giovedì 25 novembre 2010

Anatomie argentine (originariamente apparso su Fucine Mute 21)

La via argentina all’anatomia

L’anatomia può diventare una vera “bestia nera” per chi, svolgendo la professione di disegnatore di fumetti, deve essere anche un po’ scenografo, un po’ costumista, un po’ grafico ed un po’ regista. Cercare le inquadrature più credibili non è sempre facile ma riuscire a modellare dei corpi e delle silhouette che contemporaneamente siano corrette, “stiano in piedi” e siano funzionali alla storia raccontata è spesso un grosso grattacapo. La soluzione a questo impasse creativo in cui tutti i disegnatori realisti si sono trovati è stata diversa e quasi antitetica da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico. In Europa la ricerca del realismo e della figura bella in sé porta spesso all’utilizzo di fotografie come base per i disegni, e a venire esaltata in questo processo è la personalità di ogni singolo Maestro e la sua capacità di “interpretare” la realtà: è il caso di Manara, Eleuteri Serpieri, Moebius, Maroto e tantissimi altri che, anche se solo saltuariamente, hanno basato alcune delle loro immagini su altre fonti talvolta realizzate in prima persona da loro stessi (pensiamo, per esempio, a Jacques Tardi che ritrae alcuni amici e se stesso in La Guerre des Tranchèes dopo averli appositamente fotografati). Con i fumetti della Bonelli le cose si complicano ulteriormente visto che talvolta un disegnatore cannibalizza un suo collega che si era precedentemente ispirato ad un’altra fonte ancora!
Negli USA la situazione è decisamente differente: I comic book, supereroistici ma non solo, prediligono l’azione ed il dinamismo alla correttezza anatomica e, a seconda del periodo in cui si trova a lavorare, un disegnatore deve basarsi obbligatoriamente sul modello estetico dominante in quella data fase della storia del fumetto americano. Quindi, dopo Kirby, Adams e pochi altri, ecco l’era di Jim Lee e dei suoi più o meno riusciti cloni, coi loro bicipiti rinforzati, gli improbabili vitini da vespa, le rughe frontali verticali e non orizzontali e quant’altro…
Il fisico, l’inquadratura, la gestualità ed il ritratto sono dunque gestiti in termini molto diversi: da una parte si privilegia l’estetica e la descrizione mentre dall’altra l’accento è posto sul movimento e (in teoria) la narrazione. Ma esiste anche una soluzione intermedia tra queste due “scuole” che, rimanendo al mondo occidentale (sull’anatomia nei manga ci sarebbe da discutere; spesso ha però un’impostazione realistico/fotografica che la rende simile a quella europea) possiamo individuare nelle “historietas” argentine.

C’era una volta la grande scuola del fumetto latinoamericano, quella che per quasi un ventennio, a partire dagli ultimi anni ’70, calamitò l’attenzione di pubblico ed intellettuali verso tematiche impegnate e interpretazioni grafiche nuove ed originali (Sergente Kirk esisteva già da una decina d’anni, ma non fu certo un successo popolare in Italia). Certo, la maggior parte degli Autori di questa scuola esistono e lavorano ancora, ma è proprio la “scuola” in sé, intesa come nucleo ideologico aggregante per personalità magari differenti a non esistere più. Il panorama fumettistico argentino del 2000 è desolante e il poco che si produce ancora è spesso spersonalizzato in favore di stilemi più facili con cui presentarsi su mercati più vivi.
Ma quando le “historietas” arrivarono in Europa, cambiando spesso anche il modo stesso in cui veniva inteso il fumetto, cos’è che le rendeva così speciali? Indubbiamente furono i testi di Oesterheld, Trillo, Sampayo e dei tanti altri che sarebbero seguiti (pur se magari attivi già da molto prima nel loro Paese) a suscitare il primo “colpo di fulmine” per questa produzione. Infatti raramente prima di allora l’impegno sociale era trattato con una tale naturalezza da non risultare un semplice “di più” alle storie, e l’introduzione di citazioni letterarie trovava finalmente un terreno adeguato in cui attecchire e non era più, come spesso avveniva, uno specchietto per le allodole o un effimero sistema per nobilitare una sceneggiatura banale. L’estremo realismo di personaggi e situazioni fu un ulteriore e decisivo passo in avanti rispetto alla produzione cui si era abituati in quegli anni soprattutto in Italia.
Se il contenuto era di qualità così elevata, il contenitore però non era da meno: non solo gli sceneggiatori erano innovativi ma anche i disegnatori si facevano ammirare per le loro interpretazioni della realtà e per l’inedita commistione di abilità narrativa e ricercatezza grafica che caratterizzava le loro tavole. Per sviluppare il loro stile gli argentini avevano trovato un sistema originale ed efficace: l’osservazione della realtà e l’anatomia classica erano comunque delle solide basi, su cui però veniva costruito un edificio che rispecchiava la personalità di ogni singolo disegnatore.

Insomma (e qui veniamo alla questione sull’anatomia che ci eravamo posti all’inizio) Zanotto, Muñoz, Garcia Seijas, Gimenez e tantissimi altri avevano assimilato le regole fondamentali del disegno accademico e della scuola fumettistica classica, ma avevano anche saputo integrarle ed arricchirle con regole specifiche del loro stile, giungendo quindi a creare la “loro” anatomia particolare, il loro modo speciale di guardare il mondo. Questo è un processo non da poco poiché, attingendo sia dagli insegnamenti dei classici che dal gusto del singolo, supera entrambi in favore della costituzione di uno stile veramente originale ed unico che, oltre ad essere il marchio di fabbrica di ogni singolo disegnatore, consente al disegnatore stesso di risolvere i vari dubbi che possono presentarsi durante la realizzazione di una tavola ricorrendo a quelle soluzioni grafiche che egli ha ormai già codificato e il pubblico ha assimilato fino a considerarle naturali e quasi ovvie. Ogni disegnatore presenta insomma la “sua” anatomia, che spesso non lo abbandona per il resto della vita e che viene magari presa ad esempio da altri aspiranti colleghi.
Vediamo qualche esempio tra i più indicativi su come alcuni dei più importanti disegnatori abbiano imposto la loro personalità:

Juan Zanotto - bugie stupendamente raccontate



Giovanni Zanotto nasce in Italia nel 1935 ed emigra in Argentina con la famiglia a tredici anni. La sua formazione professionale è iperspecializzata: frequenta infatti i corsi di fumetto della Escuela Panamericana de Arte con Maestri quali Hugo Pratt e Alberto Breccia. In origine il nome di questa fucina di fumettisti comprendeva anche un ambiguo “de Alex Raymond”, forse solo un incentivo per i giovani alunni a frequentare i corsi e diventare bravi come il creatore di Flash Gordon che allora (e a ragione) era uno dei massimi punti di riferimento possibili. In ogni caso, oggi è molto interessante notare le molte affinità tra Zanotto e Raymond.
Zanotto fa la sua comparsa ufficiale in Italia sul numero zero di Lanciostory, datato 1975 e offerto come allegato gratuito ai fotoromanzi della Lancio (chissà che forse non fosse già comparso senza tante cerimonie sui tascabili bellici della Dardo...). L’incontro con questo disegnatore così originale, sensuale e realistico sarà il preludio al distacco progressivo dei lettori italiani dall’Intrepido e affini in favore di prodotti più adulti. Si trattò di un discreto choc per l’epoca ed è facile capire perché.
Gli scultorei corpi dei cavernicoli e le ammalianti silhouette delle loro compagne in Yor ( la prima serie con cui Zanotto esordì in Italia; in origine si chiamava Henga) erano frutto di un lavoro accuratissimo e di un’attenzione marcata per il dettaglio.


Prima ancora di avventurarci nell’analisi delle anatomie di Zanotto, notiamo che qualche “licenza poetica” se la concede già a livello logico. Come ha avuto modo di dire Boris Vallejo (uno che di anatomia se ne intende), talvolta bisogna abbandonare il buon senso quando si disegna, per creare quelle “illusioni” che il pubblico crederà assai più realistiche che non la fredda imitazione della realtà. Tarzan, girando mezzo nudo per la giungla, dovrebbe sfoggiare un’abbronzatura uniforme, ma se lo dipingessimo così come la logica impone risulterebbe meno credibile che non con le piccole variazione di colorito che caratterizzano chiunque (la pelle sulle costole un po’ livida, il petto più chiaro rispetto al resto del corpo, ginocchia e gomiti più scuri, ecc. - tutti questi dettagli vengono dal ricco volume Boris Vallejo - Fantasy Art Techniques, Paper Tiger, Londra 1985). Così il cavernicolo Yor, capo del suo clan e valente guerriero, non è un ammasso di muscoli ma un magro personaggio dall’addome scavato! Per non parlare di Ka-Laa e delle altre figure femminili di contorno, perfettamente depilate in piena era neolitica…
Tralasciando queste legittime concessioni al gusto estetico comune, osserviamo come non tutti i particolari che Zanotto ci presenta con convinzione corrispondono sempre alla realtà. Ad esempio, quella zona addominale che i professori di anatomia chiamano mesogastrica (che si trova attorno all’ombelico sopra il pube) è particolarmente allungata nei suoi disegni, soprattutto quelli dei primi lavori, ma ciò dà un’impressione di sproporzione e di “allungamento” dei corpi solo se ci si sofferma sulle immagini più del tempo di lettura richiesto dalla tavola. Ed è proprio questa la grandezza di Zanotto come fumettista: rinunciare ad un corpo anatomicamente perfetto in favore di uno molto più funzionale alla narrazione. Insomma, Zanotto (tra l’altro, unico disegnatore al mondo insieme a Ernesto Garcia Seijas a saper dare una personalità ad ogni donna delle sue storie) è l’esempio perfetto di quanto dicevamo sugli Autori argentini che, una volta imparata l’anatomia, ne fanno uso integrandola con il loro stile personale e non subendone passivamente i dettami se le soluzioni per rendere più “fumettistico” un disegno non lo richiedono.


Due “marchi di fabbrica” che caratterizzano i suoi fumetti e che li rendono immediatamente riconoscibili riguardano però i volti e non i corpi. I deltoidi che arrivano talvolta oltre le spalle (nelle scene più movimentate) o i tricipiti che curiosamente si congiungono visibilmente al gomito non sono tanto rilevanti in quanto sono splendidamente disegnati e perfettamente integrati in quell’armonia della tavola che li rende  credibili e naturali. Ma il modo con cui sono rappresentati i nasi, con entrambe le narici ben visibili anche quando una sola dovrebbe esserlo, è senz’altro caratteristico. Ed ancor più originale è la soluzione che Zanotto adotta per risolvere i profili: non si tratta infatti di veri e propri profili ma quasi di ritratti a tre quarti ulteriormente spostati verso l’esterno. È un fenomeno visibile soprattutto nei personaggi femminili, che si ritrovano con un occhio spostato forse un po’ troppo verso la tempia, mentre dell’altro riusciamo addirittura a vedere le ciglia.
Ma anche queste libertà espressive che Zanotto si concede non sono altro che manifestazioni della sua personalità, elementi su cui un rigido anatomista potrebbe trovare da ridire ma che un appassionato di fumetti non può che guardare affascinato ed amare.

Horacio Altuna - la caricatura come realismo



Horacio Altuna nasce nel 1941 in Argentina e si dedica al fumetto professionale solo dopo gli studi e dopo aver svolto altri lavori. Anch’egli arriva in Italia grazie all’Eura Editoriale ed è più o meno nel periodo in cui fa la sua comparsa da noi che in patria “decolla” definitivamente. Nel 1975 nasce infatti il suo sodalizio con Carlos Trillo, con cui realizza l’eccezionale striscia umoristica Loco Chavez per i quotidiano El Clarin. In Seguito Loco Chavez comparirà anche in Italia, su Skorpio e Comic Art, ma solo nel 1987 (proprio l’anno della sua conclusione!).
Dei suoi esordi fumettistici conosciamo in Italia poco o nulla ma in questi ultimi venticinque anni il disegno di Altuna è rimasto praticamente invariato e ciò fa intuire che a poco più di trent’anni avesse già raggiunto uno stile stabile e maturo. I personaggi della sua produzione sono caratterizzati da un’incredibile espressività e da una forza comunicativa che pervade perfino abiti e sfondi: basti pensare che l’Eura, di fronte ai primi fumetti di Altuna, non si fece problemi ad eliminare alcune didascalie che , vista la comunicativa dei disegni, diventavano superflue e ridondanti. Le grandi doti espressive di Altuna derivano dal trattamento che riserva all’anatomia e, più in generale, alle regole del fumetto realistico classico. È la sua personalità il perno centrale attorno cui ruotano le sue interpretazioni grafiche, quella personalità che gli fa disegnare dei movimenti concitati al limite dell’umano, delle indimenticabili facce che da sole caratterizzano un “buono” e un “cattivo” e soprattutto gli occhioni ammalianti delle sue donne di carta. Non è un caso che moltissimi dei suoi lavori (come Dopo il Grande Splendore, Strownsky, Chances e molti altri, con o senza Trillo ai testi) siano attraversati da una vena grottesca spesso associata alla critica sociale.


Altuna non cerca, come invece fa Zanotto, l’anatomia “bella” (pur se funzionale), ma bensì muore dalla voglia di trasmettere ai suoi lettori emozioni e stati d’animo e lo fa modulando il tratto oltre misura, riempiendo le vignette di linee cinematiche e deformando alcuni visi fino quasi all’animalesco. In definitiva, Altuna giunge alle stesse conclusioni della scuola francese di Jijè, Cheret , Derib e tanti altri: usare elementi caricaturali (sovraccaricando i disegni oppure, al contrario, semplificandoli) per rappresentare la realtà non sempre sminuisce il soggetto ritratto, ma anzi a volte può persino donargli un’incisività ben maggiore di quella che avrebbe se copiata pedissequamente. In fondo il lettore sa che il regista pornografico che compare in Strownsky nel mondo reale non sarebbe così somigliante ad E. T., come la moglie del signor Lopez non potrebbe essere quella gigantessa feroce che è in Uscita di Sicurezza, o che i soldati che uccisero Ernesto “Che” Guevara non erano tutti gli uomini-bestia che Altuna ritrae nella breve storia  Pastori. Il gioco dell’eccesso e della caricatura è però molto funzionale a ciò che vuole esprimere Altuna e, forse perché proprio così evidente, rende ancora più bello “entrare” nei fumetti di Altuna e incazzarsi e commuoversi con i suoi eroi.



Horacio Altuna viene considerato un disegnatore realistico, benché sia molto meno accademico di altri, fondamentalmente per due ragioni. Innanzitutto, le storie realizzate con Trillo e quelle che poi ideò da solo trattano principalmente argomenti molto seri per non dire crudi (la corruzione, l’incubo atomico, la clonazione a scopo medico, il razzismo, ecc.) e anche quando sono trattati in maniera scanzonata danno molti spunti di riflessione. In secondo luogo, le figure femminili (spesso e volentieri discinte) che rallegrano le sue tavole sono tratteggiate con una grande abilità ed un rispetto per l’anatomia che non esclude però la sottolineatura delle loro abbondanti doti fisiche (Altuna è da anni un riconosciuto Maestro del fumetto erotico, genere in cui eccesso e caricatura sono elementi basilari).

Enrique Alcatena - la colta raffinatezza del postmoderno



Enrique Alcatena (classe 1957) rappresenta una sorta di “terza via” all’approccio alla professione di fumettista rispetto quelle degli altri due Autori di cui sopra. Come moltissimi altri giovani è dapprima “ragazzo di bottega” del disegnatore affermato e poi affronta interamente da solo le tavole quando raggiunge una maturità sufficiente. Alcatena è presente in Italia già sul finire degli anni ’70, ma la sua firma compare, quando compare, quasi esclusivamente insieme a quella di Martinez, storico disegnatore argentino che aiuta nella realizzazione della serie Le Aquile e di alcune storie di fantascienza. Si mette “in proprio” relativamente presto e da subito suscita curiosità ed ammirazione: nei primi anni ’80 il suo nome viene talvolta ricordato da Lanciostory e Skorpio nelle anticipazioni dei prossimi numeri, godendo quindi di un trattamento davvero speciale che spesso non viene riservato nemmeno a disegnatori molto più vecchi e affermati di lui.
Il tratto rigoroso e “pieno” di Alcatena è senz’altro gradevole alla vista, e non si perde inoltre in superflui esercizi di stile fini a se stessi. Verso la fine degli anni ’80 avviene la sua consacrazione definitiva, il pubblico italiano lo adora e lui ha modo di lavorare addirittura per le statunitensi Marvel, Dark Horse e D. C. Comics. In questo periodo raggiunge la sua piena maturità ed il suo stile, già parecchio originale ma carico ancora di tantissimi influssi, diventa inconfondibile. 


Può sembrare una contraddizione parlare del suo stile come di qualcosa di originale quando questo è tuttora pieno di rimandi ad altri artisti, ma non è così. L’abilità e l’intelligenza di Alcatena consistono proprio nel fondere vari stilemi conosciutissimi dai lettori cui si rivolge per reinterpretarli a modo suo. L’immediata gradevolezza del suo disegno risiede nel lavoro di decostruzione e riproposizione ricercata di canoni interpretativi codificati da disegnatori precedenti. Se guardiamo i suoi fumetti  realizzati su testi di Ricardo Barreiro (cioè Fuori dal Tempo, Ulrick il Nero e Il Mago) non possiamo evitare di soffermarci sull’incredibile imponenza dei corpi e sull’altrettanto incredibile lavoro di cesello effettuato per tirare fuori i volumi e le forme. Limitandoci quindi a considerare la anatomie avulse dal contesto delle tavole (sulla cui organizzazione ”esplosiva” e barocca si potrebbe parlare a lungo: sarebbe interessante confrontare una sceneggiatura con una tavola finita di Alcatena), notiamo la stretta relazione tra i suoi disegni e il tratto sensazionalistico ed iperbolico dei disegnatori nordamericani. Jim Lee, Rob Liefeld e compagnia avrebbero fatto scuola solo tra qualche anno, ma prima di loro c’erano già Gil Kane, Neal Adams, Gene Colan, Frank Frazetta, Richard Corben e, in fondo in fondo, l’onnipresente Jack Kirby.
Le opere successive di Alcatena, scritte principalmente da Eduardo Mazzitelli e Walther Slavich, aggiungono un ulteriore elemento di metatestualità alle sue tavole. A seconda dell’ambientazione in cui si svolgono (il Giappone di Dinastia Maledetta, la Russia di Il Re Leone, l’Inghilterra vittoriana di Attraverso il Labirinto, ecc.) l’inchiostrazione e i dettagli si adeguano a ricostruire l’atmosfera adeguata prediligendo l’immediata esteriorità tradizionale piuttosto che la documentazione. I suoi fumetti, che già in precedenza richiamavano talvolta il surrealismo, il simbolismo e l’op-art, riescono quindi a veicolare le atmosfere come pochi altri e questa intesa che viene a crearsi con il lettore diventa un importante elemento per la legittimizzazione delle bizzarre figure che li popolano.


Enrique Alcatena riesce a spacciare per vere e naturali le sue artificiose anatomie proprio per il rapporto di complicità che sa instaurare con i suoi lettori che, volenti o nolenti, hanno assorbito gli stessi codici visivi che trasudano dai suoi fumetti. Anche le interpretazioni più distorte della realtà o le creature più deformi (dotate in ogni caso di una loro coerenza interna) finiscono per testimoniare dei “prestiti” che la cultura di massa, che ha ormai inglobato anche le avanguardie artistiche e non si limita più ai supereroi, ha fatto ad Alcatena. E non mancano neppure delle devote citazioni dei Maestri argentini come Alberto ed Enrique Breccia: in particolare, se osservate bene le gocce disegnate da Alcatena noterete che sono identiche a quelle che disegnava Lucho Olivera.
Enrique Alcatena compie quindi un raffinato esercizio postmoderno che unisce armoniosamente fumetto popolare, fumetto d’Autore, pittura, cultura pop ed un’incredibile passione barocca per la “meraviglia”.

Due casi particolari: Alberto Salinas ed Enrique Breccia

Nell’ambito del vastissimo panorama fumettistico argentino (che, ovviamente, non si riduce ai soli nomi qui ricordati) due figure spiccano quali eccezioni rispetto a quanto esposto sopra sull’interpretazione dell’anatomia e lo sviluppo dello stile. Alberto Salinas ed Enrique Breccia sono entrambi degni figli d’arte, rispettivamente di Josè Luis Salinas e di Alberto Breccia, veri semidei del fumetto mondiale (anche le altre due figlie di Breccia, Cristina e Patricia, disegnano fumetti). Ma ciò che li accomuna di più nonostante i tredici anni di differenza è un percorso artistico pressochè identico. Lo stile con cui, a metà anni ’70, si presentano in Italia è di stampo decisamente pittorico e colto. Non che abbiano molti tratti in comune, anzi, ma concettualmente si vede che il punto di partenza è comune.



Alberto  Salinas (classe 1932, attivo nel campo dei fumetti fin da giovanissimo) arriva ufficialmente in Italia su Skorpio con la serie Continente Nero, sostituita da Legione Straniera a causa dello scarso successo. In entrambe le occasioni (ma soprattutto in Legione Straniera, poi continuata da altri) Salinas si affida ad un disegno maestoso e ricercato che richiama alla memoria gli schizzi dei Grandi Maestri del Rinascimento. Una precisazione è d’obbligo: oggigiorno definire “pittorica” una tavola a fumetti significa ormai solo sottolineare il fatto che è stata colorata dall’autore e che, forse, ha un minimo di velleità realistiche o espressive. Ecco quindi che le meccaniche illustrazioni manieriste di Alex Ross aggiungono quella patina di iperrealismo fintamente colto che mette a tacere ogni accusa di banalità verso storie come Marvels e Kingdom Come, esperimenti in realtà criticabili da più punti di vista. Ma la propria cultura iconografica classica (ammesso che ci sia, ovviamente…) si può dimostrare anche con il bianco e nero, proprio come fa Alberto Salinas. Le morbide e precise pennellate con cui dà corpo ai suoi eroi, alle sue donne e agli ambienti in cui si muovono sono debitrici sia del naturalismo paterno che dello studio dei pittori classici. Pochi altri disegnatori hanno avuto la pazienza di definire luci e ombre delle figure (quindi i volumi) con dei tratti armoniosi e molto sfumati, e ancora in meno si sono preoccupati di dare alle loro tavole una composizione simmetrica e perfetta dal punto di vista della prospettiva, intesa però come la prospettiva aerea che utilizzano i pittori e non la semplice applicazione delle nozioni di orizzonte e punto di fuga. 



Nel complesso questo stile molto ricercato (che in effetti pecca di una certa maestosa staticità) ricorda molto, come dicevamo, le prove e gli schizzi preparatori dei Grandi Maestri, con qualche particolarità in più. Una costante dei disegni di Salinas fino ai primi episodi di Dago è lo studio e la ricerca continua dei volti, che costituirà col tempo un vero campionario di “tipi”, un’altra idea di base della pittura classica che viene messa in pratica. Non è quindi un caso che Paolo Eleuteri Serpieri abbia dichiarato recentemente, sul numero 81-82 di Fumo di China, di essersi cimentato senza pregiudizi nel fumetto proprio sull’esempio dei grandi Autori argentini tra cui appunto anche Alberto Salinas.


Anche Enrique Breccia (classe 1945, originale e provocatorio sceneggiatore oltre che grande disegnatore) ha avuto un esordio italiano, di cui forse pochi si ricorderanno, di matrice marcatamente pittorica. Fu infatti con uno stile secco e naif, memore anche delle incisioni del messicano Guadalupe Posada, che illustrò le sanguinarie vicende storiche e sociali che apparvero su Linus. Nel suo caso la ripresa di un’iconografia (e quindi di una cultura) particolarmente vicina e politicamente “calda” non è solo uno sfoggio di padronanza dei propri mezzi espressivi, ma è soprattutto una presa di posizione; l’aspetto grafico delle storie diventa quindi anche un nuovo livello di lettura. Altri fumettisti, tra cui il più assiduo fu il brasiliano Jô Oliveira, tentarono lo stesso approccio al fumetto, ma la prova di Breccia rimane probabilmente la più incisiva.


Salinas e Breccia dovettero però inevitabilmente (vista l’elevata qualità del loro lavoro e la conseguente richiesta di sempre nuovo materiale) convertirsi in disegnatori più “commerciali”, meno legati a un’estetica colta in favore di un’altra più immediatamente accattivante e soprattutto più rapida nell’esecuzione. Per Enrique Breccia l’integrazione nel mondo del fumetto realistico classico (comunque sempre di qualità altissima) avviene subito, intorno al 1977, quando inizia a disegnare l’indimenticabile saga di Alvar Mayor su testi di Carlos Trillo (sempre con questo sceneggiatore Breccia tornerà per una breve parentesi, la miniserie El Buen Dios, allo stile precedente). Alberto Salinas “resisterà” invece fintantochè le scadenze di consegna di Dago glielo consentiranno, cioè circa dopo i primi quindici episodi della serie, risalenti all’’81/’82.
Dismessi i panni di disegnatori colti e pittorici (salvo poi tornare a stupirci con delle memorabili opere di cui realizzano in prima persona il colore), i due si trovano pienamente inseriti nel meccanismo del fumetto seriale, meccanismo che padroneggiano pienamente ed in cui diventano degli esempi da seguire ed ammirare. Salinas acquista un dinamismo ed un’espressività prima impensabili mentre Breccia si dedica maggiormente ai dettagli realistici, alle proporzioni corrette e ad un tratto più leggero.
Ma ad un certo punto delle loro carriere avviene, per entrambi, un fatto unico ed assai curioso. La grandezza dei disegnatori argentini, dicevamo, è la loro capacità di assimilare l’anatomia per poi integrarla e personalizzarla con i propri codici iconografici specifici. Ebbene, da metà anni ’80 (per Breccia) e dall’inizio dei ’90 (per Salinas) inizia l’inesorabile processo che li avrebbe portati a favorire la loro interpretazione della realtà rispetto alla realtà stessa (cioè alle regole basilari dell’anatomia), con esiti un po’ disarmanti. L’Enrique Breccia di oggi, che sforna principalmente storie autoconclusive su testi di Eduardo Mazzitelli (anche se di recente è stato contattato anch’egli dalla Marvel), è un semplice campionario di 4/5 tipi di naso ed altrettante bocche, che combinati danno vita ad una nutrita galleria di personaggi disegnati con pochissimi tratti e, probabilmente, con una certa fretta. Spesso le figure sono quasi centrifughe rispetto alle vignette che le contengono, e non sempre la lettura procede spedita come una volta.
Salinas invece (che disegna solo una cinquantina di tavole all’anno) ha cercato di recuperare la maestosità delle origini ma appesantendola di quei grossi tratti che aveva elaborato per velocizzarsi. Sembra anche che ogni tanto il suo tratteggio (peraltro uniforme per armature, tendaggi, volti, ecc.) sia messo a caso, dove Salinas si ricorda che “dovrebbe esserci” uno zigomo o un certo muscolo. Cercare di abbellire e dare profondità a delle immagini che sono imprecise alla base non fa che danneggiare ulteriormente le immagini stesse e nell’attuale periodo sembra quasi che Salinas si limiti, per disegnare i volti dei suoi protagonisti, a copiare i quadri che li ritraggono (visto che le ultime storie, scritte da Robin Wood, sono ricostruzioni storiche).
Né Alberto Salinas né Enrique Breccia hanno perso in popolarità durante gli ultimi anni ed il loro nome garantisce ancora un certo prestigio: tutto sommato, per chi li vuole amare incondizionatamente e sta al loro gioco, le loro tavole sanno offrire ancora motivi d’interesse e di piacere. Rimangono comunque due casi particolari, due esempi di Autori che, a differenza di Zanotto, Altuna e Alcatena, arrivano a porre la loro personalità come base per l’anatomia (quell’anatomia che hanno dimostrato di saper padroneggiare così bene), e non viceversa.

Nessun commento:

Posta un commento