Questo volume è un ottimo esempio
dei limiti del graphic journalism e
della sua sostanziale inutilità, almeno concepito così. Abbraccia pienamente la
rivoluzione apportata dal gruppo Valvoline, cioè ridurre il fumetto a una serie
di didascalie accompagnate da illustrazioni; i valvolinici però disegnavano
bene (alcuni di loro, almeno).
Partendo da Giulio Cesare Brian
“Box” Brown parla di come le strategie di propaganda abbiano la capacità di
costruire nell’immaginario collettivo un mondo ideale di cui ambire a far
parte, strategia di cui si sono appropriati i pubblicitari e quindi anche i
produttori di giocattoli. Un certo approfondimento viene dedicato a Edward
Bernays, che sviluppò per primo dei sistemi di controllo delle masse. Spacciate
per verità rivelate, non so quanto queste informazioni siano attendibili, anzi
il riferimento a Giulio Cesare mi pare decisamente arbitrario.
Ma al di là delle sue
considerazioni personali (alcune palesemente sbagliate: Freud fu il padre della
psicanalisi, non «della psicologia»!) Brown riporta anche degli interessanti
aneddoti sullo sviluppo dei giocattoli e sulla storia della televisione
statunitense. Incredibile e assai inquietante la vicenda della banana Chiquita
e del Guatemala.
Non dovendo seguire nessuna trama
è facile ritagliarsi lo spazio per parlare di tutto un po’: la storia della
Disney, l’origine del concetto patologico di nostalgia, l’importanza
dell’immaginazione nello sviluppo infantile, il pensiero di Orson Welles
(tirato un po’ per i capelli), l’articolata vicenda di Star Wars, ecc. Uno
degli argomenti trattati mi sembra approcciato da un punto di vista pregiudiziale
e sostiene che i cartoni animati con protagonisti giocattoli altro non fossero
che lunghi spot pubblicitari: è ovvio che fossero anche questo (il punto di
vista è condiviso da chi controllava la qualità delle trasmissioni per bambini)
ma tutto sommato erano prodotti di intrattenimento veri e propri e quindi il
frutto di tutto il lavoro e la professionalità necessari alla realizzazione di
un cartoon, con trame originali e
quant’altro.
La dimensione ideale per trattare
tutti questi argomenti non è comunque un fumetto. E già il termine “fumetto”
mal si adatta al lavoro di Brown, che è più che altro un pamphlet illustrato
(male) pur con qualche rarissima scenetta narrativa, come il bulletto che
sostiene di non essere influenzabile e poi canticchia il motivetto della birra.
Con lo stesso numero di pagine un saggio esclusivamente scritto avrebbe
contenuto moltissime informazioni in più, approfondendo quello che qui è stato
solo accennato. E nemmeno l’aneddotica è poi così ricca.
Forse ancora meglio sarebbe stato
del graphic journalism basato su foto
e non su disegni, come fatto ad esempio nel Biographic
di Alan Moore realizzato da Gary Spencer Millidge. Tanto più che i disegni
illustrano i fatti e non li raccontano, e leggendo il testo mi è venuta la
curiosità di vedere com’era fatto Henshin Cyborg (l’antenato dei Transformers),
di ammirare le locandine dei film dei Transformers e dei G. I. Joe, di leggere gli
articoli sulle suffragette pro-fumo, di vedere qualche fotogramma delle
pubblicità transgender citate a pagina 135. Anche perché l’estrema
semplificazione grafica di Brown, oltretutto sbilenca, non riesce affatto a
dare forma alle immagini per chi non conosce già quegli oggetti. Oltretutto
vedere le foto dei vari Presidenti degli USA (e non le loro caricature) avrebbe
avuto tutto un altro effetto, anche perché le limitatissime doti grafiche di
Brown li rendono irriconoscibili.
Stavo invece per complimentarmi
con l’autore per la bibliografia (almeno quella!) ma scorrendo i “titoli”
scopro che ha fatto massicciamente riferimento a documentari e materiali
reperibili online.
Quello della pubblicità è un
meccanismo risaputo e conclamato, quasi onesto nella sua disonestà, cionondimeno
il paladino Brown sembra volerlo demonizzare: la sua postfazione pare essere
stata scritta proprio per pararsi il culo e non essere tacciato di ingenuità o
faziosità. Intanto però ha fatto la morale e forse non è la persona più
indicata per farla. Al di là dei disegni mostruosi degni di Scozzari e
Panebarco (ma mi ha ricordato, in peggio beninteso, anche il Mattioli di quando
faceva consapevolmente il verso all’estetica pop), non è stato un gran furbacchione
a mettere He-Man nel titolo quando dei Masters of the Universe comincerà a
parlare solo a metà volume? E anche per molti altri argomenti si resta con la
bocca asciutta, in un’interpretazione perfetta del capitalismo che l’autore
tanto critica: come i fumetti moderni di supereroi sono organizzati per cicli
pensati per deludere il lettore e spingerlo a rifarsi con il prossimo eventone
che perpetrerà il circolo vizioso (o virtuoso a seconda di come lo si guardi),
anche qui il lettore è invitato a cercare altrove qualcosa che spieghi ad
esempio certe politiche dei network o approfondisca il passaggio dai Micronauti
ai Transformers. E magari sarà lo stesso Brown, che con questo libro si è preparato
il terreno, a venderglielo!
A proposito di morale posso
vantarmi di esserne un fulgido esempio visto che ho foraggiato Bao e Brian
“Box” Brown, e colgo l’occasione per scusarmi di non essere riuscito a stare
sul pezzo e recensire questo volume, uscito ancora a febbraio, per tempo. Per
quanto uno ci provi, non sempre è così immediato ottenere fumetti (in inglese
“to GetComics”).