Prima di procedere a parlare del
fumetto, un paio di prediche nel deserto. Sono lunghe e noiose, pertanto le
metto dopo una riga vuota per evidenziarle e agevolarne il salto.
PREDICA 1. Gli acquerelli vengono
prodotti mescolando i pigmenti con dei leganti opacizzanti. Quindi,
indipendentemente dalla tipologia di colore ad acquerello che viene usato e
dalla sua marca (anche se ci sono delle differenze, ovviamente) quello che
tecnicamente viene chiamato “medium”, cioè il mezzo tramite cui si può usare
questa tecnica, è l’acqua. Come per gli acrilici e le tempere. Solo che a
differenza di altri tipi di tecniche di pittura, che mantengono una matericità
più o meno marcata, la caratteristica principale degli acquerelli è di essere
trasparenti e di venire veicolati dal medium stesso che ne consente l’utilizzo,
senza il quale rimarrebbero inerti. I colori a olio hanno bisogno dell’olio per
reagire tra di loro, la gouache potrebbe anche essere spalmata sulla tela così
com’è, quello che invece nell’acquerello è sia medium che colore stesso è
l’acqua. La china colorata si può anche usare così com’è, come i lumacolor e le
ecoline, ma gli acquerelli necessitano di acqua per sciogliere il pigmento
solidificato nei panetti e trasformarlo in quella che sostanzialmente è acqua
colorata.
A meno che non si usino tubetti
di acquerelli liquidi, ma il discorso non cambia e ci porta sempre lì: la
tecnica dell’acquerello necessita di una carta particolare per essere impiegata
a dovere, a meno che non si vogliano ottenere effetti diversi da quelli
canonici. Se applicata su una carta molto leggera, come ad esempio quella
comune usata per le stampanti, l’acqua trasuderà da parte a parte rovinando
tutto e al massimo (a meno che non si sia passato il pennello quasi secco)
rimarrà una vaga traccia screpolata del colore, e una carta ondulata una volta
asciugata. Se non sbaglio, Milazzo buttò via la versione a colori di un
episodio di
Ken Parker proprio perché
aveva dato i colori su carta da fotocopie che, deformata dall’azione
dell’acqua, non combaciava più con i disegni delle tavole originali. Un po’
diverso il discorso per una carta di tipo lucido: in quel caso, a seconda della
grammatura, la pennellata rimarrà sospesa ancora liquida come le gocce sul
lavello dopo che avete lavato i piatti, e si asciugherà molto lentamente
cagionando gli stessi problemi, illustrati sopra, di quella leggera.
La carta per dipingere con gli
acquerelli deve essere insomma spessa e porosa, perché l’acqua deve essere
assorbita. In commercio le marche più importanti offrono delle cartelle
specifiche prodotte in serie, ma a volte anche queste possono rivelarsi troppo
sottili o leggere. La carta per acquerello per eccellenza è quella che le
cartolerie e i negozi specializzati vendono al metro o in apposite cartelle in
cui i singoli fogli sono incollati tra di loro e devono essere scollati con un
tagliacarte. Beninteso, dei fogli ruvidi Fabriano o Schoeller possono
senz’altro offrire un buon campo di prova, ma se uno vuole correggere in corso
d’opera un acquerello o abbondare con l’acqua per ottenere degli effetti
particolari, deve utilizzare questa carta particolare.
Questo tipo di carta viene
realizzato estraendo le fibre dalla cellulosa, da vecchi stracci pressati e
soprattutto (almeno così dicono) dal cotone, il tutto amalgamato e fatto
pressare per bene nelle macchine continue in tondo. Proprio la presenza del
cotone e di altri elementi dona a questi fogli di carta il caratteristico
colore leggermente brunito, invece che il candore tipico delle altre carte.
Questo procedimento serve a garantire all’acquerellista il massimo controllo su
una tecnica che per sua natura è istintiva, immediata e potenzialmente soggetta
al caso: non solo una pennellata meno umida di un’altra genera un effetto
diverso, ma l’acqua potrebbe anche reagire diversamente a temperature
differenti. Il risultato finale è che questa carta presenta sulla sua
superficie tutta una serie di ondulazioni a volte molto marcate, con
occasionali pezzetti di stoffa che riemergono qua e là a testimonianza del procedimento
necessario per realizzarla. Non è un caso che in epoche più civilizzate della
nostra, quando i colori dei fumetti non si facevano col computer, vigesse
l’abitudine delle “blu” (o “grigie” a seconda del caso): fotocopie ridotte
delle tavole originali in bianco e nero realizzate proprio su questo tipo di
carta, o comunque su una non lucida, perché per il disegnatore sarebbe stato
impossibile, o comunque molto difficoltoso, disegnare con il pennino su una
carta così ruvida e porosa.
Quando Laura Battaglia, Patrizia
Zanotti o lo stesso Giardino coloravano le tavole originali opportunamente
fotocopiate sulla carta giusta non sorgevano problemi in fase di fotocomposizione
e stampa analogica: delle macchine appositamente create fotografavano le tavole
e poi le scomponevano nei quattro colori primari per produrre le relative
pellicole che sovrapposte avrebbero ricreato l’effetto d’insieme (o ci
sarebbero andate vicine il più possibile). Questo procedimento è di fatto
identico alla fotografia dei quadri nei musei: sottoposta a una pioggia di
fotoni, la superficie fotografata rivela solo le sfumature della sua patina
esterna senza che vengano rilevate le asperità della carta o della tela come i
grumi di colore e ogni altro eventuale effetto estemporaneo: se l’autore voleva
che una superficie fosse di un bianco compatto, non appariranno gli eventuali
difetti che potrebbero inquinarlo, fosse anche solo la trama della tela.
Purtroppo, come avevo già intuito
da
L’Avventuriero prudente,
Vittorio Giardino non si affida più al vecchio metodo di fotocomposizione, ma
produce in prima persona la scansioni da sottoporre agli editori. Anzi, fa
addirittura lui in prima persona le prove di colore a seconda della carta da
usare per i libri, come ha recentemente detto in un’intervista su
Fumo di China. Purtroppo così facendo la
luce che serve a imprimere le immagini non è più frontale e diretta (o non più
solo frontale) ma a quanto pare è anche radente, e così tutte quelle asperità
della carta per acquerello di cui ho parlato prima si vedono in maniera
inequivocabile. Un po’ come il vecchio giochetto della matita passata sulla
carta per far risaltare la moneta messa sotto il foglio. Un risultato che
andrebbe anche bene per un catalogo di acquerelli, dove intuiremmo il “dietro
le quinte” del lavoro dell’autore, ma che non è adatto a un fumetto.
Questo effetto non è forse
evidente per chi non abbia confidenza con la cosa, ma proprio la raccolta in
volume rende lampante la differente resa tipografica tra i primi due capitoli
di
Jonas Fink e l’ultimo. In pratica
il colore compatto e uniforme non c’è più, per quanto fosse quello l’effetto
voluto in origine. Curiosamente, questo difetto a volte può anche tornare
utile: i muri, ad esempio, sembrano essere volutamente sgranati a simulare un intonaco
ruvido. Tutto il resto, però, ne soffre terribilmente: il vetro perde ogni
trasparenza, la ceramica non è più lucida, così come nemmeno il metallo. Gli
abiti, i capelli, la stessa pelle dei personaggi: tutto marmorizzato. I cieli,
poi, sono spesso pesantissimi e incombono con le loro sgranature non volute,
come l’acqua dei fiumi e delle pozzanghere, che l’acquerello dovrebbe invece rendere
limpida. È come se le tavole fossero state coperte da un vetro smerigliato –
certo, la resa finale è migliore di quella che ho evocato con questo paragone,
ma l’impressione è quella. Che sia un effetto voluto, a simulare di aver
sfumato certi dettagli con le matite colorate? Ne dubito. Prendiamo le vignette
centrali di pagina 250 o quelle nella parte più bassa di pagina 263: siccome le
scene si svolgono rispettivamente di notte e all’interno dell’abitacolo di una
vettura, Giardino ha fatto ricorso a un ulteriore passaggio di colore (su
quello “naturale” sottostante) per materializzare le ombre sui personaggi e sui
decor. Ma la scansione che ne deriva
non ha generato il colore compatto che avrebbe dato drammaticità (o almeno una
maggiore profondità) ai soggetti rappresentati: al contrario, sembra che siano
immersi in acque torbide.
Altro problema: rilevando impietosamente
lo scanner le asperità della carta, vengono registrate anche le diverse altezze
sul foglio di carta (per quanto minime) a cui si trovano i tratti del disegno a
china una volta riprodotto su questa carta speciale. Come ricordato sopra, le
tavole in bianco e nero vengono infatti realizzate su carta liscia, dove il
pennino scorre senza intoppi e dove la china non viene assorbita ma rimane
sospesa sul foglio cristallizzandosi e producendo quindi un effetto di maggiore
nitidezza. Una volta che le fotocopie colorate vengono scansione, questo si
traduce in un leggero tremolio più evidente nei tratti più sottili, anche se
pure quelli più marcati presentano delle ondulazioni indesiderate. Non siamo ai
livelli delle pixellature ormai onnipresenti, ma comunque è un peccato e non
rende giustizia alla minuziosa precisione di Giardino.
PREDICA 2. Nella già citata
intervista su
Fumo di China Giardino
ha detto che i responsabili editoriali della Casterman hanno ritenuto opportuno
ristampare in Francia i primi due capitoli in un solo tomo per accompagnare
l’uscito del terzo e conclusivo. La Rizzoli Lizard si è spinta ancora più in
là, facendo direttamente un integrale! Apprendo da
Bedetheque che la
Casterman ha pubblicato i suoi volumi in un “autre format” rispetto al solito e
spero vivamente che non si tratti di una versione più grande del classico 20x30
ma che li abbiano stampati piccoli come ha fatto la Rizzoli Lizard. “Piccoli”
relativamente, perché si tratta pur sempre del 19x26 con cui venne già riproposto
No Pasaran, che faceva la sua brava
figura anche se un po’ rimpicciolito. E d’altra parte, proprio come nel caso
dell’edizione precedente di
No Pasaran,
non sarebbe stato piacevole trovarsi con volumi cartonati di grandi dimensione
ma di altezze diverse visto che nell’arco di tempo che Giardino aveva impiegato
a finire tutti e tre quegli episodi di Max Fridman, la Rizzoli Lizard aveva nel
frattempo cambiato tipografia.
È anche vero che avendo lo stile di
Giardino parecchie affinità con la
ligne
claire si presta molto facilmente, proprio come i fumetti di Hergé e di
Jacobs, a essere ingrandito o rimpicciolito senza particolari traumi. Il suo
segno, in questo integrale, si legge benissimo e non è affatto sacrificato. Ma
stiamo parlando di Vittorio Giardino: in Italia i suoi lettori sono veramente
così pochi da sconsigliare all’editore di uscire con un volume dal formato
standard (che probabilmente per il cambio di tipografia che ho ricordato sopra
non sarebbe stato proprio uguale, ma almeno lo sforzo ci sarebbe stato)
attirandolo invece con una “offerta promozionale”, perché l’integrale un po’ lo
è? E se anche i calcoli della Rizzoli Lizard fossero stati così corretti, e
sicuramente l’editore ha più elementi di me per dirlo, non avrebbe potuto
pubblicare, oltre a questo integrale, un volume come quelli vecchi, cartonati
con sovraccoperta, in tiratura limitata per i pochi (pochi?) appassionati che
già possiedono i primi due? È innegabile che la scelta dell’integrale invita
naturalmente a una lettura organica, la stessa che ho fatto io, così come è
vero che per una mera considerazione economica sia molto vantaggioso per un
lettore spendere 29 euro per godere di oltre 300 tavole di Giardino, ma io
avrei sicuramente comprato un eventuale volume singolo, fosse anche costato un
po’ di più. Anche perché lo spazio dedicato all’introduzione avrebbe potuto
essere gestito meglio, valorizzando le immagini e posizionando il testo in
maniera più ariosa, come succede nei precedenti due volumi pubblicati dalla
Lizard.
Certo, di questi tempi è già
tanto che
Jonas Fink non l’abbiano
pubblicano in formato bonellide (sono l’unico a trovare paradossale che negli
ultimi anni molti editori si siano affannati a uscire con proposte 16x21 quando
la Bonelli stessa sta sondando il mercato con altri formati?) ma l’annunciato
integrale di
Blacksad, ordinato prima
di
Jonas Fink ma non ancora arrivato,
dovrebbe essere in un bel 24x32. Per la Rizzoli Lizard produrre anche
quest’ultimo Giardino in quel formato sarebbe stato veramente tanto più dispendioso?
Ci sono forse degli accordi con le tipografie o con gli editori esteri per
uniformare il formato?
Il volume della Rizzoli Lizard
comprende anche un’introduzione di Giardino, che mi sembra più che altro un
aggiornamento di quanto scrisse su Il Grifo
oltre 25 anni fa, nove pagine di contenuti extra (schizzi, appunti e parte
della documentazione usata) e due pagine con bibliografia e nota biografica.
Questo fatidico terzo e ultimo
episodio di
Jonas Fink, dunque. Giardino
mi aveva
espresso tre Lucche fa
il suo timore (anzi, la sua fondata certezza) che non sarebbe piaciuto. Non so
come è stato accolto da altri, io l’ho trovato stupendo.
È un po’ difficile ripercorrere
sinteticamente 161 tavole, e anche ingiusto per chi non ha ancora letto Il Libraio di Praga, tanto più che si
tratta di una lettura impegnativa che richiede un tempo di lettura molto lungo,
anche senza volersi soffermare tutti i particolari di cui è saturo. Le pagine
sono molto dense anche se apparentemente “non succede nulla”: in realtà è solo
un artificio narrativo splendidamente usato da Giardino per rendere ancora più
deflagrante la brusca sterzata che prenderanno la storia dei protagonisti e la
Storia del XX secolo verso la centesima tavola.
Jonas è subentrato a Pinkel nella
gestione della libreria e sembra aver trovato un po’ di pace, anche grazie a
un’affascinante ragazza vietnamita. Il destino di suo padre è finalmente
svelato, ma la nuova situazione avrà a sua volta frustranti strascichi
burocratici anche in questa “nuova Cecoslovacchia” in cui il vento riformista
vuole riparare agli errori passati. In un magistrale gioco di specchi (che
riflette la realtà storica) i persecutori adesso sono i perseguitati e i molti
personaggi che abbiamo conosciuto nei capitoli precedenti sono coinvolti in un
balletto di avvicinamento e allontanamento in cui i ruoli sembrano invertirsi,
ma sempre con la costante di una pervasiva paranoia. Più che giustificata:
qualcuno si sta muovendo nell’ombra e la fatidica Primavera di Praga del 1968
non durerà ancora a lungo.
Jonas ha un ulteriore grattacapo:
dalla Russia è tornato il suo primo amore, che si è veramente fatta donna
mentre al termine de L’Adolescenza
era ancora ritratta come poco più di una bambina. Gli eventi precipiteranno e
il vecchio Gruppo Odradek verrà preso di mira dalla restaurata autorità.
Jonas non è un eroe, ma è una
persona reale (persino un po’ bruttino), è evidente che la sua vicenda e certi
suoi comportamenti siano stati ispirati a Giardino dalla conoscenza di prima
mano di persone che furono testimoni o protagonisti di vicende analoghe.
La storia è sospesa tra
malinconica rassegnazione (apprendiamo anche la sorte della madre di Jonas
Fink) e la leggerezza che probabilmente respiravano i giovani nella Praga
dell’agosto 1968. Curiosa una certa deriva da commedia pecoreccia in un paio di
situazioni che coinvolgono l’idraulico Slavěk, che a ben guardare c’era già in
sottotraccia nei capitoli precedenti. D’altra parte era necessario bilanciare
la tensione di certe sequenze con altre più lievi. Il tutto, ovviamente, fino
al momento che, come in un musical, il lettore avvertito si aspetta e sa già
che dovrà manifestarsi per determinare le sorti dei personaggi. Ma a differenza
di un musical, il finale non sarà altrettanto gioioso.
Giardino scrive in maniera
coinvolgente ma non risparmiando dove sia necessario una certa ironia, che anzi
viene sparsa generosamente. Probabilmente è l’unico a scrivere ancora delle
didascalie come «infatti» e «più tardi», ma non si tratta di passatismo, bensì
di un sapiente uso del linguaggio fumettistico, visto che quelle didascalie
contrappuntano sarcasticamente due situazioni che dovrebbero essere concordanti
e invece si contraddicono. Non mancano anche momenti di grandissimo lirismo e
la sequenza nella galleria degli specchi (omaggio a Orson Welles?) è qualcosa
di memorabile. Tatjana Gostrova, poi, si candida a essere il personaggio
femminile più affascinante che Giardino abbia mai creato.
L’unica critica che posso muovere
a Il Libraio di Praga (ma giusto per
dire qualcosa) è che il cameo di Francesco Guccini è un po’ stonato, fuori
posto. Certo, ne Il Libraio di Praga compare anche Vincenzo Mollica (e chissà quanti
altri volti noti che non sono riuscito a identificare), ma lui ha solo prestato
volto e stazza a uno dei personaggi. Guccini, seppure non nominato, è proprio lui. Sulle prime ho pensato che
fosse parte della documentazione e che Giardino avesse scoperto che il
cantautore si trovava a Praga proprio in quel periodo, e d’altronde Primavera di Praga è una delle canzoni
più famose di Guccini, ma Giardino lo disegna così com’è oggi e non 50 anni fa,
oltre a fargli accennare L’Avvelenata
che avrebbe composto solo una decina di anni dopo.
Se l’unico appunto che posso fare
ai testi de Il Libraio di Praga è
questa sciocchezzuola, dal punto di vista dei disegni l’ultimo capitolo di Jonas Fink è semplicemente inattaccabile.
Ricordo che gli ultimi di Max Fridman[link]
mi avevano un po’ colpito per una certa semplificazione grottesca che aveva
vagamente intaccato la proverbiale eleganza di Giardino, così come l’uso del
pennino mi era sembrato più marcato, a volte un po’ grossolano nel definire
contorni e volumi. Evidentemente si trattava solo di una fase passeggera,
perché ne Il Libraio di Praga la
proverbiale meticolosità dell’autore è coniugata a una realizzazione quanto mai
felice e riuscita.
Ogni tavola è un profluvio di
dettagli che meritano di perdere ore a farsi gustare. Nell’ammirare
l’espressività dei volti si può ben giustificare tutti gli anni che Giardino ci
ha fatto sospirare per questo ultimo capitolo.
Una cura maniacale, oltre che
quella proverbiale per i dettagli apparentemente più insignificanti, viene
riservata alle mani, incredibilmente espressive: quanto tempo avrà speso
Giardino in schizzi e schizzi prima di trovare la tensione giusta, la posizione
più narrativa… e il dinamismo delle sue figure… io ho sempre avuto
l’impressione che nelle scene d’azione Giardino volesse mettersi alla prova,
rendere evidente quanto avesse padroneggiato la capacità di far correre o
saltare in maniera naturale e realistica i suoi personaggi. E anche stavolta
c’è riuscito: senza ricorrere a linee cinematiche, ha reso a meraviglia (un
esempio su tanti) la falcata di Jonas che si spinge in avanti sotto la minaccia
dei carri armati russi, mantenendo sempre le proporzioni corrette e senza un
tratto che non sia al posto giusto, con i lembi della giacca sollevati
esattamente come dovrebbero essere.
Il Libraio di Praga merita di essere ricordato come l’evento
fumettistico del 2018. Oltre alla qualità eccellente di testo e disegni, è
veramente la chiusura di un cerchio – per quanto sia una formula abusata. Con
questo fumetto Giardino non ha solo concluso definitivamente le vicende del suo
protagonista, ma in qualche modo ha anche reso drammaticamente tangibili i
mutamenti di una società che inevitabilmente faranno riflettere il lettore su
cosa è successo nel mondo nell’ultimo scorcio del XX secolo, e nella sua vita
tra la prima apparizione di Jonas Fink
e questo volume.
Il Libraio di Praga offre insomma un grande coinvolgimento, un
protagonista vero, dei comprimari eccezionali, una ricostruzione
scrupolosissima e una sensazione di malinconico rimpianto.
Nel mio caso, anche per gli anni in
cui i fumetti erano fotocomposti e stampati in grande formato.