo ’77 in tempo reale, mentre stava accadendo, fece di Andrea Pazienza, nel bene e nel male, il simbolo di una generazione. Filippo Scozzari era anch’esso un transfuga da Alterlinus, cui però era giunto dopo un lungo iter che lo aveva visto anche vittima di editori senza scrupoli e partecipatore di esperienze underground. Filippo Scozzari era piuttosto altalenante a livello grafico, tendente inesorabilmente al basso più di Tamburini, ma era anche il più pungente e rigoroso del gruppo, una mente razionale che integrava la goliardica follia di Tamburini. Fu infatti lui a eliminare le Edizioni del Tapiro Arrapato che campeggiavano sul numero precedente per trasformarle nelle Edizioni Primo Carnera, in omaggio a un personaggio creato apposta per Cannibale.
L’impeto provocatorio del gruppo arrivò al culmine con questa seconda uscita. La numerazione non indicava, come sarebbe stato logico aspettarsi, solo il numero 4 ma si estendeva fino al 7! L’impatto sul poco pubblico che ebbe quel Cannibale fu dirompente ed anche a livello finanziario rappresentò un evento: fu, infatti, un flop clamoroso. Per poter contare su una distribuzione dignitosa nel mondo già caotico dell’editoria italiana una rivista non può permettersi di confondere chi deve curarne la diffusione (che peraltro è più che felice di venire confuso, intascando soldi per un mancato servizio di cui ha già la giustificazione pronta).
Cannibale 4/5/6/7 è una vera pietra miliare nella storia del fumetto italiano, un modello di provocazione a tutt’oggi insuperato.
Dopo un periodo di riflessione avviene un evidente salto di qualità non solo a livello contenutistico ma anche “imprenditoriale”, però i cannibali non rinunciano alla loro carica dissacratoria e sulla copertina del terzo numero campeggia un disgustoso bollino magmatico che non dà indicazioni sulla numerazione. Con questa terza apparizione (niversalmente conosciuta come “numero zero”) Cannibale giunge alla sua piena maturità: ora esce come supplemento del Male, ha un direttore responsabile, acquista una periodicità ed è distribuito da un importante distributore nazionale, Parrini & Co., cui si sarebbero affidati anche molti altri editori di fumetti italiani. Per quel che pertiene strettamente ai fumetti, abbiamo altre due novità che di lì a qualche anno avrebbero stravolto il panorama fumettistico mondiale .
L’artista chiamato ad illustrare la copertina di questo fatidico numero fu Gaetano (Tanino) Liberatore. Venuto da solidi studi accademici (Liceo Artistico a Pescara ed Architettura a Roma), alla scuola Liberatore non doveva solo gli insegnamenti che lo avrebbero reso uno tra i maestri più ammirati al mondo, ma anche la conoscenza di Andrea Pazienza con cui condivise un anno di studi a Pescara. Entrato quasi per caso, introdotto da Pazienza, nella redazione di Cannibale, ne divenne una delle colonne portanti e la storica tempera con cui illustrò la copertina del numero zero già introduceva le sue impressionanti capacità. Su uno sfondo marrone campeggia un giovinastro capellone che, coerentemente col nome della rivista (anch’esso dipinto da Liberatore) si è mangiato fino a spolparsi e di lui rimane solo la carne dal petto in su, che l’aria di sfida e le posate ancora in mano fanno capire non tarderà a consumare. La resa quasi iperrealista di questa illustrazione è shockante e questa immagine si sarebbe impressa a fuoco nella memoria dei fan; non a caso fu ripresa per la copertina del già citato libro Prima pagare poi ricordare. Secondo alcuni il soggetto cui si ispirò Liberatore fu Tamburini, di cui quindi questo disegno sarebbe un ritratto.
L’altra novità introdotta da questo numero (che poi avrebbe legato le sue sorti a quelle di Liberatore) fu l’unica serie a episodi ad apparire su Cannibale: Rank Xerox. L’unico altro esempio di personaggio a comparire più di una volta fu Gatto Gattivo di Mattioli ma si trattava di situazioni istantanee prive di un legame seriale forte di numero in numero e comunque non apparve con la stessa frequenza di Rank Xerox. Stefano Tamburini, privo come abbiamo visto delle doti dei suoi colleghi, si fece aiutare abbondantemente da Pazienza e dal nuovo arrivato Liberatore per la parte grafica, che denunciava comunque ancora i legami con certa faciloneria di stampo underground (di cui riprendeva anche buona parte di cattivo gusto). L’ideatore del coatto meccanico dichiarò in seguito che fu sufficiente tagliare il naso a proboscide dell’essere sulla copertina di Cannibale 4 per ottenere la fisionomia del nuovo personaggio. Le storie vissute da questo «androide perfetto» ottenuto con i pezzi di una fotocopiatrice rubata all’Università (da qui il nome) sono cariche di una grottesca violenza che finisce per divertire e di frecciatine all’ambiente studentesco e persino underground. Rank Xerox fu ospitato su tre numeri di Cannibale (lo zero, dove esordì, il 10 e il 12 ) e fece pure una breve apparizione di due tavole sul Male. Questa prima versione del personaggio, in cui è dominante l’apporto organizzativo di Tamburini, è poco nota all’estero e persino in Italia solo i fan la conoscono. Infatti sarà il secondo Ranxerox  (ribattezzato così dopo la diffida della casa produttrice di usarne il nome), scritto sempre da Tamburini ma disegnato, e soprattutto colorato, dal solo Liberatore, a raggiungere la fama mondiale, ma questo è un altro discorso. Vediamo di parlarne un po’.

Dopo il numero zero Cannibale giunge a uno standard editoriale fisso e la numerazione diventa progressiva pur cominciando dal 10. Gli ultimi due numeri (l’1 e il 2 della “nuova serie”) chiuderanno il ciclo per cominciarne un altro: quello di Frigidaire. La nuova rivista conserva i cinque autori-cardine di Cannibale ed esce sotto la guida di Vincenzo Sparagna (conosciuto presso Il Male). La quadricromia e il prestigio di questa novità editoriale (che con Totem costituì un apripista per le riviste d’autore dello scorso decennio) furono di stimolo per gli autori a sperimentare e a migliorarsi ulteriormente. Sulle pagine patinate di Frigidaire furono ospitati lavori eccezionali e spesso più dirompenti di quelli di Metal Hurlant  (fucina francese di innovazioni fumettistiche): basti pensare, oltre a Ranxerox, allo Zanardi di Pazienza e al nuovo e coloratissimo Joe Galaxy di Mattioli. I geni scatenati avevano raggiunto la loro piena maturità e questo permise l’integrazione del loro stile nella scena ufficiale tramite i molti imitatori ma determinò anche il progressivo allontanamento dalla scena fumettistica più viva dei cinque autori. Offerte sempre migliori, anche estranee al mondo della letteratura disegnata, allettarono gli ex-cannibali (eccezion fatta forse per il solo Scozzari) che a un certo punto lasciarono quasi solo Vincenzo Sparagna ad allevare una nuova generazione di autori. Tamburini pubblicò ancora qualcosa ma si dedicò principalmente alla pubblicità ed agli allestimenti di locali, prima di morire nel 1986; Liberatore trovò fortuna in Francia e vi si trasferì stabilmente; Pazienza fu conteso dalla Comic Art e dalla Rizzoli-Milano Libri e pubblicò dietro lauto (e meritatissimo) compenso i suoi ultimi lavori per questi editori, lasciando a Frigidaire una produzione svogliata e approssimativa: la morte, sopraggiunta nel 1988, bloccò molte storie a cui stava lavorando ma molte le aveva già abbandonate lui stesso prima. Scozzari e Mattioli rimasero per quanto possibile fedeli alla rivista, ma il primo rarefece i suoi fumetti fino quasi a scomparire come disegnatore e il secondo, dopo una rottura con Sparagna, seguì l’esempio di Pazienza e fu ospitato come fumettista  (le sue illustrazioni già comparivano su altre riviste) su Corto Maltese e Comic Art. Alla fine degli anni ’80 Frigidaire aveva ulteriormente diminuito lo spazio (già esiguo) dedicato al fumetto e quelle poche pagine venivano occupate da improbabili sperimentatori, da imitatori improvvisati e da rarissimi nuovi talenti (Francesca Ghermandi e Giuseppe Palumbo tra i pochi ).
Frigidaire subì nel corso degli anni ’90 un ulteriore declino e varie ristrutturazioni che portarono anche a una sua versione in formato quotidiano con albo arretrato allegato (ottimo sistema per completare una collezione),  ma la sua parabola si concluse comunque nel 1995. Circa un anno prima della della stesura di questo articolo uscì il numero zero (a diffusione selezionatissima) di quello che dovrebbe essere il nuovo Frigidaire, progetto che periodicamente (anche a Lucca 2010) si cerca di rilanciare.

RIASSUMENDO

Ritornando allo scopo principale di questo articolo, sarà opportuno fare un breve schema della vita editoriale di Cannibale per sciogliere almeno alcuni dei dubbi sul materiale in cui ci si può imbattere. Una premessa da fare è che ai tempi della pubblicazione di Cannibale non era ancora molto sviluppato il collezionismo fumettistico, soprattutto di materiale “alternativo” e poco professionistico come appunto era Cannibale. Spesso si trovano strani ibridi ricavati da più numeri della rivista che, mancanti per cattiva conservazione di molte pagine, sono stati riuniti alla meno peggio a costituire dei numeri apocrifi di Cannibale. Anche alcuni numeri del Cannibale originale sono costituiti in parte da ristampe. Eventuali particolarità ulteriori verranno segnalate per ogni singolo numero.

Cannibale 3 (primavera 1977) Il valore di questa prima uscita è quasi solamente collezionistico. Le storielle di Tamburini e Mattioli sono divertenti ma non sono certo capolavori. Attualmente è tra i più difficili da trovare. Tamburini e Mattioli si firmano quasi sempre coi soli nomi di battesimo. Allestimento catastrofico con una sola spilla sul dorso che non ne facilita la conservazione. Dietro lo pseudonimo Trash si nasconde Marco D'Alessandro.


Copertina di Mattioli con interventi di Tamburini.
Seconda di copertina: Le Avventure di Stèfano in “Toccarsi è bello?” di Tamburini, Editoriale: Nap o Leone?
Pag. 1: Catastrofe di Tamburini
Pag. 8: Lo strano caso del Dottor Freakill & Mr. Laid di Tamburini
Pag. 13: Microcefalus di Mattioli
Pagg. 14-15: Gioco Bufo n° 1 di Mattioli (all’interno Pascarella li Pajacci Comix di Mattioli)
Pag. 16: tavola senza titolo di Tamburini
Pag. 17: Le avventure della boccia Ernesta di Trash (a pagina 21 la storia termina con l’inserto di una striscia PìPì (Piccola Pubblicità) di Mattioli che firma Massimo+Bettina)
Pag. 22: Gatto Gattivo di Mattioli
Pag. 25: vignetta senza titolo di Mattioli
Pag. 26: Bravo, Compagno! di Mattioli che si firma Bettina+Massimo
Pag. 27: Bravo, Compagno! (da leggere con uno specchio) di Mattioli: come suggerisce il titolo, è una storia disegnata “al contrario” che va letta tenendo la rivista davanti a uno specchio
Pag. 28: Senza Titolo di Mattioli
Terza di copertina: “pubblicità regresso” di Tamburini
Quarta di copertina: illustrazione a colori di Mattioli

Cannibale 4/5/6/7 (inverno 1977) Con l’arrivo di Pazienza si ha un buon salto qualitativo. E’ il numero di Cannibale più ambito e probabilmente il più raro. Ristampato nel 2003 da Stampa Alternativa con una ulteriore copertina spillata che presenta nei risvolti un’introduzione di Marcello Baraghini e «Cannibale: la cronologia definitiva». In quest’ultima viene però riportata anche una copertina inedita che potrebbe confondere ulteriormente i collezionisti.


Cannibale n°4 (Stefano Tamburini)
Copertina
Seconda di copertina: presentazione di Cannibale e dei suoi autori.
Pag. 1: fumetto di 8 tavole La Vendetta dell’uomo in ammollo!

Cannibale n° 5 (Filippo Scozzari)
Copertina
Seconda di copertina: fumetto di 5 tavole Morse!

Cannibale n° 6 (Massimo Mattioli)
Copertina
Seconda di copertina: fumetto di 9 tavole Il famoso caso del ciclamino in cui ricompare il Gatto Gattivo.

Cannibale n° 7 (Andrea Pazienza)
Copertina
Seconda di copertina: fumetto di 6 tavole Perchè Pippo sembra uno sballato?
Pag. 6: fumetto di 7 tavole Prixicel!!

Cannibale zero (giugno 1978) Quasi tutto questo numero fu ristampato in (poche) altre sedi; si tratta comunque di un importantissimo pezzo da collezione, il numero a cui si pensa subito quando si parla di Cannibale. Nel recente passato sembra fosse il più facile da reperire.
Copertina di Liberatore
Seconda di copertina: editoriale Cielo, mio marito! illustrato da Pazienza
Pag. 1: Rompicoglioni! di Scozzari
Pag. 7: E per me un AncoMarzio di Pazienza
Pag. 13: Rank Xerox, il coatto! di Tamburini (con importanti interventi di Liberatore e Pazienza)
Pag. 24: Klap Klap di Mattioli
Pag. 26: Rizzati rizzati di Pazienza
Pag. 27: Il caso del buco nella mente, con protagonista il Dottor Jack, di Scozzari
Pag. 33: Ritorno alla campagna di Pazienza
Pag. 34: Tiamottì! di Tamburini (testi) e Liberatore (disegni)
Pag. 41: Bazooly Gazooly di Mattioli
Pag. 45: I viaggi di Absolut (n° 5) – Taccuino erotico del pianeta R.E.F.E.Z.I.O.N.E. di Scozzari
Terza di copertina: Oh! Jonny di Mattioli
Quarta di copertina: fotografia ritoccata con i volti dei futuristi italiani sostituiti dai cinque autori, illustrazione a colori di Scozzari

Cannibale 10 (fine 1978) il formato diventa più grande e dignitoso, un A4 anticipatore di quello delle future riviste di fumetti d'Autore degli anni '80. L’allestimento ricorda più modestamente quello del 4/5/6/7: prima e quarta di copertina ospitano entrambe l’intestazione Cannibale e un disegno diverso. La rivista ha dunque due sensi di lettura e una “guest star”: Josè Muñoz. L’espediente delle due copertine tornerà su Frigidaire 11.


Copertina di Scozzari
Seconda di copertina: Bzee la Cannygirl di Novembre, pin up di Liberatore
Pag. 1: Amami, Primo! Di Scozzari
Pag. 12: E.M.P.S. di Tamburini (testi) e Liberatore (disegni)
Pag. 19: Space Opera di Mattioli
Pag. 20: Space Opera di Mattioli (lo stesso identico fumetto di pagina 19!)
Pag. 21: poster a colori inserito nella foliazione realizzato da Muñoz-Sampayo-Zarate, quest’ultimo è l’Oscar Zarate compagno di corso alla Escuela Panamericana de Arte di Josè Muñoz che anni dopo realizzerà il fumetto A small killing su testi di Alan Moore
Pag. 22: Dale, Pibe di Muñoz «et Omar». La storia si sviluppa in orizzantale e si legge ruotando la rivista di 90°, è inframmezzata ogni due tavole da:
Pagg. 24-25: foto pornagrafica d’epoca che compare in originale a pagina 24 e modificata a pagina 25
Pagg. 28-29: “foto di gruppo” parzialmente a colori della redazione (datata ’77, quindi non compare Liberatore) realizzata da Pazienza
Pagg. 32-33: illustrazioni a colori di Mattioli
Pag. 36: altro capo del poster a colori
La pagine dalla 37 alla 60 sono stampate in senso di lettura inverso e come abbiamo visto la quarta di copertina è a sua volta una seconda copertina, quindi si procede a ritroso:
Quarta di copertina: copertina di Tamburini con colori di Pazienza
Terza di copertina: editoriale Black & White, illustrazione di Liberatore
Pag. 60: Rank Xerox! di Tamburini
Pag. 53: Viaggionellagalassiamagenta di Mattioli
Pag. 47: Ma cosa succede? di Pazienza
Pag. 42: storia senza titolo di Pazienza
Pag. 37: lulu creme, illustrazione/finta pubblicità di Mattiolim

Cannibale 11 (inizi 1979) Questo numero è caratterizzato da una breve storia di Mattioli composta da due tavole che, forse per uno slittamento delle pellicole in fase di stampa, sono state stampate sulla stessa pagina, mentre quella di fronte è desolatamente bianca! Pare che il difetto si estenda a tutti i numeri 11 di Cannibale e quindi non costituisce in sé una “ truffa “ o una caratteristica di rarità  che lo distinguerebbe da altre eventuali copie corrette.


Copertina di Liberatore
Seconda di copertina: illustrazione di Pazienza
Pag. 1: Folly Bololy di Tamburini (testi) e Liberatore (disegni)
Pag. 8: Alè! di Scozzari
Pag. 12: La scuola di Pazienza
Pag. 16: Muhà, fumetto di gusto moebiusiano realizzato da un autore non identificato, forse Aldo  Di Domenico. Le ultime otto tavole sono a colori
Pag. 37: Perquisizione di Raffini, interamente a colori
Pag. 45: Champagne e novocaina! di Mattioli
Pag. 49: La pillola H, racconto di Mattioli
Pag. 50: tavola senza titolo di Pazienza
Pag. 51: Il Pasto Crudo di Nobilini (testi) e Saggini (disegni)
Pagg: 60-61: due tavole di Mattioli stampate sulla stessa pagina (una al contrario), la 61
Pag. 62: Lucertola la lucertola di Mattioli
Pag. 63: Uncontrollable Urge di Tamburini
Pag. 68: Dum-Dum Boys di Scozzari
Pag. 70: Gatto Gattivo presenta: Tempi Moderni di Mattioli
Terza di copertina: Cannibale in concert, l’autore è lo stesso di Muhà
Quarta di copertina: illustrazione di Pazienza

Cannibale 12 (o Cannibale Golf, aprile 1979) All’interno della rivista si trova un bellissimo inserto di otto pagine patinate con la storia Francesco Stella di Pazienza, poi proseguita su Frigidaire.


Copertina di Pazienza
Seconda di copertina: illustrazione di Giorgio Lavagna
Pag. 1: terzo episodio di Rank Xerox dal titolo Lù rapita!
Da pag. 6 a pag. 13 viene inserito il fumetto Nip e Tuk “la via dell’oppio” di Rand Holmes
Pag. 19: Ernesto di Scozzari
Pag. 20: Controllo Assoluto, racconto di Luigi Abbondanza
Pag. 21: tre strisce a opera di Mattioli che occupano la parte alta, centrale e bassa delle pagine. Rispettivamente: Teppa Comix, Cazzo, arrivano i marziani! Comix e Comix Comix
Pag. 33: Francesco Stella di Pazienza
Pag. 41: recensioni musicali di Devo e Pere Ubu a opera di Tamburini
Pag. 42: Les insectes de l’Universe! di Scozzari
Pag. 43: Kamikaze di Aldo Di Domenico
Pag. 55: vignetta di Scozzari
Pag. 56: Agnusdei di Pazienza
Pag. 60: Grande incontro tra due campioni di Scozzari (fumetto che si legge orizzontalmente girando la rivista di 90°)
Pag. 70: Ecco che va! di Sandro Raffini
Pag. 71: Superpazienza di Pazienza
Pag. 72: pubblicità per il prossimo numero di Cannibale special vecchia fantascienza! annunciato per maggio mentre in realtà sarebbe uscito a giugno, pubblicità per Il Male.
Terza di copertina: sorta di elenco arretrati composto da illustrazioni e copertine, che rende ancora più confusa la cronologia della rivista: manca infatti il disegno di Pazienza per il numero 7 e compare invece la  copertina già pronta (con intestazione, titolo, prezzo, ecc.) di un fantomatico numero 8
Quarta di copertina: fotografia di Primo Carnera ricolorata

Cannibale 13 (o Cannibale bootleg, maggio 1979) In copertina si trova il disegno di Pazienza per l’inesistente Cannibale 8, ovviamente adattato a questo numero. Probabilmente scarseggiava materiale con cui riempire lo speciale sulla fantascienza e pur di non saltare un’uscita fu preferito confezionare un numero con soluzioni improvvisate (raccontini di una tavola, un progetto tecnico, la famosa “pagina di Pazienza”), ristampe (Scozzari da Alterlinus, Mattioli dallo stesso Cannibale) e storie piratate (la storia di Richard Corben; inoltre Tamburini e Scozzari fecero un dissacratorio lavoro di “restyling” sulle tavole di Yorga, vecchio tarzanide bonelliano). Di questo numero esistono due versioni diverse della terza di copertina.


Copertina di Pazienza
Seconda di copertina: illustrazione di Pazienza
Pag. 1: Ripresa registrata di avvenimento agonistico di Scozzari
Pag. 17: tavola di Corben nella versione originale a confronto con quella censurata dalla Rizzoli-Milano Libri
Pag. 18: Gatto Gattivo di Mattioli
Pag. 21: Della serie “sesso in treno” di Tamburini (testi) e Pazienza (disegni)
Pag. 22: Orkeo Swarte di Liberatore (che si firma Moebius e ne imita lo stile)
Pag. 24: Le avventure di Fransuàs Hardì di Pazienza
Pag. 25: I Viaggi di Absolut (1) – I motori e le fughe del pianeta R.E.F.E.Z.I.O.N.E. di Scozzari
Pag. 26: Epilessia da televisione, articolo divulgativo
Pag. 27: Il dottor Jack contro dio di Scozzari
Pag. 28: illustrazione di Liberatore firmata Moebius
Pag. 29: Yorga – l’orrenda visione (il materiale originale di partenza era opera di Gianluigi Bonelli e Antonio Canale)
Pag. 31: Yorga – La carica selmaggia (il materiale originale di partenza era opera di Gianluigi Bonelli e Antonio Canale)
Pagg. 35-36: ripresa di due tavole della storia Il famoso caso del ciclamino di Mattioli comparsa su Cannibale 4-5-6-7
Pag. 37: Laser di Mattioli (testi e inchiostrazione) e Liberatore (disegni)
Pag. 38: E’ arrivato Godot di Tamburini
Pag. 39: Storiella di Donzella di Mattioli
Pag. 40: illustrazione di Pazienza, Mattioli e Scozzari
Pag. 41: ripresa di una tavola della storia Il famoso caso del ciclamino di Mattioli comparsa su Cannibale 4-5-6-7
Pag. 42: Curatevi con le Erbe del Vs. Giardino di Pazienza
Pag. 43: Santo è bello, illustrazione di Pazienza
Pag. 44: Microcefalus di Mattioli (non si tratta dello stesso identico materiale presentato sul numero 3)
Pag. 45: Conoscenza carnale di Pazienza
Pag. 46: Squirt, pubblicità per rivista di Pazienza e Mattioli
Pag. 47: Gli esperimenti di Mr. Fool di Mattioli
Pag. 49: I terrestri, che imbecilli! di Mattioli
Pag. 50: progetto tecnico
Pag. 51: Ah, il Primo Maggio! di Mattioli
Pag. 52: La pagina di Pazienza: fototessera di Andrea Pazienza
Pag. 53: Moschi di Richard Corben
Pag. 58: Vecchia gloria di Scozzari
Terza di copertina: illustrazione di Pazienza, in entrambe le versione del numero 13
Quarta di copertina: vignetta di Mattioli

Cannibale 1 nuova serie  (o Cannibale Science Friction, giugno 1979) E’ un numero interamente dedicato alla fantascienza ed è interessante vedere come è stata interpretata dai vari cannibali. Quattro pagine sono occupate da collages autocelebrativi.


Copertina di Liberatore con un disegno di Mattioli
Seconda di copertina: illustrazione di Pazienza
Pag. 1: Saturno contro la Terra di Tamburini (testi) e Liberatore (disegni)
Pag. 11: illustrazione di Mattioli a mo’ di oblò che permette di vedere cosa si trova nella pagina successiva
Pag. 12: illustrazione di Mattioli a mo’ di oblò che permette di vedere cosa si trova nella pagina precedente
Pag. 13: versione muta (i balloon sono vuoti) del fumetto pubblicato a pagina 14
Pag. 14: War di Mattioli
Pag. 15: 1979, pubblicità per rivista di Mattioli
Pagg. 16-19: collage di fotografie e illustrazioni tra cui molte pubblicità per Cannibale
Pag. 20: Cabaret Lunaire, illustrazione di Mattioli
Pag. 21: Joe Galassia e: quelli del III° universo! Di Mattioli
Pag. 26: illustrazione di Pazienza
Pag. 27: Verso l’universo! di Scozzari
Pag. 28: Hawkins di Veitch (disegni) e Jaxon (testi), Veitch non è il più famoso Rick ma suo fratello Tom
Pag. 36: Zambo missile pensante di Sandro Raffini
Pag. 38: !£$()»«;?? di Pazienza
Pag. 39: vignetta di Scozzari
Pag. 40: Overture (allegro con fuoco) di Pazienza
Pag. 47: illustrazione ritoccata
Pag. 48: fotografia a colori e breve testo a firma H. Berthold
Pag. 49: La cosa di Mattioli
Pag. 50: Parte davanti di Pazienza
Pag. 51: Altair Express, racconto di Mattioli
Pag. 52: Capitan Dulciòra (breve la vita infelice di Foster Emmett) di Scozzari (la storia termina in terza di copertina)
Quarta di copertina: illustrazione a colori/copertina di Scozzari

Cannibale 2 nuova serie (luglio 1979) Una fascetta in basso a destra delle copertina avverte “USA Only !” e in effetti su questo numero, oltre al lettering, alle traduzioni e ai disegni in seconda e terza di copertina, dei cannibali non c’è nulla. La rivista è un compendio di fumetti underground americani tra i migliori e tra i tanti ce ne sono di Clay Wilson, Greg Irons e Spain Rodriguez. Nel lapidario editoriale e in quarta di copertina si annuncia il ritorno di Cannibale a settembre, cosa che non avvenne per i motivi già visti.

domenica 19 dicembre 2010

Maria Colino (precedentemente apparso su Fucine Mute 17)

Maria Colino

Alle due proposte più raffinate delle edizioni Topolin di Jorge Vacca, cioè Thomas Ott e Miguel Angel Martin, se ne aggiunse una terza, anch’essa nata in ambito underground e poi sviluppatasi in maniera estremamente personale e ricca di rimandi culturali. Si trattava di Maria Colino, giovane Autrice spagnola che si differenzia dalla produzione Topolin più legata all’underground per la consapevole ricercatezza grafica che profonde nelle sue opere.
Terminati senza alcuna convinzione gli studi all’Accademia di Belle Arti di Madrid (che definisce senza mezzi termini una «fabbrica di immondizia»), la Colino orienta le sue scelte professionali verso l’illustrazione e quindi verso la collaborazione con quotidiani e riviste ma poco dopo il suo esordio professionale sul giornale El Mundo sente il bisogno di raccontare qualcosa di suo e inizia la sua carriera di fumettista. Nasce quindi il volume Rabia Maxima, stupefacente opera prima con cui si fa notare dai lettori e dagli addetti ai lavori (nel 1998 il prestigioso premio del Salò dei fumetti di Barcellona come miglior Autore spagnolo andrà a lei). Sarà quindi il turno di Los Misterios de Ashley House, diario romanzato della sua permanenza nell’ostello inglese del titolo. Questa serie viene presentata sulla famosa rivista spagnola El Vìbora, a conferma della qualità e del prestigio raggiunti (come “vicino di pagina” avrà tra gli altri proprio Miguel Angel Martin).



Il primo collegamento che viene naturale fare con qualche altro disegnatore di fumetti è sicuramente quello con Thomas Ott. Anche Maria Colino si affida a un incisivo e penetrante bianco e nero per raccontare le sue storie e gli esiti grafici sono molto simili a quelli del disegnatore zurighese, nonostante le tecniche impiegate dai due siano diverse. Maria Colino usa infatti una classica scratch board, una tavola precedentemente preparata da cui toglie con taglierino e raschietto l’inchiostro di cui è ricoperta per ricavare luce e profondità. Cambiano i referenti visivi (per Ott sono le copertine dei pulp magazines, per la Colino i Maestri incisori) ma il risultato complessivo è molto simile.
Ciò che cambia è il diverso approccio alle storie. Se per quelle di Thomas Ott avevamo parlato di parabole noir e di umorismo nero per Maria Colino è più corretto parlare (fatta salva comunque la presenza di una certa dose di humour nero) di brevi illuminazioni senza troppa intenzione di “fustigare i costumi” e di storie più articolate in cui prevale il gusto del fumetto in sé, la voglia di raccontare una storia per immagini nella maniera più incisiva possibile.
Queste due tendenze trovano perfettamente rispondenza nel volume Rabia Maxima, diviso quasi specularmente tra le storie di Fortuna, «Dea dell’azzardo infausto», che vanno da pagina 6 a pagina 19 e cinque racconti brevi autoconclusivi distribuiti su ventiquattro pagine.
Fortuna è la narratrice/protagonista di undici storie fulminanti (la maggior parte si concludono in una sola tavola, solo tre durano il doppio) e nella cosmologia della Colino è colei che sceglie i successi o le sconfitte degli uomini, è insomma la personificazione in abiti vagamente sadomaso della sorte beffarda che muove gli esseri umani. Siamo comunque ben distanti dalle forti connotazioni drammatiche (e quindi moraliste) di Thomas Ott: il crollo fatale delle ambizioni e gli abissali insuccessi delle vittime di Fortuna sono dipinti con toni troppo sarcastici ed enfatici per voler essere presi sul serio più del dovuto. Si tratta di un trattamento tutto sommato ottimista di temi difficili quali l’handicap o il suicidio: la lunga serie di sconfitte e delusioni suscita un sorriso piuttosto che una meditazione sulle miserie umane.



Graficamente queste storie sono caratterizzate da una certa immediatezza e semplicità compositiva. Le figure umane (soprattutto quella della stessa Fortuna) sono deformate ed esagerate in posizioni improbabili fino a diventare elementi decorativi. I tentativi di rifarsi a una prospettiva di tipo classico sono pochi e anch’essi assumono uno statuto iconico “altro” rispetto alla funzionalità abituale: le case sullo sfondo e un treno che arriva da lontano non danno tanto l’impressione della profondità quanto quella della particolare atmosfera che la Colino vuole infondere alle sue tavole; sono, in buona sostanza, delle reminiscenze dell’Espressionismo. Forse per una minor confidenza con il “mestiere” i racconti di Fortuna presentano poi dei contrasti nettissimi tra nero e bianco, e spesso gli eventuali tentativi di sfumature riempitive si risolvono nell’accumulo di segni fittissimi che ricordano una volta stampati le antiche incisioni su legno e non danno quindi né movimento né profondità alle immagini.
Ben diverso il trattamento grafico dei racconti brevi (dalle tre alle sei tavole) che completano il volume. Qui le sfumature sono infatti un elemento fondamentale del disegno, che dimostra quindi dove siano le sue radici, cioè nell’illustrazione. Il vello del capro montato da Fenicio Plusvalia (protagonista del primo di questi racconti brevi, che per scelta o per una svista è privo di titolo) è reso con una grande perizia e i graffi bianchi della luce non solo rendono con un buon realismo l’idea del pelo, ma suggeriscono con estrema abilità i chiari e gli scuri, e quindi la profondità. Un altro esempio della grande cura profusa nella realizzazione di queste storie (che si manifesta non solo con uno sfumato efficace ma anche con un maggiore equilibrio espressivo tra bianco e nero) è l’immagine del mare nella splash page che apre Los Fugitivos del Reino. Le acque solcate dai motoscafi e i riflessi che invece compaiono nelle zone calme rendono veramente l’idea del mare, soggetto tra i più ostici da raffigurare, ancora più difficile da rappresentare con dei semplici colpi di raschietto.



Anche a livello di storie i racconti brevi sono più complessi, non foss’altro per la durata maggiore, delle gag di Fortuna. Qui c’è un sarcasmo (pur se palesato manifestamente solo nella storia senza titolo di cui sopra) piuttosto tagliente, indirizzato principalmente contro l’arrivismo e il conformismo, e un altro più sottile, che non è al centro delle storie, riservato ai maschi. E’ evidente anche una maggiore partecipazione della Colino alle storie che narra e una di esse (Papà vuole che lavori, una sorta di poesia illustrata) ha per protagonista proprio la disegnatrice, che si ritrae (come nella serie Los Misterios de Ashley House) con fattezze molto più mostruose di quanto sono in realtà. Questa surreale storiellina in rima e la successiva,  Solitudine, sembrano a prima vista un cedimento all’autocommiserazione e al facile effetto sentimentalistico ma anche stavolta le trovate grafiche e quelle contenutistiche sono troppo esasperate per non strappare un sorriso al lettore: Vittorino, il penoso protagonista di Solitudine (che a tratti si abbandona a  momenti di “polimorfismo espressivo” degni di un manga), cerca in tutte le maniere di essere amato o quantomeno accettato dagli altri e invece persino il suo pappagallo si uccide pur di non dover più sopportare la sua mesta figura! Con una premessa del genere il finale del racconto, che in un altro contesto sarebbe stato tragico, diventa un lieto fine.

Le ultime due storie di Rabia Maxima, Fatti del Peloponneso e Los Fugitivos del Reino, sono invece smaccatamente umoristiche e provocatorie. Poiché entrambe hanno il loro punto di forza narrativo nella sorpresa finale, sarebbe crudele rivelare come si concludono, basterà dire che i protagonisti sono, nel primo “sketch”, degli agguerriti centauri e delle furbe amazzoni, con addosso sottili capi d’abbigliamento tra il neoclassico e il sadomaso. In Los Fugitivos del Reino i personaggi principali sono invece una coppia di diavoli in fuga che si ritrova in compagnia dei due clandestini Ariel (un angelo disertore) e Antonino (un beato pentito), anch’essi in fuga ma verso una destinazione ben diversa da quella dei diavoli… Assolutamente irresistibile la visione che la Colino dà dei meccanismi che regolano inferno e paradiso, rappresentati come una rigida gerarchia tecnologizzata e fortemente militarista.



Dalla lettura di queste ultime storie che concludono il volume Rabia Maxima si capisce anche quanto fascino debbano esercitare su Maria Colino la mitologia e la cosmologia, passioni che la accomunano ad altri grandi disegnatori visionari come Lucho Olivera, Enki Bilal e soprattutto Philippe Druillet. E il paragone con questi Maestri viene retto benissimo.

Di Maria Colino in Italia possiamo leggere per il momento solo il volume di Jorge Vacca ma speriamo che l’interesse che ha suscitato solleciti altre pubblicazioni quanto prima (tanto più che lo scorso anno in Spagna la giovane disegnatrice è stata oggetto di pubblicazioni prestigiose, ristampe e riproposizioni con altri editori).

[...e invece di Maria Colino si è persa ogni traccia!]

venerdì 17 dicembre 2010

come accennavo nel pezzo su Gimenez

cioè, qui

Moi, Dragon tome 1: La Fin de la Genèse

A quasi 70 anni Juan Gimenez non si siede sui meritatissimi allori per sfornare fumetti-fotocopia (tanto è Gimenez e venderebbe comunque) ma con questa sua nuova serie di cui è autore completo cambia nettamente sia ambientazione che stile e la già frequentatissima fantascienza lascia il posto a un medioevo fantasy.
La sua maturazione come sceneggiatore è innegabile, siamo ben distanti dai volumi-barzelletta di Leo Roa e dalla fantascienza classicissima del Quarto Potere e da quella fracassona di Scegli il tuo gioco, tutte storie piacevolissime da guardare e leggere in relax ma, accidenti, Moi, Dragon è molto meglio. Certo, le sue storie brevi sono state sempre deliziose, ma che diamine, erano appunto solo storie brevi. Come vedremo, questa sua nuova consapevolezza di autore ha anche un lato meno positivo. Ma andiamo con ordine.



Moi, Dragon è una storia corale ambientata nel 1280 in cui diversi personaggi interagiscono nei pressi del castello di Rosentall. È sbalorditivo come Gimenez sia a suo agio nel disegnare architetture medievali, scorci naturalisti, armi e armature, lui che fino a un paio di anni fa era il disegnatore argentino di fantascienza per antonomasia. Persino il monogramma con cui è solito firmarsi viene adattato al contesto.
Dal punto di vista della storia assistiamo a uno sviluppo ben calibrato che dopo l’inevitabile presentazione dei vari personaggi (e la lenta rivelazione di alcuni dei loro segreti) sfocia in notevoli scene d’azione risolutive e nelle inevitabili e sacrosante rivelazioni di alcuni dei misteri di cui è intessuta la trama.
Ottimo il lavoro svolto sui personaggi, che risultano molto ben caratterizzati e tridimensionali e in cui anche i ruoli di buono e cattivo non sono affatto tagliati con l’accetta. Assai efficace anche la diversa personalità che Gimenez ha assegnato alle figure femminili, molto presenti e con ruoli di rilievo, che altrimenti potrebbero un po’ confendersi tra di loro visti gli standard iconografici con cui disegna le donne.
Un unico appunto che mi sento di muovergli è il non aver insistito sull’ambiguità del “drago”: avrebbe potuto giocare col lettore e fargli dubitare fino all’ultimo che in realtà il drago non fosse altro che una metafora del vulcano che sovrasta la zona, ma evidentemente non era quello il suo intento principale (come d’altra parte si capisce sin dalla copertina!).
Purtroppo, come accennavo prima, Juan Gimenez ha piena consapevolezza del suo ruolo di autore completo e delle dinamiche del mercato in cui agisce adesso per cui, per l’ennesima volta, questa prima parte di una trilogia franco-belga serve principalmente da antipasto per quello che verrà in seguito e lascia con una sensazione di incompiutezza una volta arrivati alla “fine”.

 

Molto buona anche la confezione della Lombard, un intelligente formato 23,5x30 che non fa rimpiangere lo standard 24x32 (e che non fa lievitare il prezzo). Inoltre lustrini e paillettes per una volta sono più che giustificati.

mercoledì 15 dicembre 2010

L'Eternauta (originariamente apparso su Fucine Mute 16)

L’Eternauta e il fumetto moderno


Non è facile delineare una storia del fumetto d’Autore, categoria la cui esistenza è stata peraltro periodicamente messa in dubbio. Senza entrare nel merito dell’esistenza o meno di questo “genere”, è impossibile non rilevare come, per esempio, tra le proposte degli editori Bonelli e Alessandro qualche differenza ci sia. Forse è più utile, per designare la maturità del fumetto, ricorrere all’abituale distinzione tra classico e moderno, più che rifarsi al contributo dei singoli Autori. Ma anche così la catalogazione è difficile. A ben guardare, il fumetto nasce già adulto e consapevole: se oggi un disegnatore di fumetti utilizzasse lo stile grafico dei pionieri Outcault o Feininger sarebbe sicuramente bollato come autore sperimentale, non neoclassico. L’esplosione dello Spirit di Eisner si avrà dopo la fine del secondo conflitto mondiale (nonostante il personaggio sia nato nel 1940) ma molto tempo prima il mondo del fumetto era attraversato da un fenomeno non tanto moderno o contemporaneo quanto addirittura postmoderno. Cos’è l’insistito richiamo di Burne Hogarth all’anatomia michelangiolesca se non manierismo? Stessa operazione che compiono Windsor McKay nei riguardi del liberty e Chester Gould con il primo espressionismo. Persino nelle tavole di Alex Raymond si possono trovare citazioni, pur se principalmente teoriche, da questo o quel Grande Maestro. Qualcuno potrebbe obiettare che forse si trattava di condizionamenti involontari e non di volontà citazionistica cosciente, eppure questi rimandi ci sono e sono anche molto evidenti. Qualcun altro potrebbe far presente che accanto agli esempi citati venivano prodotte moltissime opere di spessore ben minore, ma alla Storia sono passati, appunto, i Classici di cui sopra. Insomma, per diventare “moderno” il fumetto ha dovuto rinunciare alla troppa raffinatezza grafica e imporsi una narrazione rigorosa e realistica.
…e arriviamo all’Eternauta.
Il fumetto argentino (le “historietas”) ha una nascita e uno sviluppo praticamente uguali a quelli dei “comics” nordamericani. I suoi personaggi nascono su riviste satiriche e non sui quotidiani, ma la differenza è nulla se si osserva come in alcuni casi le storie argentine siano dei calchi contestualizzati dei modelli statunitensi (Las Aventuras de Don Pancho Talero di Lanteri si ispira abbondantemente al Bringing Up Father di McManus, mentre l’Happy Hooligan di Burr Opper trova un suo “clone”  in Las Aventuras de Virruta y Chicharròn di Redondo). La maggior fioritura di giornali prettamente dedicati ai fumetti si ha in Argentina, per un buon ventennio, durante il secondo dopoguerra e verso la metà degli anni ’50 uno sceneggiatore, Hector German Oesterheld, decide di diventare l’editore della propria produzione e insieme al fratello Jorge dà vita all’Editorial Frontera. Oesterheld, laureato in geologia, nasce come scrittore per l’infanzia per diventare poco dopo gujonista di fumetti, attività che svolgerà ai massimi livelli fino al  giorno della tragica scomparsa. 


Quasi tutte le sue opere più significative vennero concepite ai tempi dell’Editorial Frontera, che  stampava le sue  riviste di  punta (Frontera e Hora Cero) in un formato particolare: una grossa striscia dalle dimensioni e dalle proporzioni molto simili a quelle di una normale rivista, da cui si differenziava però per l’allestimento in orizzontale e non in verticale. Su queste pagine (e su quelle delle successive Hora Cero Extra, Frontera Extra e Hora Cero Semanal) sono nati personaggi-cardine del fumetto argentino e mondiale e alla fondamentale spinta di Oesterheld, che firmava quasi tutti i testi, si unirono i prestigiosi nomi di importanti disegnatori che su quelle pagine ebbero modo di sviluppare e raffinare il proprio stile: un nome su tutti, Hugo Pratt. Molto materiale giunse anche in Europa ma fu adattato, rimontato ed integrato con esiti raramente buoni.
Tra le serie più note ad essere prodotte per la Frontera da Oesterheld bisogna ricordare almeno Randall el Justiciero, disegnata da Del Castillo, Patria Vieja (Roume), Leonero Brent (Moliterni) e quelle disegnate da Pratt (con cui nel 1953 Oesterheld aveva già realizzato il mitico Sargento Kirk): Ticonderoga e Ernie Pyke. El Eternauta vedrà la luce nel 1957, creato graficamente da Solano Lopez.
Francisco Solano Lopez, nato nel 1928 e tuttora in piena attività, è un’altra figura fondamentale del mondo dei fumetti, e sotto la sua ala protettrice si sono formati giovani e validi disegnatori (come collaboratore ai disegni del primo Eternauta c’era anche un giovanissimo Josè Muñoz, futuro coautore di Alack Sinner).
Solano Lopez ha prodotto una mole impressionante di lavori ed ha collaborato con editori sudamericani, statunitensi, inglesi, spagnoli e francesi. Attenzione: non ha semplicemente realizzato delle opere che poi è riuscito a piazzare in diversi mercati, ma è riuscito con la sua versatilità a creare per ogni realtà in cui si è trovato ad agire dei lavori adeguati. Ciò è dovuto alla forte capacità comunicativa dei suoi disegni che, anche con pochi tratti, sono capaci di esprimere sensazioni e “raccontare” personaggi in maniera talmente efficace da essere universalmente comprensibili e da superare quindi i limiti delle scuole nazionali o degli steccati dei generi. Solano Lopez ha infatti toccato argomenti, atmosfere e stili diversissimi ed è passato per l’avventura, l’umorismo, l’hard boiled, la fantascienza, l’erotismo, la cronaca, il grottesco, la satira e quant’altro: indicativo a tal proposito è la serie Kelly’s Eye realizzata per la britannica Fleetway di cui dal 2010 possiamo ammirare in Italia una ristampa cartonata a cura della Planeta DeAgostini. Oltre all’Eternauta, altre sue opere importanti a livello internazionale sono Historias Tristes, Ana (scritta col figlio Gabriel), Evaristo (scritta da Sampayo) e le storie fantascientifiche un po’ folli e intrise di contenuti politici e sociali scritte da Ricardo Barreiro, come Slot Barr e soprattutto Ministerio.


Nel 1957, su Hora Cero Semanal, i lettori argentini trovano dunque una nuova serie, molto diversa dal solito. Ispirata, pare, a un breve racconto di fantascienza, L’Eternauta racconta di un’invasione aliena da parte di esseri extraterrestri spietati e dalla disumana volontà di sterminio. Questo è già uno scarto rispetto alla produzione abituale della Frontera, incentrata  principalmente sul western. E anche nell’ambito della fantascienza costituisce una certa rivoluzione. La storia si svolge a Buenos Aires, in un ambiente quindi subito familiare ai lettori argentini, i quali non si trovano a seguire le vicende di eroi o supereroi di un mitico Paese lontano, ma  quelle di protagonisti che sono persone comuni, rappresentate con un disarmante realismo. Dei quattro amici che, dopo una banale partita a carte, si ritrovano ad affrontare le prime avvisaglie dell’invasione, Polsky è un pensionato, Lucas Herbert un impiegato di banca, Favalli un professore di fisica e Juan Salvo, l’Eternauta, fabbrica trasformatori industriali. I quattro uomini si trovano nello chalet di Salvo insieme alla  moglie e alla figlia di questi, Helena e Martita, quando una curiosa nevicata iridescente attira la loro attenzione. Come sapremo poco dopo, l’invasione è cominciata .
Ma il personaggio dell’Eternauta viene presentato prima dell’inizio della sua storia, quando si materializza nello studio di uno sceneggiatore di fumetti, German O. Si tratta di un espediente semplice ma geniale con cui Oesterheld riesce a creare da subito una forte tensione. Bastano pochissime parole all’Eternauta per evocare intorno alla sua figura una forte aura di mistero e di fascino e il fatto che sia lui in prima persona a narrare gli eventi dona alla vicenda un realismo e una partecipazione del tutto inediti nei fumetti precedenti. La figura di German O. è ovviamente una chiara allusione allo sceneggiatore omonimo, un’autocitazione che però, per scelta o per difficoltà di Solano Lopez, si limita al solo nome visto che il testimone della storia dell’Eternauta non assomiglia per niente al vero Oesterheld.
Durante la narrazione della lotta all’invasore ci saranno due soli balzi temporali verso la realtà di German O., per ricordare al lettore che la storia che sta leggendo è un resoconto fatto allo sceneggiatore. Il nodo allacciato all’inizio verrà comunque sciolto alla fine, quando German rimarrà agghiacciato dalla terribile conclusione.


La storia, dicevamo, inizia con una strana nevicata che presto si rivela mortale per chiunque ne venga in contatto. Cadono senza vita i vicini di casa, le persone che passeggiano, i curiosi che aprono le finestre allo strano fenomeno, persino gli animali. Anche Polsky, in preda a un raptus, cadrà sotto la radiazione mortifera nel folle intento di correre ad avvertire i familiari. ben presto consci della terribile situazione, gli assediati cominciano a prepararsi per una sortita verso l’esterno. Favalli assume un ruolo di primo piano nella confezione delle tute isolanti e nella direzione degli altri lavori per garantire la sopravvivenza al piccolo nucleo di sopravvissuti e anche in seguito “ruberà il campo” più di una volta al protagonista. Parrebbe quasi un recupero della figura tipica del deuteragonista di troppi fumetti per ragazzi: il protagonista, buono e perfetto, ha bisogno di una “spalla” che faccia il lavoro sporco per lui (cioè che non abbia esitazioni a fare ciò che il titolare della serie, modello di virtù, non osa fare per questioni morali) e che tiri fuori delle trovate geniali quando la narrazione giunge ad un vicolo cieco. Ma la figura di Favalli è molto più di questo, è una persona reale, con occhiali e molti chili di troppo, e non si vergognerà a “crollare” quando la pressione psicologica sarà troppa .
I preparativi per l’uscita in strada sembrano interminabili e la perizia di Oesterheld nel mantenere viva la tensione è insuperabile (forse solo Alan Moore, Partick Cothias, Robin Wood e Pierre Christin sono riusciti in alcuni casi a far restare così incollato il lettore alle loro storie). Una volta fuori dalla loro “isola” Salvo, Favalli e Herbert si troveranno a dover fare i  conti prima con un’umanità incattivita dall’istinto di sopravvivenza (cui Herbert soccomberà) e poi, finalmente, con le prime tracce degli invasori. Sfere di fuoco che scendono verso la città e potenti fasci di luce che disintegrano aerei militari sono le disarmanti avvisaglie dell’immenso potere degli “ellos”, le mefistofeliche entità extraterrestri che nessuno osa nominare. Tanta e tale è la loro crudeltà che nell’universo intero sono i “Loro” per antonomasia.Unitisi a un gruppo di soldati sopravvissuti che hanno cominciato a organizzare la resistenza, i protagonisti passano finalmente all’azione. Dopo pagine d’ansia e di curiosità, vediamo le fattezze delle prime forze di sbarco degli invasori, degli insettoidi simili a pulci giganti, carne da cannone mandata avanti per spianare la strada a ben altri mostri. I branchi delle pulci sono controllati da diabolici macchinari che, inseriti nel corpo di una vittima, ne fanno una marionetta decerebrata. Anche alcuni terrestri subiranno la stessa sorte di questa repellente fanteria e la situazione già tragica per Juan Salvo e compagni si farà ancora più drammatica nel dover uccidere uomini-robot che prima potevano essere loro amici. Due personaggi emergono sugli altri: il giovane e intraprendente Alberto e l’ironica figura del giornalista Mosca, che si assume il compito di stilare le cronache della lotta all’invasore per le generazioni future.


Dopo la conoscenza  dell’esercito nemico (e la sua sconfitta nell’epica battaglia dello stadio River Plate) avviene quella con i suoi “generali”. Salvo e Alberto, durante una missione di ricognizione, cadono nelle grinfie di un “Mano”, uno degli esseri che costituiscono i luogotenenti dei “Loro”. Si tratta di esseri umanoidi con le braccia munite di più dita (in particolare il loro avambraccio destro è tutto un brulicare di pollici e di indici). L’Eternauta sopravviverà all’incontro grazie a un’altra, terribile, particolarità di questi alieni. I “Manos” sono infatti gli schiavi perfetti, in quanto appena nati sono soggetti ad un intervento che impianta nel loro organismo la ghiandola del terrore, un sinistro marchingegno che scatta, uccidendoli lentamente, al minimo apparire della paura o dell’idea di ribellarsi. Il primo “Mano” vivrà ancora quel tanto per rivelare preziose informazioni e per uno straziante congedo dalla vita. Il “cattivo” messo sullo stesso piano del “buono” è l’ennesima prova di “modernità” di Oesterheld, che non solo anticipa i pur prossimi supereroi targati Marvel, ma anche molto cinema successivo.
Dopo questa vittoria amara altre brutte sorprese attendono i sopravvissuti, in un continuo crescendo di tensione. L’Eternauta e gli altri dovranno vedersela ancora con i “Gurbos”, mastodontici pachidermi alieni, con esemplari perfezionati di uomini-robot e con la distruzione stessa di Buenos Aires prima di potersi asserragliare in un edificio e vedere un “Mano” che pare offrire il suo aiuto. Un aiuto tanto sperato quanto effimero: resisi conto di quanto siano duri i terrestri, i “Loro” fanno ricominciare la nevicata mortale lasciando sfumare ogni speranza di sopravvivenza all’esiguo gruppo. Inatteso e insperato giunge però dalla radio un messaggio d’aiuto: non solo in Argentina ma in tutto il mondo si sta organizzando la resistenza e tutti i sopravvissuti sono invitati a unirsi alle basi dislocate nei vari stati. Giunti a destinazione, proprio quando la terribile nevicata finisce e in un ruscello comincia a rinascere la vita, Salvo e il suo gruppo si trovano di fronte all’ultima micidiale trappola dell’invasore. Il finto centro di smistamento è l’ultima tappa del viaggio disperato dei nostri eroi e solo Juan Salvo sfuggirà al destino di essere tramutato in un uomo-robot. Raggiungerà con moglie e figlia una nave aliena e farà scattare involontariamente il meccanismo spazio-temporale che lo scaglia nel misterioso universo del “continuum 4”.
Ora Juan Salvo è condannato a viaggiare nello spazio e nel tempo, dal passato più remoto al futuro più lontano, alla ricerca dei suoi cari. Insomma, è diventato l’Eternauta. E’ riuscito a sfuggire ai “Loro”, ed è già una grossa vittoria, ma passerà la sua vita in mondi e in luoghi diversi, perso in questa disperata condizione …almeno fino alla sera in cui si materializza nello studio di German O.
Infatti , la tragica notte dell’invasione corrisponde a quella dell’agosto 1957 in cui lo sceneggiatore incontra l’Eternauta. Si tratta quindi della costituzione di un universo distopico (il lettore capisce che i fatti si sono svolti in un universo parallelo perché sono retrodatati), espediente che viene dunque introdotto nei fumetti trent’anni prima di Watchmen. German rimane esterrefatto e rincorre l’Eternauta, euforico per l’eccitazione di rivedere la sua famiglia, e una volta in prossimità del suo chalet vede i quattro amici che si riuniscono per giocare a carte. Juan Salvo si comporta in maniera normalissima, come se non avesse mai vissuto la tragedia che ha appena narrato. Dal cielo cade un fiocco di neve, poi un altro, un altro ancora …
Da questo breve sunto del primo El Eternauta , che non rende per forza di cose l’elevata intensità lirica dell’opera, ci si può fare un’idea dei temi e delle figure prediletti da Oesterheld. I personaggi, come abbiamo già detto, non sono certo eroi classici, ma uomini normali, di cui Oesterheld ci fornisce anche l’indirizzo! La precisione con cui Solano Lopez dipinge Buenos Aires e gli impieghi comuni che svolgono i protagonisti rendono la lettura dell’opera estremamente partecipata da parte dei lettori, soprattutto se argentini. I protagonisti potrebbero essere loro. La struttura della vicenda, con il suo folle alternarsi di piccole vittorie e di frustranti sconfitte (e il finale amaro non è certo un “happy ending” classico), non lascia spazio alla speranza, sembra una corsa disperata e degradante verso una fine ineluttabile.


Nel 1957, a pochi anni dalla fine dell’era peronista, El Eternauta era un meraviglioso racconto di fantascienza, innovativo e carico di umanità: uno dei meriti che in seguito sarebbero stati maggiormente attribuiti all’opera è proprio la creazione dell’”eroe collettivo”, del gruppo di uomini che trova nell’aiuto reciproco una propria eroicità e i cui componenti non esitano a sacrificarsi per gli altri. Vent’anni dopo, quando la casa editrice Record lo ristampò (e il successo fu tale che ne fu fatta subito dopo un’altra ristampa) El Eternauta divenne la metafora dell’oppressione che seguì all’insediamento di Jorge Videla nel 1976. Ora i lettori erano veramente i protagonisti di quella agghiacciante vicenda fatta di assassini decerebrati e di un potere oscuro, onnipotente e onnipresente, che negli ultimi mesi del ’76 aveva superato ogni limite di brutalità.
Oesterheld, che nel dramma del suo popolo aveva già perso le sue figlie, fu sequestrato il 21 aprile 1977 a causa della sua militanza nei montoneros, oppositori di sinistra del regime. Senz’altro anche la sua attività intellettuale nel campo dei fumetti ebbe un ruolo importante nel bollarlo come nemico della dittatura e con tutta probabilità fu proprio l’agghiacciante sovrapposizione del terrore fantastico dell’Eternauta e di quello reale dei suoi lettori la molla che fece scattare l’implacabile ottusità omicida dei militari. (secondo una leggenda nata dall’enfatica introduzione di Alberto Ongaro all’edizione italiana dell’Eternauta , Oesterheld sarebbe stato ucciso per aver realizzato con Alberto ed Enrique Breccia una biografia a fumetti di Che Guevara, ma quell’opera in Argentina non fu mai pubblicata e per precauzione non fu nemmeno fatta figurare nelle bibliografie dei suoi autori)
A ridosso della ristampa del primo Eternauta, la Record commissionò agli autori un seguito. Oggi che entrambe le parti, e non solo la prima, sono intrise di quell’aura  mitica che spesso tradisce l’obiettività di chi le giudica, possiamo serenamente affermare che il secondo Eternauta non solo mantiene inalterati lo spirito, il coinvolgimento e soprattutto la qualità del primo ma addirittura li supera. Calati in un contesto temporale diverso, i protagonisti sono ora Juan Salvo e lo stesso German O., non più semplice ascoltatore ma parte attiva della vicenda: un triste parallelo con le scelte che avrebbero decretato la sua morte. A distanza di anni, sembra quasi che L’Eternauta  del 1957 sia privo di qualcosa senza quello del 1977 e la lettura ideale è quella organica di entrambe le parti (l’Eura Editoriale le ha ristampate di fila in tre volumi).


L’Eternauta ha avuto alcune interpretazioni da parte di altri disegnatori ma la versione che più di tutte è rimasta impressa nel ricordo degli appassionati è proprio quella di Solano Lopez, sulle cui grandi doti di narratore abbiamo già detto. Una versione interessante è quella realizzata da Alberto Breccia nel 1969, la prima ad arrivare in Italia dove fu pubblicata su Linus. Si tratta di un saggio magistrale delle capacità espressive di Breccia, che ritrae dei mostri realmente spaventosi, anticipatori delle visionarie immagini con cui illustrerà una decina d’anni dopo i racconti di H.. P. Lovecraft. Purtroppo i testi sono solo un pallido ricordo della versione originale, in quanto Oesterheld fu costretto a condensare la vicenda in un numero limitato di pagine. L’Eternauta  di Breccia comparve infatti sulla rivista Gente, più o meno come TV Sorrisi e Canzoni da noi, e il pubblico protestò contro questo fumetto “difficile”. Non è escluso però che neppure il governo dell’epoca apprezzasse questa storia così contestatrice (ora il nord del mondo tratta con gli “Ellos” la conquista del sud e i militari sono del tutto assenti ) . Oggi è possibile reperire, con un po’ di fortuna, questa versione nel volume Oltre il tempo, edito dall’Isola Trovata, che contiene anche il primo episodio di Sherlock Time, altra serie di Alberto Breccia. Con meno fortuna ma più probabilità è invece possibile acquistare L’Eternauta di Alberto Breccia nella recente edizione della Comma 22.
Non si discostano purtroppo dall’interpretazione (e non sono veri e propri “sequel”) nemmeno i seguiti che si sono voluti dare ad un capolavoro che, visti gli esiti del “terzo” e “quarto” Eternauta , era perfettamente concluso in sé. Una terza parte è stata realizzata un paio d’anni dopo la seconda e pare coinvolgesse originariamente anche gli autori originali: Oesterheld aveva previsto un seguito alle avventure del suo personaggio, mentre Solano Lopez curò in parte l’aspetto grafico delle prime tavole limitandosi però ai volti dei personaggi e disconoscendo il risultato finale. Scritta da Alberto Ongaro e disegnata da uno staff capeggiato da Oswal e Mario Morhain, la storia si perdeva nei meandri degli universi paralleli e prendeva alcuni elementi della saga originaria per poi svilupparli con estrema libertà.
Il quarto Eternauta è quasi interamente opera di Francisco Solano Lopez, che è stato assistito da Pol per i testi e i colori. Si tratta di un Juan Salvo ancora più spersonalizzato di quello di Ongaro, che agisce con una tuta da supereroe e raddrizza torti su mondi lontani. Entrambi questi esperimenti sono piuttosto deludenti e la presenza dell’Eternauta viene resa ancora più stridente dal fatto che le storie raccontate funzionano benissimo da sole e non hanno dunque bisogno di un personaggio troppo mitico per non essere ingombrante. Ongaro ce la mette tutta per ripristinare il senso d’angoscia che sapeva creare Oesterheld , e il risultato non è neppure disprezzabile, ma né lui né Solano Lopez hanno saputo trovare dei temi così grandiosi come quelli delle prime due parti.
La saga dell’Eternauta è stata ulteriormente continuata in anni più recenti sia in formato comic book (la miniserie incompiuta Odio Cosmico che coinvolse i nommi di Barreiro e Taborda) che in una versione che vorrebbe essere fedele all’originale realizzata ancora da Solano Lopez con il consueto supporto di Pol.
L’Eternauta è stato il primo esempio, la prima testimonianza del fatto che si poteva fare fumetto in maniera adulta rivolgendosi ad un vasto pubblico. Oggi è diventato una vera e propria icona (basta vedere il film Sur di Solanas per averne un esempio tangibile) e la sua importanza è testimoniata anche dal fatto che in Italia una rivista prese il suo nome per ospitare altri fumetti adulti, impegnati e “politici”. L’Eternauta fu tra le ultimissime, gloriose riviste di fumetto d’Autore a cadere, e negli ultimi anni venne ripresentata in libreria sotto forma di albo monografico L’Eternauta presenta, edita da Comic Art, che curò anche la trasposizione dell’Eternauta in un videogioco intitolato Gli invasori della città eterna.
Ovviamente abbondano gli omaggi più o meno dichiarati all’Eternauta e al suo mito e uno sceneggiatore come Ricardo Barreiro ne ha fatti parecchi, sparsi per la sua produzione. In Parque Chas, disegnato da Eduardo Risso, è l’aura mitica del personaggio a essere evocata quando il protagonista lo incontra insieme a Corto Maltese e al Giuseppe Bergman di Manara, simboli dell’evasione e della fantasia; in La Città  l’Eternauta viene proprio preso di peso e diventa un personaggio della vicenda, colui che col suo atto estremo delinea la morale della vicenda disegnata da Juan Gimenez; infine in Barbara  (disegnata da Juan Zanotto) l’Eternauta è solo il ricordo di un vecchio fumetto letto da bambini. Anche Juan Sasturain e Alberto Breccia si rifanno all’aura mitica del personaggio nel loro Perramus, mentre altri omaggi si possono trovare, a diversi livelli qualitativi, in varie serie pubblicate su Lanciostory e Skorpio, che talvolta ricordano molto da vicino il modello: Giorno senza fine (Gazzarri-Saudelli), Raycon (Wood-Emiliano), John Cronos (Jara-Castro), Mark (Wood-Villagran), ecc.


La prima e la seconda parte della saga sono state pubblicate in Italia da Lanciostory  a breve distanza l’una dall’altra (rispettivamente nel ’77 e nel ’78) ed entrambe furono raccolte in volume subito dopo da Comic Art. Questi splendidi libri cartonati sono da tempo esauriti e, nonostante le periodiche promesse di ristamparli, l’unico modo di procurarseli è pagarli a prezzi da collezionisti alle fiere. I volumi della Comic Art sono in tutto quattro: L’Eternauta 1 e 2 e Il Ritorno dell’Eternauta 1 e 2, questi ultimi impreziositi da due splendide copertine disegnate e colorate da Roberto Regalado. L’Eura ristampa comunque periodicamente la saga nella versione rimontata da Ruggero Giovannini (primo e miglior grafico di Lanciostory nonché disegnatore di fumetti come Biondo e Rampino), che riadatta lo schema della striscia orizzontale in un formato verticale. Il passaggio non è assolutamente traumatico, poiché Giovannini segue vignetta per vignetta il ritmo dato da Solano Lopez e sviluppa delle tavole “vive” e non statiche. Certo, non si tratta della versione originale. Dall’Eura furono cambiati anche molti dei nomi originali e se Juan Salvo viene cambiato in Juan Galvez per l’ambiguità del cognome e se un banale Ruiz viene preferito all’originale nome del cronista, Mosca, forse perché ritenuto meno ridicolo, non ci si spiega perché Favalli debba diventare Ferri e i “Manos”, “Kol”. Un problema ben più grave delle ristampe dell’Eura è che a ogni edizione successiva la qualità della stampa peggiora, probabilmente perché non parte dagli originali ma dall’edizione precedente. I fitti tratteggi di Solano Lopez si fanno sempre più spessi e “sporchi”, fondendosi in un nero indistinto. Ancora poche ristampe e l’”inside joke” di un manifesto che annuncia l’esibizione della jazz band di Hugo Pratt sarà del tutto illeggibile. Sarebbe una fine veramente misera per uno dei più importanti fumetti mai realizzati.

[negli anni che separano la stesura di questo pezzo dal 2010 l’interesse per L’Eternauta non è scemato e anzi si è fatto molto più forte. Non si contano gli omaggi su internet, e tra i vari testi che permettono di approfondire la figura di Oesterheld o della sua creazione, consiglio vivamente lo scrupoloso e documentatissimo Memorie dell’Eternauta realizzato da Garcia e Ostuni e pubblicato recentemente in Italia dalle Edizioni 001]

domenica 12 dicembre 2010

Swamp Thing (originariamente apparso su Fucine Mute 28)

Fuori dalla palude

[questo articolo nasceva a seguito della conclusione della pubblicazione italiana dell’integrale di Swamp Thing da parte della Magic Press, un progetto decisamente tormentato che contemplò l’uscita di 11 numeri nell’arco di ben 3 anni – come introduzione avevo inserito una lunga scheda biografica di Alan Moore, ormai inevitabilmente superata]

La nascita del fumetto Swamp Thing risale a quarant’anni fa, a quel 1971 in cui i responsabili della DC Comics (la casa editrice di Superman e Batman) decisero di accogliere i nuovi fermenti creativi che smuovevano l’America già da alcuni anni e che si manifestavano principalmente con le proposte della Warren Publishing, a sua volta influenzata dal movimento underground. Due ottimi professionisti (Len Wein ai testi, Berni Wrightson ai disegni: entrambi sarebbero diventati delle autorità  nei rispettivi campi) furono scelti per dar vita a una serie che si discostasse dall’imperante formula del supereroe: bisognava aprire a un horror gotico e raffinato, più maturo di quello del Deadman che pochi anni prima comparve sulla scena con la solita calzamaglia sgargiante e con le iniziali sul petto.


I nuovi fermenti furono colti anche dalla concorrente Marvel Comics (L’uomo ragno, X-Men, ecc.), l’altra casa editrice egemone del mercato USA, che infatti fece sorgere, sempre in una palude, il suo Man-Thing (autori: Steve Berger e Val Mayerick). È uso comune a tutt’oggi che le major sfruttino lo stesso trend del momento praticamente in contemporanea, sia esso costituito da una formula editoriale (le maxiserie: Crisis-Secret Wars), dal disegnatore più di moda in quel dato periodo (Alex Ross: Marvels-Kingdom Come) o, come in questo caso, da una certa tematica o atmosfera. È quindi inutile scandalizzarsi per le inevitabili equipollenze tra una serie e la diretta rivale, come è inutile cercare di deliberare sul “chi ha copiato chi”.
Fu così che nacque la “cosa della palude”, un mostro vegetale risultato di un tragico esperimento (e della crudeltà degli uomini, come da copione).
Per continuare indisturbato i suoi studi sulla possibilità di creare un sistema per favorire la crescita e la resistenza del “polmone verde”, lo scienziato Alec Holland si isola con la moglie Linda nelle paludi della Louisiana. Quando rifiuta di cedere il suo lavoro alla multinazionale del signor Ferrett viene scaraventato nel “bayou” da una bomba posta nel suo laboratorio. L’Holland che conoscevamo è scomparso dalla scena, ma la reazione chimica della sua formula bioristorativa con la flora circostante e il suo corpo dà vita ad un ammasso vegetale senziente coi ricordi dello scienziato assassinato e la sua voglia di vendetta.
Hanno inizio così le tribolazioni di Swamp Thing, alla ricerca ossessiva di un antidoto per guarire dalla sua condizione di uomo-pianta, ma che non disdegna di fare giustizia quando gliene verrà offerta l’occasione.
Come facilmente intuibile, il Tempo non si sarebbe rivelato un gentiluomo con questo romanzaccio romantico fuori tempo massimo, ma per il gusto dell’epoca la storia era interessante e innovativa, tanto che Swamp Thing  venne presentato in una collana tutta sua dalla fine del 1972 (la recente ristampa del primo ciclo da parte della Planeta DeAgostini ha comunque dimostrato la validità anche del materiale originario). I disegni sono tuttora una gioia per gli occhi e quando l’ottimo Wrightson abbandonò la serie il calo fu inevitabile e la testata, bimestrale, non sopravvisse oltre il ’76. Anche il successivo tentativo di rilancio del personaggio che la DC Comics azzardò nel 1982, con il pomposo titolo di The Saga of the Swamp Thing, sembrava destinato a non lasciare alcun segno nella storia del fumetto. 


Ma quanto miope fu il commento alla serie presentato su Totem n°37 “Speciale USA”. Nell’inquadrare criticamente il lavoro di Wrightson, di cui veniva pubblicata una storia breve, Swamp Thing fu citato brevemente come una serie gloriosa ma ridotta ormai al lumicino; veniva anzi descritta come prossima alla definitiva morte editoriale dopo la già avvenuta morte artistica. Tutto ciò avveniva nel 1984, quando Moore era al timone della serie già da quasi un semestre e il fumetto d’Autore europeo era prossimo a entrare in crisi. I comics “suggested for mature readers” si sarebbero presi una  bella  rivincita di lì a qualche anno.
All’outsider Alan Moore venne affidato il compito di scrivere l’agonizzante fumetto e probabilmente nessuno dei dirigenti della DC Comics si sarebbe aspettato da lui la conversione di Swamp Thing nel capostipite delle nuove tendenze adulte dei comic book statunitensi, nonché il plebiscitario successo critico ed economico.
Moore esordì nella serie col numero 21 (febbraio 1984) e si ritrovò con l’ingrato compito di dover sciogliere i nodi diegetici allacciati precedentemente.
L’edizione italiana della Magic Press vuol essere per quanto possibile fedele alla riedizione americana di Swamp Thing e presenta il fumetto inizialmente in bianco e nero (solo gli ultimi due volumi sono colorati) accorpando in un’uscita quattro episodi più alcuni redazionali. I volumi sono spillati e la copertine presentano dei risvolti in modo da illustrare tutte le cover originali relative agli episodi specifici di ogni numero. Per comodità tratteremo delle singole storie in relazione al volume che le ospita, in modo da seguire sia l’evoluzione del fumetto in sé sia quella della travagliata edizione italiana.


Swamp Thing 1: La lezione di anatomia. Come si può concludere e dare una coerenza logica ad una storia già iniziata da un altro autore (che forse non credeva molto in quello che faceva e sicuramente non ne aveva pianificato gli sviluppi), e oltretutto considerata un peso morto dall’editore, che già ne aveva preventivato la soppressione? Alan Moore risolve il problema in maniera semplice ma drastica: getta alle ortiche quanto era stato fatto precedentemente. Questo metodo traumatico di chiudere con le trame precedenti quando diventano ingestibili avrebbe purtroppo costituito una disonesta consuetudine nei futuri comic book della Vertigo, tanto che l’intelligente Peter Milligan giunse a parodiarlo nel continuo flusso di morte e resurrezione del suo Shade the changing Man (o almeno, è bello credere che questa fosse la sua intenzione…). Ma dieci anni prima della nascita della sottoetichetta della DC Comics un brusco cambiamento di rotta in un fumetto era decisamente qualcosa di originale e, in questo caso, addirittura  salvifico.
La “lezione di anatomia” del titolo è quella che apprende il Dottor Jason Woodrue (“villain” storico della casa editrice di Superman) mentre conduce l’autopsia sul corpo congelato di Swamp Thing, catturato e apparentemente ucciso dal Generale Sunderland a conclusione degli scialbi episodi precedenti. Woodrue si interroga sul perché di quei polmoni così ben sviluppati e di quel cervello così simile a quello umano se entrambi gli organi, e tutti gli altri, sono inutilizzabili. La soluzione lo illumina assolutamente per caso, quando per sbaglio consulta la pagina di un saggio sulle planarie, vermi platelminti che possono sviluppare capacità cognitive semplicemente mangiandosi a vicenda. Associare le planarie alla vegetazione mutata dalla formula bioristorativa è un’intuizione elementare e, come scopriremo, assolutamente esatta. Swamp Thing non è quindi l’alter ego vegetale di Alec Holland: Alec Holland è irrimediabilmente morto nella palude, ma la flora “illuminata” è riuscita a ricostruire al meglio la sua memoria e, in parte, il suo corpo. Come turning point non è decisamente roba da poco: tirando una bella riga su tutto ciò che era stato scritto prima, Moore toglie al personaggio il motore fondamentale del suo agire (la ricerca di un antidoto per tornare umano) e complica ulteriormente la sua psicologia. Difatti, una volta eliminato furiosamente il Generale Sunderland, Swamp Thing fa ritorno alla sua vecchia palude della Louisiana per giacere immobile e mettere radici (letteralmente!) nel terreno. 


È una crisi esistenziale non certo leggera quella che l’ha colpito: non solo non potrà riacquistare la forma di Alec Holland, ma addirittura quella forma altro non era se non una sua illusione, l’imprinting che i resti del vero Holland hanno dato a un ammasso di piante altrimenti inerte. È quindi comprensibile che il povero mostro della palude voglia lasciarsi morire dolcemente tra gli acquitrini nonostante i tentativi di ridestarlo di Abigail Cable e gli strani sogni allegorici che gli affastellano la mente. Sarà ancora l’intervento di Woodrue a destarlo dal suo stato e a dargli una nuova consapevolezza. Tentando di mettersi in contatto con la psiche del mostro verde, il “mad doctor” riceve invece dei deliranti impulsi da tutta la flora del pianeta e rinnega definitivamente le sue sembianze umane per ritornare alla propria vera natura vegetale di floronian man, identità con cui fu già combattuto, e regolarmente vinto, da alcuni personaggi della DC Comics. Con tutta la vegetazione del mondo ai suoi ordini, Woodrue lancia una demente crociata tesa alla distruzione della vita animale sulla Terra. Di fronte alle immense possibilità distruttive delle piante (a cui basta aumentare l’emissione d’ossigeno per rendere estremamente infiammabile l’atmosfera) persino i supereroi della Justice League non sanno che pesci pigliare. Sarà quindi proprio il rinato Swamp Thing a bloccare l’operato di Woodrue, mostrandogli l’assurdità del suo gesto e trovando in ciò un barlume di speranza che giustifichi la sua presenza nel mondo dopo Alec Holland. «e TU chi sei?» chiede la confusa Abigail quando apprende di non trovarsi di fronte alla reincarnazione di Holland; «io sono…SWAMP THING.» è la risposta, e tanto basta a far nascere un nuovo ciclo nella vita dell’ingombrante mostro verde nato più di dieci anni prima.


Alan Moore si dedica a un rinnovamento non solo tematico ma anche stilistico, introducendo una serie di meccanismi testuali e patemici molto raffinati e inserendo nei comic books una prosa decisamente inedita e ricercata («Le nuvole come tamponi di cotone idrofilo insanguinato sfiorano inutilmente i polsi tagliati del cielo.»). Per la sua evocatività si ha talvolta quasi l’impressione che sia stata presa a prestito o progettata per un romanzo.
La comparsata dei supereroi classici della DC Comics non è fuori luogo come nel caso dei primi episodi del Sandman di Neil Gaiman, ma serve a sottolineare il distacco che Swamp Thing sta prendendo dagli altri eroi della scuderia di cui fa parte.
Lodevole anche il lavoro svolto dai disegnatori Bissette e Totleben, oggi forse un po’ datato ma comunque molto espressivo (e il bianco e nero sottolinea proprio questa qualità) pur se le anatomie sono spesso rigide o deformate e alcuni tratteggi appesantiscono il disegno.
La lezione di anatomia costituisce un ottimo saggio di quello che Moore sarebbe stato capace di fare in seguito e il fatto che concluda nell’arco della stesso volume tutto un ciclo narrativo completo ne fa un “gioiellino” irrinunciabile per chi ama il fumetto. 
Con il successivo volume Il sonno della ragione la personalità di Swamp Thing e il mondo in cui agisce saranno ulteriormente approfonditi. La Magic Press sostituisce la carta povera ma suggestiva di Swamp Thing 1 con una buona patinata lucida che assottiglia di quasi la metà il fascicolo, rendendolo meno voluminoso.


Swamp Thing 2 presenta un breve ciclo in tre parti che inizia con l’episodio Il sonno della ragione (che dà il titolo al volume) e si snoda per …Il momento di correre… e …Da demoni guidati!. Moore confeziona una storia non proprio originalissima, facendo scontrare Swanp Thing con un demone che si nutre di paura, ma introduce molti elementi interessanti nella saga, che saranno fondamentali per il suo sviluppo. Abigail trova lavoro presso il Centro Campi Elisi per bambini autistici, il suo compagno Matt Cable subisce un incontro le cui conseguenze vedremo tra poco, compaiono i primi particolari hippy/new age tanto cari a Moore e l’atmosfera della serie vira decisamente verso toni molto morbosi e ambigui, che troveranno piena soddisfazione nel successivo volume. Peccato che questa miniserie mozzafiato, basata su una forte sensazione di predestinazione che induce il lettore a divorarla senza un momento di noia, sia in parte rovinata dalla presenza di Etrigan, demone scaturito dalla mente di Jack Kirby nel 1972 che ha la fastidiosa abitudine di parlare in pentametri giambici! Anch’egli si inserisce nel progetto più generale della DC Comics di recuperare e rimodernare i vecchi personaggi di cui ancora detiene i diritti, inserendoli in contesti più adulti e adeguati ai tempi. Non basta certo la buona traduzione di Leonardo Rizzi per rendere meno ridicole le rime del demone. A chiudere Il sonno della ragione c’è un fill-in, cioè uno di quegli episodi “tappabuchi” cui si ricorre nelle serie regolari americane quando i disegnatori  titolari  sono troppo indietro con il lavoro. In questo caso, La sepoltura (disegnato da Shawn McManus) rappresenta un suggestivo metodo di concludere il dilemma esistenziale di Swamp Thing, che con le spoglie di Alec Holland seppellisce anche molte delle sue esitazioni.
Swamp Thing 3 (un numero speciale di 112 pagine: uno dei quattro episodi è infatti un annual di 40 pagine) contiene un episodio d’importanza capitale per la saga e per il mercato USA in generale. Con Amore e Morte, che è anche il titolo del volume, la DC Comics rinuncia infatti per la prima volta al marchio rassicurante della “Comics Code Authority”, quella sorta di autoregolazione ideata dagli editori americani negli anni ’50 per evitare noie con la censura (e per dare il colpo di grazia ai bei fumetti dell’orrore di case editrici rivali più impegnate e intelligenti ma meno forti economicamente…). In effetti da questo numero i disegni si fanno più espliciti e inquietanti, ma è soprattutto Moore a non farsi più problemi nel raccontare storie raccapriccianti ed efferate, intercalando però vicende  di demoni e mostri con quelle più tangibili di violenza domestica, follia e addirittura incesto. Nell’arco di questo volume apprendiamo come gli eventi dei precedenti capitoli facessero parte di un piano architettato dal luciferino Anton Arcane, zio di Abigail che era stato affrontato come villain dallo Swamp Thing della gestione pre-Moore. Alan Moore è semplicemente geniale nel dare a tutte le vicende una conclusione adatta e nello sfruttare al meglio i legami che i singoli episodi hanno con quelli vecchi. Le criptiche visioni profetiche e i nodi allacciati precedentemente (come l’incontro di Matt Cable con Arcane, cui accennavamo sopra) trovano la loro perfetta e soddisfacente risoluzione nel ciclo di Amore e Morte, che vede il disperato Swamp Thing andare fino all’inferno pur di salvare l’anima di Abigail, dannata dallo zio redivivo nel corpo di Matt. 

 
La storia è coinvolgente e i suoi ritmi sono serrati, ma le eccezionali idee di Alan Moore non si esauriscono ai livelli testuali e stilistici. Lo sceneggiatore coglie infatti l’occasione della Crisis prossima ventura (maxiserie in cui gli universi paralleli della DC Comics venivano eliminati coinvolgendo tutti i personaggi) per introdurre di peso nella storia la figura del Monitor, elemento chiave della saga che avrebbe fatto tabula rasa del mondo di Superman, Batman e compagnia. Pur se presentato solo di sfuggita e per incrementare il pathos della vicenda, la sua apparizione troverà una giustificazione nei numeri a venire. L’utilizzo oculato e intelligente di materiale imposto dalla casa editrice o frutto di altri autori si nota anche nelle comparsate che i personaggi “spirituali” di casa DC fanno nell’ultimo episodio del volume, Giù in mezzo ai morti. Moore sa rendere con realismo e partecipazione (nonché con affetto e simpatia) la personalità di figure quali Phantom Stranger o Deadman, personaggi che darebbero filo da torcere ad ogni sceneggiatore che volesse cavarne fuori qualcosa di nuovo o interessante.
Particolare importantissimo: per la prima volta si accenna al fatto che Swamp Thing sia un elementale.
Amore e Morte è senz’altro un bel punto d’arrivo (addirittura Neil Gaiman confessa che ne fu terrorizzato!) ma Alan Moore sarebbe riuscito addirittura a superarsi nel corso della serie, quando i molti premi che ricevette per la sua opera e l’inaspettato successo commerciale gli garantirono una certa libertà nel trattare gli argomenti che voleva nel modo che voleva.
Swamp Thing 4 è uno tra i volumi più bizzarri e onirici della serie. Il rito della primavera si apre con due fill-in decisamente originali. Nel primo (Pog, disegnato da Shawn McManus) degli alieni zoomorfi atterrano nella palude della Louisiana dove risiede Swamp Thing. la storia è in realtà un pretesto per omaggiare la sarcastica striscia umoristica Pogo del grande Walt Kelly e di sfuggita Alan Moore abbraccia anche la causa degli animalisti e dei vegetariani, ma senza retorica o pedanteria. Eppure questo rapido e probabilmente disimpegnato riempitivo è talmente drammatico e ben scritto (Moore inventa addirittura un vocabolario per i suoi alieni!) da suscitare una certa commozione.
Il secondo fill-in è Case abbandonate, disegnato da Ron Randall. Abigail sogna e la sua attività onirica le consente di accedere al piano delle Case dei Misteri e dei Segreti. Anche questo elemento è un recupero di vecchie testate della DC Comics, che poi sarebbero state riprese nella sottoetichetta Vertigo. La replica (leggermente modificata) delle origini del primo Swamp Thing di Wein e Wrightson, calato in un altro contesto, permette ad Abigail di venire a conoscenza di un progetto cosmico che sta per trovare compimento nel futuro. Ma la Casa che aveva scelto di visitare era quella dei Segreti e quindi la coscienza di questa esperienza si perde con le prime luci dell’alba. 


Divertente e raffinatissimo il breve dialogo con cui si rivela la vera natura delle Case e dei loro due guardiani (Caino e Abele), che in effetti sono solo «proiezione dell’INCONSCIO UMANO ed esistiamo come costrutto dell’emisfero cerebrale destro».
Nonostante sia perfettamente inserito nella continuity regolare, anche il terzo episodio, Il rito della primavera, è un momento di pausa narrativa. La vicenda verte interamente sulla dichiarazione d’amore reciproca di Swamp Thing e Abigail ed è occupato per quasi metà della sua durata da un lungo amplesso psichedelico che sancisce il legame tra i due protagonisti in sostituzione di un rapporto carnale che non potrà mai aver luogo. La scomparsa di Matt Cable viene risolta nella prima tavola: per Swamp Thing si è chiusa un’epoca e una nuova sta per iniziare.
Il quarto capitolo del volume è infatti la prima parte de Il carteggio Nukeface, una storia che innescherà un importante meccanismo narrativo, preludio ad una complessa trama che porterà la serie al suo massimo splendore.
Il rito della primavera è stata la prima puntata di Swamp Thing ad avere un comic book tutto suo presso la Comic Art, che precedentemente aveva pubblicato la serie sulle sue riviste antologiche Horror e DC Comics presenta. Tutte queste pubblicazioni possono costituire motivo d’interesse per la colorazione che Tatjana Wood (vedova del “geniaccio” Wallace) curò per valorizzare le storie di Swamp Thing.
Come dicevamo, Il carteggio Nukeface sarà un fondamentale  momento di svolta nella serie e già dalle prime pagine di Swamp Thing 5 (Acque calme) si capisce la sua portata: Swamp Thing viene infatti annientato dal bizzarro Nukeface, demente vagabondo reso altamente radioattivo dal contatto con le sostanze delle discariche abusive della Pennsylvania. Inconsapevole della propria pericolosità, Nukeface contamina e distrugge la vita intorno a sé senza nemmeno rendersene conto. La sua apparizione non ammette repliche o fughe e la morte di Swamp Thing sembra inevitabile. Più che lo stile da inchiesta (con i vari personaggi coinvolti che depongono le loro testimonianze) è coinvolgente il pathos con cui Moore descrive gli ultimi attimi di vita di Swamp Thing. La tecnica del cliffhanger (tenere in sospeso i lettori per suscitare la loro curiosità) non ha segreti per lo sceneggiatore inglese e in effetti l’aspetto di denuncia sociale della storia passa quasi in secondo piano rispetto all’ansia di scoprire come il progetto di “ricostruire un nuovo corpo” si compirà.
Con Modelli di crescita non solo avremo delle risposte, ma una nuova linfa narrativa verrà immessa nella saga. Mentre Swamp Thing sta lentamente rigenerandosi, in giro per il mondo alcuni strani personaggi in contatto col mondo del sovrannaturale sembrano aver percepito, ognuno a modo suo, il prossimo “ritorno” di qualcosa che minaccerà il mondo intero. A fare quasi da collante tra le due vicende parallele viene introdotto il personaggio di John Constantine. Nonostante l’opposizione del suo stesso creatore Alan Moore, la DC Comics ne avrebbe fatto il protagonista di una serie regolare tutta sua. Anche se spesso Hellblazer (la testata dedicata a John Constantine) avrebbe raggiunto vette narrative molto alte, è innegabile che ogni sceneggiatore che se ne è occupato ha fatto del personaggio quello che ha voluto, inserendo nelle sue storie elementi personali anche molto divergenti come stili ed atmosfere. È senz’altro piacevole vedere qui John Constantine nella sua forma originaria e quindi più autentica, con le fattezze di Sting e un atteggiamento da sbruffone attaccabrighe. È infatti lasciandogli intravedere la possibilità di conoscere dettagli sulla sua natura di elementale vegetale che Constantine costringe Swamp Thing ad assecondarlo nelle sue richieste di vagare per mezza America.
Con Modelli di crescita ha inizio il lungo ciclo narrativo intitolato “American Gothic”, come il quadro di Grant Wood. Si tratta di una vera saga-maratona in cui Swamp Thing è chiamato a risolvere i problemi che si stanno verificando un po’ ovunque negli Stati Uniti (con una predilezione per le zone di provincia o comunque periferiche) e che sono le prime tracce dell’influsso dell’Antimonitor nel cosmo spirituale della DC Comics. Questi elementi saranno chiariti in seguito, anche se Moore scriverà le sue storie con la massima libertà senza far pesare troppo l’onnipresente Crisis che si sta per abbattere sulle testate della casa editrice.
La prima tappa delle peregrinazioni di Swamp Thing (che ha imparato a trasportare la propria coscienza attraverso le piante e quindi a riformare un corpo subito dopo) è il paesello di Rosewood, in cui si è venuta a creare fortuitamente una colonia di vampiri acquatici. La descrizione dei personaggi, dei retroscena e della lotta contro le strane creature occupa due episodi, gli ultimi di Swamp Thing 5: Acque calme e Una storia di pesca. Il volume è impreziosito da un articolo sulle maldestre versioni cinematografiche del personaggio, con tanto di foto di scena. 


In Swamp Thing 6 continuano gli interventi del mostro verde nelle situazioni in cui è richiesto il suo aiuto. A cornice di una storia di zombie e razzismo divisa in due parti (Cambio a Meridione e Uno strano frutto, il primo è anche il titolo del volume) si trovano due episodi stupendi, in cui il lirismo di Moore tocca le sue punte massime. La maledizione è il tentativo frustrato di una donna di liberarsi del suo ruolo sottomesso, che a causa degli influssi che stanno cambiando l’America si manifesta con la sua metamorfosi in licantropo. Giù da un ramo è invece un delizioso apologo sull’animo umano, oltre che un curioso trattato di botanica sulle proprietà dei frutti generati da Swamp Thing. Poco importa che si tratti di un fill-in slegato dal flusso principale e in cui il titolare della serie praticamente non compare: resta in assoluto uno degli episodi più suggestivi ed emozionanti.
Dopo una lunga pausa di quasi un semestre (quando invece tra il secondo ed il terzo numero ci fu uno stacco di “soli” quattro mesi) esce Swamp Thing 7: Il parlamento degli alberi. Il perché del ritardo è chiaro fin dalla copertina: il prezzo è stato portato a 8 000 lire e adesso la serie esce solo nelle librerie specializzate. Si tratta di una correzione di rotta evidentemente indispensabile per permettere all’elementale vegetale di continuare il suo percorso. Che con questo volume passa attraverso i delitti efferati di un lucido e spietato serial killer (Uomini neri), una casa infestata da un odio immortale (Danza di spettri) e, finalmente, le prime rivelazioni (Apocalisse e Il parlamento degli alberi). Il “multiverso” è  prossimo alla fine e agli eroi della DC Comics spetta il compito di salvare il salvabile unendo le terre parallele che non sono ancora cadute davanti a quello che Constantine descrive come «Qualcosa [che] le divora una per una, come una LARVA che sgranocchia un fascio di CARTINE GEOGRAFICHE.» L’ambito che interessa Swamp Thing è quello spirituale, minacciato da una setta satanica stanziata in Sud America, cui per il momento si fa soltanto un breve accenno. Come al solito Alan Moore si dimostra un soggettista intelligente e raffinato, e dà ancora una volta prova di come si possa dire qualcosa di nuovo su temi abusati, nonché come in fondo non vi siano argomenti, per quanto stupidi o infantili, che un narratore di razza non sappia rendere intriganti ed originali. I cultisti non stanno infatti progettando la conquista del mondo, come sarebbe stato lecito aspettarsi, ma il loro obiettivo va molto oltre: è il Paradiso. Infatti, come ricorda Constantine, la Terra è in mano loro già da millenni! 


Qualche parola va spesa anche per la Crisis e per come la tratta Moore. Con questa maxiserie (titolo completo: Crisis on infinite Earths, Marv Wolfman ai testi e George Perez alle matite) la DC Comics fece piazza pulita di molto materiale ritenuto obsoleto e soprattutto ormai tanto ingestibile da arrivare al paradosso. Già negli anni ’60 fu teorizzato il multiverso, cioè una cosmologia di infinite Terre alternative in cui vivono versioni più o meno differenti degli eroi di casa DC. Il meccanismo poteva tornare utile per giustificare il fatto che, per esempio, dell’adolescenza di Superman come Superboy non rimanesse traccia da un certo punto in poi. Ma nei disincantati anni ’80 era ingenuo ritenere che il pubblico accettasse le incongruenze che spesso si venivano a creare, oltre al fatto che alcune seconde o terze versioni di molti supereroi erano dei veri pesi morti. Anche per cercare di stare al passo coi tempi, che ormai vedevano le etichette indipendenti (che puntavano su testi adulti) piuttosto consolidate e la concorrente Marvel dominare sul mercato, la DC Comics organizzò quindi una bella carneficina che, pur con tutto il lirismo che Wolfman vi profuse, altro non era se non un artificio per dare una base coerente all’universo DC (base che fu comunque spesso contraddetta negli anni a venire, e che negli ultimi anni è stata a sua volta cancellata e rimodellata varie volte!). Moore non lascia che la sua creatività venga annichilita da questo mezzuccio, e anzi riesce a trovarvi lo spunto per crearci sopra un’ottima storia.
Il parlamento degli alberi racconta il primo passo nella lotta contro il nemico cosmico: la ricerca di una conoscenza ancestrale che permetta di sconfiggerlo. In Brasile, alle fonti del fiume Tefè, Swamp Thing incontra un gruppo di vecchie “cose della palude” generate in tempi antichi e ora in continuo riposo nel fitto della giungla. Il senso del loro consiglio («Dov’è il male in tutto il legno?») sfugge per il momento al mostro verde ma, ovviamente, sarà di vitale importanza al momento opportuno. Questo episodio è importantissimo dal punto di vista narrativo non solo per gli sviluppi che darà nell’immediato futuro, ma anche perché costituisce un’ottima prova della capacità d’incastro di Moore, che avrebbe toccato l’apice nel perfetto meccanismo del contemporaneo Watchmen. Il parlamento degli alberi concretizza infatti le visioni che Abigail aveva avuto in sogno nel precedente Case abbandonate ma anticipa anche il futuro ciclo narrativo che comincerà dalla conclusione di American Gothic.
Conclusione che avverrà su Swamp Thing 8, L’invocazione. L’ulteriore incremento del prezzo, ora portato a 9 000 lire, è giustificato dal momentaneo aumento delle pagine, che toccano quota 112. Nei primi due episodi del volume (Una strage di corvi e L’invocazione) si narra di come Swamp Thing e John Constantine non siano riusciti con la loro azione da commando a impedire che il messaggero inviato dalla Brujeria (la setta coinvolta negli eventi) giunga al suo destinatario, attivando così quell’immenso potere soprannaturale con cui si impossesseranno del Paradiso. La tensione tocca vette incredibili in queste quarantaquattro pagine che si fanno leggere tutte d’un fiato nonostante la ricercata e libresca prosa di Moore e la sua raffinata architettura della sceneggiatura che brulica di personaggi, premonizioni e flashback. Al precipitare della situazione, Swamp Thing e Constantine si dividono i compiti ed agiscono su due piani differenti della realtà. Da una parte la cosa della palude agirà sui luoghi stessi dell’avanzata della mostruosa marea d’oscurità assieme ai personaggi “spirituali” di casa DC, mentre sul piano della realtà sono convenuti i “maghi” della casa editrice per controllare gli avvenimenti e cercare di portare la loro influenza. Ancora una volta Moore si dimostra padrone delle tecniche più efficaci per creare il pathos necessario a una storia, e ancora una volta rilancia in grande stile dei vecchi personaggi che senza il suo personalissimo tocco sarebbero poco più che macchiette.


Con l’episodio dal profetico titolo La fine il ciclo narrativo iniziato con Swamp Thing 5 giunge alla sua roboante conclusione, tracciando le linee future per il trattamento dei soggetti della DC Comics. Con questo episodio speciale (che dura 38 tavole) Moore vuole infatti scrivere una parabola sui concetti di bene e male, giungendo a dire palesemente che il vecchio sistema manicheo di concepire una storia con “buoni” e “cattivi” è ormai superato, e che se il bene e il male sono uniti nella vita reale allora non ha senso farsi remore morali nel raccontare la complessità della natura umana in un fumetto. Se non fosse per la sua grande statura di narratore, Moore sarebbe quasi didascalico nel rappresentare le forme del Bene Assoluto e del Male Assoluto che si danno la mano fino a formare un circolo yin-yang.
Se questo finale di “armonia cosmica” e i vari altri riferimenti sparsi per la saga (come il concetto di predestinazione e dell’inesistenza delle coincidenze) possono attirare su Alan Moore le critiche di aver “praticato” le filosofie new age per salvare in extremis qualche soggetto non perfetto, va ricordato che ai tempi della realizzazione del suo Swamp Thing la new age non era ancora un fenomeno di moda, e la cultura che Moore ha dimostrato in varie occasioni testimonia una sua conoscenza (se non proprio adesione) di prima mano dell’argomento, quando questo era peraltro meno diffuso di oggi.
Swamp Thing 8 termina con La libertà di casa, episodio in cui la cosa della palude, appena reduce dal salvataggio del mondo, si trova subito costretto a tornare in azione. La sua povera compagna Abigail Cable è stata infatti gettata nel fango (e conseguentemente, in galera) da un giornale scandalistico che documenta i suoi interludi amorosi con il mostro verde. E, coerentemente con la nuova direzione ideologica impostata dall’episodio precedente, Swamp Thing diventa una furia e giura vendetta non appena viene a conoscenza dei fatti.
Con L’invocazione la serie ha raggiunto senz’altro il suo apice ed è entrata di diritto nel novero delle saghe fondamentali del fumetto americano e mondiale; lo stesso Moore non si sarebbe più ripetuto allo stesso livello su queste pagine. Ma le vicende di Swamp Thing non sono ancora concluse e offrono ulteriori motivi d’interesse.


Swamp Thing 9 narra nei primi due episodi (Conseguenze naturali e Il giardino delle delizie, il primo è anche il titolo del volume) la furia titanica dell’elementale e la sua vittoria sulla corriva giustizia umana ma descrive anche la sua eliminazione da parte dello spietato Lex Luthor, il celebre antagonista storico di Superman. Swamp Thing è morto e un debole barlume di speranza per il suo ritorno si ha solo nell’ultima tavola del volume. Gli altri due episodi di Conseguenze naturali spostano l’attenzione su elementi marginali della saga: ne I fiori dell’amore tornano due personaggi della gestione pre-Moore, Liz e Dennis. Recuperata la povera Liz dal giogo di Dennis, Abigail trova di nuovo la forza di vivere e quindi di partecipare, in Terra alla terra, alla commemorazione in onore di Swamp Thing.
I disegni di John Totleben hanno raggiunto un importantissimo punto d’arrivo e quelli che sopra elencavamo come difetti sono ormai semplicemente le caratteristiche distintive del suo stile, ma Alan Moore sembra avviarsi verso una scrittura verbosa e autocompiaciuta. Il recupero di personaggi creati in precedenza, come il Chester Williams di Giù da un ramo, sembra quasi un tentativo di vivere di rendita su elementi che, per quanto interessanti, hanno comunque esaurito il loro ruolo. In effetti non è molto convincente vedere eletti quasi a protagonisti dei personaggi che erano stati ideati come vittime o testimoni di parabole chiuse in sé, e che difatti non riescono ad avere una grande personalità fuori dagli apologhi che li avevano presentati.
In ogni caso, un altro ciclo è concluso e uno nuovo sta per cominciare. Anche la testata Swamp Thing subirà una nuova modifica: con il numero 10 spariscono i risvolti con le copertine originali (che ora vengono pubblicate all’interno), il prezzo subisce un’impennata a 14.000 lire e, soprattutto, viene introdotto il colore.
Impossibilitato a formare un nuovo corpo sulla terra, lo spirito di Swamp Thing comincia a vagabondare per gli spazi siderali venendo a contatto con mondi alieni e altri vecchi personaggi della DC Comics. Misteri nello spazio è composto da episodi radicalmente diversi, che spaziano dal complotto politico al delirio più totale. 



La parte centrale del volume è infatti occupata da una storia in due parti (Misteri nello spazio ed Esuli) con cui Moore fa un affettuoso, ma al contempo molto sarcastico, omaggio allo storico  personaggio Adam Strange. Quanto questa parentesi è razionale e ben costruita (addirittura ci viene fornito un breve dizionario per comprendere le frasi degli abitanti di Rann!), tanto gli episodi che le fanno da cornice sono visionari e forse un po’ improvvisati. Il mio paradiso blu narra della nuova natura di Swamp Thing, che si può incarnare in forme vegetali aliene. Ma inizialmente l’ottica con cui si avvicina al fenomeno gli fa sfiorare la follia. Praticamente onnipotente (questo aspetto di crescita fino ad uno status quasi divino era già stato anticipato negli episodi precedenti), Swamp Thing si incaponisce a voler ricostruire il mondo che ha abbandonato sul nuovo pianeta blu che lo ospita. Resosi conto del meccanismo schizofrenico in cui si è invischiato da solo, parte di nuovo verso l’ignoto fino ad arrivare sui luoghi in cui si svolgono le due storie con Adam Strange e incontrando durante il tragitto una curiosa forma di vita aliena. È infatti questo il soggetto della quarta storia del volume, Amore per l’alieno, in cui una materna astronave vivente incontra Swamp Thing nel suo peregrinare e ne viene fecondata. L’ottica con cui l’episodio viene scritto è straniante (viene infatti semplicemente riprodotto il lungo monologo dell’astronave-madre) ma la cosa che colpisce di più di Amore per l’alieno è la parte grafica, che è il risultato di illustrazioni, fotografie e collage assolutamente slegati a cui Alan Moore ha dato un senso e un ordine posteriormente. Lo stesso Leonardo Rizzi, che di Swamp Thing ha curato traduzione e commento, ammette che ormai la vena migliore di Moore si è esaurita e che ora è arrivato il momento dei riempitivi in attesa di nuove trovate.
Due riempitivi che nulla aggiungono al flusso centrale della saga sono difatti i primi episodi contenuti in Conti in sospeso, undicesimo ed ultimo volume di Swamp Thing. In Ogni mortale è come l’erba Swamp Thing si ritrova in un mondo interamente dominato da vegetali antropomorfi, per i quali finisce per costituire un pericolo. È senz’altro curioso e interessante vedere il protagonista pacifista della serie diventare una calamità per un intero popolo, ma molto più divertente è la scena conclusiva dell’episodio, in cui Adam Strange viene cacciato di casa da Abigail che non gli crede e viene preso per pazzo quando dice di doverle portare un messaggio di Swamp Thing!


In Lunghezza d’onda è Rick Veitch (già attivo come disegnatore) a prendere in mano le redini del testo, come pochi numeri prima fu Stephen Bissette a sostituire uno stanco e forse svogliato Alan Moore (l’episodio scritto da Bissette è stato escluso dalla pubblicazione integrale della Magic Press). Rick Veitch sarà scelto come continuatore della saga di Swamp Thing quando Moore abbandonerà la DC Comics, ma se ne andrà via anch’egli dalla casa editrice sbattendo la porta quando un episodio gli verrà censurato. Il suo fill-in è piuttosto interessante e decisamente suggestivo, merito anche di una colorazione psichedelica, e punta i riflettori su alcuni personaggi creati da Jack Kirby per la sua saga Forever people. Ma ciò che interessa di più di Swamp Thing 11 sono ovviamente gli ultimi episodi, quelli in cui tutti i nodi vengono al pettine e il tormentato protagonista torna finalmente a casa.
Conti in sospeso (reprise) e Il ritorno della buona zuppa di gombo sono due storie principalmente descrittive, in cui succede pochissimo e questo poco è perfettamente prevedibile e già anticipato dal titolo. Lo Swamp Thing che ha scoperto la natura del bene e del male e ha imparato la loro profonda inscindibilità non si pone più alcun problema nell’eliminare fisicamente gli uomini che hanno distrutto la sua forma materiale sulla Terra. E adesso che è ritornato al suo mondo, Swamp Thing può finalmente godersi i meritati momenti di pace insieme ad Abigail. Moore ha terminato di scrivere Swamp Thing ma il suo influsso determinante si farà sentire nel mondo dei comic book ancora per molto, molto tempo. Conscio senza dubbio dell’importanza del suo lavoro e della necessità di dargli una conclusione autonoma, Moore scende in campo in prima persona nelle pagine del fumetto e lascia che sia il suo alter ego cajun LaBostrie a siglare definitivamente la saga, che non sarà certo più la stessa dopo il suo abbandono. Con una tale partecipazione e passione per il proprio lavoro, gli si perdonano facilmente la verbosità che caratterizza questi ultimi due episodi e i vari “abbagli” che ha preso nell’ultimo periodo della sua gestione.


La Magic Press ha compiuto un’operazione meritoria ristampando uno dei capisaldi del fumetto USA, che peraltro in Italia avevamo visto spezzettato ed incompleto. E a impreziosire ulteriormente questa edizione ci sono dei gustosi editoriali che inquadrano meglio il cosmo DC o trattano i “dietro le quinte” della serie. Non è difficile prevedere per Swamp Thing un futuro da testata-culto di cui si parlerà ancora a lungo.