giovedì 2 dicembre 2010

Juan Gimenez (precedentemente apparso su Fucine Mute 1)

Si racconta che alla kermesse lucchese del 1998, dov’era presente con una mostra e di persona, si sia dedicato con tanta cura alla realizzazione di disegni per i fan da sollevare proteste per la sua lentezza. Indispettito, lui ha pensato bene di iniziare a colorare le “dedicas”, rallentando ulteriormente il ritmo di produzione ma offrendo a pochi privilegiati dei veri gioielli. Forse questa storia non è vera, ma è senz’altro verosimile, vista la qualità dei lavori che realizza (con eccessiva calma per i suoi ammiratori) il grande maestro Juan Gimenez.
Nato a Mendoza, in Argentina, nel 1943, inizia a lavorare professionalmente come fumettista a sedici anni con una breve storia di soldati nel deserto ispirata ai lavori di Hugo Pratt. Abbandona però presto questa sua vocazione per conseguire il diploma di perito industriale e dedicarsi a questo lavoro, sicuramente più stabile di quello del disegnatore di fumetti. Come moltissimi suoi connazionali sul finire degli anni ’70 si trasferisce in Europa e dall’incontro con Ricardo Barreiro (“transfuga” a Parigi) rinasce la sua passione per il fumetto che si concretizza con la realizzazione di moltissimi racconti di genere solitamente bellico o fantascientifico. La lunga serie Asso di Picche rappresenta il suo trionfale ritorno nel mondo dei fumetti, Stella Nera è il primo tentativo a colori su una storia ad ampio respiro e La Città segna la sua definitiva affermazione.


Il suo lavoro desta l’interesse del gruppo editoriale americano National Lampoon, che all’epoca editava Heavy Metal e si stava organizzando per trarre un film d’animazione dalle storie migliori; Gimenez darà la sua impronta inconfondibile all’episodio del tassista Harry Canyon. Il panorama fumettistico europeo dei primi anni ’80 è in fermento e su riviste come la spagnola 1984, la francese Metal Hurlant e soprattutto l’italiana L’Eternauta Juan Gimenez ha modo di lanciarsi in ardite sperimentazioni sia grafiche che testuali: la serie Paradosso Temporale è composta di brevi episodi in cui viene vista in una nuova ottica (più quotidiana ma anche più divertita ed ironica) la narrativa fantascientifica e in cui la tavolozza, alleggerita dalla policromia e basata sui colori primari, sforna volumi e sfumature estremamente realistici e suggestivi. Ormai Gimenez è un affermato maestro e, malgrado l’intensificarsi dei suoi impegni come copertinista e realizzatore di layout per la pubblicità, collabora con importanti autori quali Carlos Trillo, Emilio Balcarce, Roberto Dal Pra’ e Alejandro Jodorowsky con cui realizza la saga dei Meta-Baroni.


La produzione matura di Juan Gimenez può venir divisa in tre periodi o stili con i relativi passaggi intermedi; saltando a piè pari i pochi lavori adolescenziali che risentono dell’influenza massiccia di Hugo Pratt e Francisco Solano Lopez[1] e di cui comunque non c’è traccia in Italia, ci troviamo inizialmente di fronte a un disegnatore estremamente rigido e tecnico. Lo stile del primo Gimenez non è comunque sgradevole, tutt’altro: l’attenzione è però posta maggiormente agli elementi meccanici e le figure umane in alcuni casi stentano ad imporsi. I paesaggi, se ci sono, vengono resi in modo molto stilizzato e il tratto è sottile e piuttosto uniforme, uomini e macchine talvolta si confondono. Queste storie sono esclusivamente in bianco e nero con una netta prevalenze del bianco ma l’uso dei retini (sicuramente altra influenza del passato da disegnatore industriale) riesce a vivacizzare un po’ un disegno altrimenti troppo pulito e a incanalare l’attenzione del lettore su alcuni elementi piuttosto che su altri. L’organizzazione della tavola è libera ma non ancora così “sciolta” come sarà in futuro e le vignette, pur se di dimensioni diverse, possono venir tranquillamente considerate indipendentemente dalle altre. Di questa prima e breve fase (durerà un paio d’anni dopo il 1976, data ufficiale del ritorno di Gimenez al fumetto) restano tracce su alcuni vecchi Lanciostory e Intrepido di fine anni ’70 e soprattutto su Skorpio, settimanale gemello di Lanciostory che dedicherà uno spazio fisso alle serie fantasy e di science-fiction, ospitando quindi anche i lavori di Gimenez.
L’opera che, pur essendo pienamente inseribile in questo primo periodo, lo supera è la serie Asso di Picche. I testi sono di Ricardo Barreiro, enfant prodige et terrible del fumetto argentino, che parla di guerra in maniera veramente originale e priva di retorica e probabilmente è la principale molla che spinge Gimenez a evolvere il suo tratto per uniformarsi alle esigenze del racconto. L’”Ace of Spades” è un bombardiere B-17 in azione durante la seconda guerra mondiale, che ospita al suo interno un eterogeneo equipaggio di personaggi molto ben caratterizzati[2]. Le storie sono estremamente originali e alcune trovate sono del tutto nuove nel mondo del fumetto: in un episodio si scontrano un pilota americano ed uno tedesco e i rispettivi flashback mostrano come le loro drammatiche storie siano praticamente la stessa identica storia. Juan Gimenez avverte sicuramente il distacco che queste storie prendono dalla produzione precedente e il suo tratto diventa via via più espressivo e modulato: va notato il diverso trattamento di mezzi meccanici (con tanto di schede tecniche) e uomini.


I tempi sono maturi per abbandonare il rassicurante tecnicismo esasperato e lasciarsi andare a uno stile più immediato, emotivo: è il momento di La Città, ancora su testi di Barreiro. Nel racconto di 30 tavole Avamposto lo sceneggiatore argentino aveva già dato prova della sua visione pessimista della fantascienza e in quel caso il tratto di Gimenez s’incupì notevolmente abbondando di neri e di tratteggi marcati sui visi di soldati bruciati dalle droghe o su corpi e velivoli disastrati dalla battaglia. Avamposto risale al 1979 e La Città viene realizzata l’anno successivo. In questa serie viene abbandonata quasi del tutto la perfezione geometrica e nelle vedute aeree della tentacolare metropoli che si espande nello spazio e nel tempo gli edifici sono disegnati a mano libera, con un tratto spesso ma efficace. Ormai Gimenez ha trovato un suo stile e con La Città si impone a livello internazionale: dal periodo tecnico possiamo dire sia passato ad un periodo espressionista, segnato da una maggiore attenzione per luci e ombre e una grande (poi esasperata) mimica dei personaggi. Inoltre Gimenez si abbandona anche ad alcuni virtuosismi con il lettering delle onomatopee che diventa in molti casi parte integrante della tavola. Anche dal punto di vista dell’organizzazione della tavola avviene un salto di qualità e ora c’è una maggiore espressività (vignette fittissime di segni alternate ad altre pulitissime) e un’armonia interna che anticipa i risultati che saranno raggiunti col colore.
Come Asso di Picche prendeva spunto da una vecchia serie di guerra, Amapola Negra, così La Città si ispirava ed era idealmente dedicata ad un altro classico, El Eternauta. Entrambe queste opere sono frutto della fantasia di Hector G. Oesterheld e in effetti La Città doveva essere inizialmente una sorta di personale Divina Commedia in cui lo sceneggiatore desaparecido vestiva i panni di Virgilio e faceva da guida allo stesso Ricardo Barreiro, novello Dante (nella versione definitiva non c’è quasi più traccia di questo progetto se non nell’ultimo episodio).


Il terzo periodo della produzione di Gimenez non inizia cronologicamente dopo La Città ma prende le mosse da una storia realizzata pensando alle riviste europee che andavano aumentando il numero di pagine a colori. Il passaggio al “terzo stile” avviene infatti con l’introduzione dei colori dati personalmente, e da questo momento Gimenez otterrà sempre maggiore fama e un crescente interesse che lo porterà ad essere assunto da diverse compagnie come costumista, designer, visualizer per prodotti cinematografici[3].
Alla fine degli anni ’70, spinto dunque dalla possibilità di cimentarsi con una nuova tecnica, Gimenez realizza una breve storia all’acquerello, Giocando, su testi suoi ma il risultato non lo convince molto e nel successivo lavoro in coppia con Barreiro, Stella Nera (1979), impiega una tecnica di colorazione più tradizionale, stendendo il colore solo dopo aver tracciato a china i contorni e definito i dettagli come di consueto. Il risultato non è obiettivamente eccezionale[4] e sono chiaramente visibili i ripensamenti di Gimenez: già dalla copertina del volume si nota l’insicurezza nel lasciare in luce alcune zone e il volto dell’androide Vran è stato  visibilmente modificato con ulteriori passaggi di colore. Le tavole di questa storia destano una certa curiosità ma non ancora ammirazione e solo dopo qualche anno Gimenez stupirà i suoi lettori con gli splendidi colori della serie Paradosso Temporale. È con questa breve serie di episodi autoconclusivi che si realizza finalmente la ricerca sul colore; la colorazione si basa solo sui colori primari i quali diluiti, mescolati tra loro o con altre tinte permettono di ottenere tutte le tonalità desiderate. L’uso di pochi colori che non vengono “sporcati” con altri (l’acquerello presenta questo rischio) ha il vantaggio di rendere le tavole molto brillanti e armoniose[5]. La grande abilità compositiva di Gimenez permette inoltre agli elementi delle sue vignette di stabilire un contatto o trovare continuazione nelle altre vignette, offrendo all’occhio un raffinato spettacolo di intrecci quasi invisibile ad un primo sguardo ma immediatamente piacevole.
Juan Gimenez inizia dal 1986 a cimentarsi anche nella stesura dei testi per le sue storie lunghe, portando avanti i suoi progetti personali parallelamente alle serie scritte da altri sceneggiatori. Agli ormai classici Leo Roa, Il Quarto Potere e Elijé tu Juego si è aggiunto recentemente il primo volume della serie Moi, Dragon, su cui eventualmente ritornerò in futuro.



[1] Una tempera realizzata nel 1958 e pubblicata nel volume Overload sembra proprio un ritratto di Joe Zonda, personaggio di Oesterheld e Solano Lopez
[2] non è escluso che gli autori del film Memphis Belle (Michael Caton-Jones, 1990) si siano ispirati a questa vicenda, ma l’originale a fumetti è di gran lunga superiore
[3] Gimenez non abbandona però il bianco e nero: diverse storie brevi comparse su L’Eternauta e Terrifik sono ancora realizzate solo al tratto
[4] Estrella Negra, albo “alla francese” di 48 pagine, non è neppure uno dei lavori migliori di Barreiro: come gli capita spesso nelle opere minori, parte da un’idea originale per poi costruirci sopra una storia inconcludente
[5] secondo una credenza diffusa l’uso dei soli colori primari faciliterebbe inoltre la resa tipografica

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