Walter Chendi
è nato nel 1950 a Trieste, dove risiede attualmente, e dopo passaggi su Fumo
di China e soprattutto su Comic Art (per cui ha prodotto principalmente
la serie Nuvola Rossa, interessante esercizio di stile in cui il tema
del titolo veniva interpretato in maniera diversa di episodio in episodio) ha
adattato la sua produzione alle mutate condizioni del mercato italiano realizzando
dei volumi a fumetti nel formato “graphic novel”: con Rizzoli Lizard pubblica Vedrò
Singapore? (2004, tratto dal romanzo omonimo di Piero Chiara), Mont Uant
(raccolta di tre storie, 2005) e EstNordEst (2007). Nel 2010 pubblica La
Porta di Sion con Edizioni BD, opera con cui vincerà il prestigioso premio
Gran Guinigi per la Migliore Storia Lunga.
Oltre a
questi lavori di più ampia diffusione ha realizzato anche materiale dedicato
alla realtà locale e dopo le prime vignette e strisce realizzate in gioventù ha
fatto uscire con due editori diversi la sua versione a fumetti delle Maldobrìe
di Carpinteri & Faraguna.
Il suo
ultimo lavoro in uscita il 25 febbraio con Tunué è la storia lunga Maledetta
Balena: oltre alla recensione che leggerete su Fucine Mute l’occasione
è buona per fare due chiacchiere con l’autore.
Da
quanto si può vedere sul tuo sito, mi pare di
capire che Maledetta Balena ha avuto una gestazione piuttosto lunga (se
ne trovano tracce anche in un post di tre anni e mezzo fa): in totale quanto
tempo ci hai dedicato tra la stesura del soggetto alla realizzazione vera e
propria?
È vero, mi sono concesso un tempo
piuttosto lungo nella realizzazione. La prima idea nacque nel marzo del 2011
mentre stavo per pubblicare una raccolta di racconti dal titolo "Sessanta
Quaranta" assieme a Roberto Franco.
Sono quindi passati cinque anni, ma la balena finì di nuotare a casa mia nel
giugno del 2013. Diciamo quindi che ci ho messo più di due anni a concluderla.
Molto tempo, poi, fu dedicato a
spedizioni, attese, altre spedizioni, altre attese. Se dovessi giustificarmi
direi che per i nove mesi seguenti lavorai al primo tomo, 54 pagine, di
"Rasca", una storia con protagonista il Simplon Orient Express. Poi
mi montai la testa e scrissi un romanzo. Avrebbe dovuto essere l'ennesimo fumetto
autoconclusivo, ma, scrivendo la sceneggiatura, ci presi gusto ed il risultato
diventò "La tigre del circo svedese", 160 pagine.
Quando, nel giugno del 2015, Massimiliano
Clemente mi scrisse che la balena sarebbe potuta uscire in mare aperto nella
primavera del 2016, fui contento; ho sempre reputato la Tunuè una casa editrice
seria e meritevole dei molti premi ricevuti negli anni.
Sessanta Quaranta lo conosco, oltre ai
racconti ci sono anche delle illustrazioni tue. La tigre del circo svedese invece confesso che mi giunge nuovo… chi
e quando lo ha pubblicato?
Beh, ho confessato d’aver scritto “La
tigre”, non d’averla pubblicata. Come mi è già capitato di dire, io disegno e
scrivo perché non posso farne a meno e finchè avrò cassetti capienti, occhiali
puliti e una moglie comprensiva continuerò a farlo. “Rasca” si trova nel
cassetto vicino, assieme alla sceneggiatura della sua seconda parte e alcuni
dialoghi della terza.
La
documentazione riveste un ruolo fondamentale in Maledetta Balena, come
testimoniato anche dalle planimetrie e dagli schizzi in appendice al volume. Ti
ha portato via molto tempo?
Non direi che la documentazione porti via del
tempo. È una parte fondamentale per la costruzione del racconto. Trovare un
particolare specifico può portarti da una parte anziché da un'altra. Ti posso
confidare che l'idea di un'azione e di una battuta, tra le pagine 19 e 20, mi è
stata suggerita da una fotografia nella quale mi sono imbattuto mentre cercavo
come si vestiva una contadina del 1940. Ma, per tornare al punto, posso rispondere
che la ricerca, fondendosi con la sceneggiatura è durata, per le 142 pagine
finali, dai due ai tre mesi. La parte più lunga è stata, forse, la
"costruzione" della nave. La storia si basa sulla vera Stockholm, ma
non ci sono foto degli interni, a parte un paio di una cabina, o progetti
disponibili, perciò ho dovuto farmi dottor Frankestein e creare la mia Kosbörg
con i pezzi di molte navi passeggeri dell'epoca.
Ho
notato una netta evoluzione stilistica rispetto alle tue storie più vecchie,
come la serie di Nuvola Rossa: mi sembra che qui la linea chiara sia
stata integrata da dettagli, anche il colore è più materico e gli elementi
caricaturali si sono fatti più rari. Dando per scontato che un’evoluzione
stilistica è quasi sempre inevitabile (ed era già in corso nei tuoi ultimi
lavori), è una svolta che hai voluto e ricercato o come a volte succede il tuo
stile ha preso quella direzione naturalmente?
Beh, se non ci fosse stato alcun
cambiamento in più di vent'anni mi meraviglierei molto. Il disegno può
migliorare (spero che evoluzione sia sinonimo di miglioramento) per molti
fattori. In questo caso lavorare in A3 anziché in A4, usare punte più fini e
intestardirsi sul risultato, ha la sua importanza.
Sul serio lavoravi in A4? Praticamente è la dimensione
reale di una pagina di rivista! Con l’A3 mi immagino le difficoltà a trovare
uno scanner adeguato, ammesso che scansioni le tavole (Philippe Druillet che disegnava su fogli enormi se le faceva
fotografare). Hai parlato di “punte”: che strumenti usi, il Rapidograph?
Lavoravo in A4 ed il nero risultava un
po’ ingombrante. Ora disegno ancora in A4,
porto la misura in A3 per l’inchiostrazione, mi crogiolo nei particolari
e nelle espressioni con pennarelli dallo 0,05 allo 0,3 e riporto a una teorica
misura di pubblicazione per colorare. Alla fine, una vita dopo, infilo tutto
nel cassetto di cui sopra.
Il
computer… lo usi per una questione di comodità o per ragioni stilistiche,
magari perché certi effetti si possono ottenere solo col computer?
Ah, il computer! Ho cominciato ad usarlo
convinto di velocizzare il lavoro.
Non cerco gli effetti speciali, non m'interessano. La possibilità
d'ingrandire l'immagine mi ha portato però, alcune volte, ad un livello
maniacale. Esempio: in un'inquadratura del volume "Mont Uant"
spuntava, da sotto un telo, una banconota indocinese del 1955. C'erano dei
contadini che raccoglievano e portavano dei sacchi, c'era la risaia, il fiume,
il valore, il testo, i colori esatti. Quando finii, un paio d'ore dopo, ero
proprio soddisfatto di quei 4 millimetri per 6! Tornerei volentieri alle
tempere, agli acrilici e alle matite colorate.
Hai mai usato gli
acquerelli? Mi era sembrato che usassi quelli (o comunque un medium liquido
tipo chine o ecoline) in alcuni lavori.
No, gli acquarelli no. Avevo cominciato con le
ecoline, poi ho aggiunto delle tempere ed un po’ di candeggina. Per i miei
quadri utilizzavo gli acrilici e mi venne la pazza idea di fare tutto un
fumetto con quel medium. Avevo visto Segrelles ed i suoi olii e volli tentare.
Feci la prima stesura di EstNordEst tutta in acrilico su carta. Un lavoro
pazzesco che ora riposa nascosto in una borsa dietro la scrivania. Qualche anno
dopo rifeci tutto in un formato più adatto, colorando con il computer come
avevo già fatto per Vedrò Singapore? e Mont Uant.
La citazione di Vicente
Segrelles ti fa onore: notoriamente i fumettisti non leggono fumetti. Cosa
leggi di solito? Quali sono i tuoi autori preferiti, se ce ne sono?
|
Cauuet: confesso che non lo conoscevo |
Ammetto
anch'io di non essere un gran lettore di fumetti; credo di avere meno di 200
album
nella mia libreria. Come quasi tutti, fui segnato dai fumetti che leggevo
da ragazzino: L'uomo mascherato, gli Albi del Falco con i Nembo Kid e poi Blake
e Mortimer. Fui affascinato dal bianco e nero di Attilio Micheluzzi, dal primo
Giuseppe Bergman di Milo Manara, dalla Rapsodia Ungherese e dal Sam Pezzo
bolognese di Giardino. Più vicini nel tempo ho amato i
personaggi di Baru, la lucida magia di
Gradimir Smudja con il suo Vincent, i due volumi del Rinvio e la serie Matteo
di Gibrat, quel gran raccontatore di Gipi, Arthur De Pins, simpatico favoliere,
e tra i disegnatori Serpieri, Sicomoro, Alemanno, Alberti, Meyer, Quintanilha,
Christophe Bec, Cauuet e moltissimi altri che non ho letto, ma che ho visto sui
siti dedicati. Invidio la capacità di sintesi grafica e colorista di alcuni
americani e inglesi. Autori preferiti... la lista sarà sempre monca, continuerò
a scoprirne altri.
In Maledetta Balena
utilizzi delle onomatopee molto originali e colorate, in alcune sequenze non
credo sia esagerato definirle psichedeliche. Una scelta di questo tipo si era
già vista nelle Maldobrìe, ma quello era un contesto umoristico: qui hai
fatto ricorso a questo espediente per stemperare certe scene un po’ crude?
In quel
periodo avevo letto un paio d’articoli sul lettering. Marco Pellitteri aveva
scritto, tra le altre cose, questo: “… oltre
alla ricca varietà di rumori e suoni consolidati, normalmente usati dalla
maggior parte degli sceneggiatori e dei letteristi, è possibile anche inventare
nuove «parole» per comunicare vecchi e nuovi suoni…”
Ebbi voglia
d’impegnarmi di più su quei segni. Volevo vedere i suoni e ho usato il colore
anche per qualche testo nei balloon. Vorrei sottolineare, con assoluta
neutralità, che la sceneggiatura non era per niente semplice e credo d’aver
disegnato tutto quel che ho potuto per rendere fluido il racconto.
Tu hai vissuto dall’interno la gloriosa stagione
delle riviste d’Autore: cosa ricordi di quel periodo?
Oh,
dall'interno! Uno che vive e lavora a Trieste non è mai
"all'interno". Ho venduto alla Comic Art alcuni raccontini che
servivano alla rivista di Traini come tappabuchi. Non ho mai visto la
redazione, ho parlato una sola volta con Oscar Cosulich, il direttore
responsabile, e cinque o sei volte con Rinaldo Traini, il capo. Ricordo il
grande impegno; per alcune "Nuvola rossa", così s'intitolava quella
serie, impiegai anche quasi due mesi. Quelle tre, quattro pagine furono le
radici del metodo che misi in pratica in ogni altro lavoro: lento. Ricordo le
insistenti telefonate a Rodolfo Torti che aveva il compito di programmare la
costruzione dei numeri. Penso di avergli rotto le scatole alcune volte, ma fu
sempre gentile, tenendo conto che aveva gente del calibro di Crepax, Cavazzano,
Tardi, Boucq, Eisner, Otomo, Toppi, Rotundo, Baldazzini, Micheluzzi, Magnus e
se stesso, da impaginare.
Il periodo
delle riviste, a detta di tutti, fu un bel tempo. C'era spazio per chi stava
cominciando, per il lettore era un gran supermercato. Con poco ti potevi fare
un giro nella 9a arte migliore. Ci arrivai alla fine, o quasi. Poco dopo, ad
una ad una, chiusero.
Classica domanda di fine intervista: a quali
progetti stai lavorando attualmente? Immagino che uno sia il Rasca che
hai citato all’inizio.
La storia di Rasca
mi è piaciuta da subito. L'idea germinale è di vent'anni fa. Ci sono cose che
tieni per te per tutta la vita avendo paura di rovinarle. Forse
"Rasca" è una di quelle.
Il progetto al
quale lavoro di più si chiama Gaia ed è mia nipote, ma continuo a scrivere...
cassetti capienti, occhiali puliti, moglie comprensiva, ricordi?