A suo tempo (metà anni ’90) non seguii Hammer, di cui amici mi dicevano mirabilie. D’altro canto avevo già le mie soddisfazioni con Lanciostory, Skorpio, L’Eternauta, Comic Art, ecc. Come molte altre, la serie nasceva sull’onda lunga del successo di Dylan Dog che non solo aveva salvato il fumetto italiano ma lo aveva rilanciato, permettendo ad altri progetti di nascere come nel caso di Nathan Never sulla cui scia fantascientifica si inserì appunto Hammer. Gli autori appartenevano alla cosiddetta Scuola Bresciana e praticamente tutti si sarebbero inseriti nel mondo del fumetto, non solo italiano, ad altissimi livelli – anche se confesso che di Borsoni e Febbrari non avevo mai sentito parlare. Ricordo da varie interviste e articoli che la Scuola Bresciana lo era di nome e di fatto, perché i ragazzi si formarono ai corsi tenuti da Ruben Sosa, un disegnatore argentino praticamente sconosciuto in Italia, anche perché le storie su Alter le firmava con uno pseudonimo. Da quello che ho visto di Sosa in cataloghi e mostre direi che apparteneva alla corrente brecciana della Escuela Panamericana de Arte in cui mi pare che abbia anche insegnato (José Muñoz ricorda che esistevano due correnti principali in quell’istituto: chi si rifaceva allo stile di Hugo Pratt e chi invece seguiva Alberto Breccia). Dato il periodo e il mercato in cui si trovarono ad agire, quei giovani autori non divennero dei bresciani brecciani, ma abbracciarono il rigoroso stile realistico e robusto di marca bonelliana.
Questa ristampa aggiornata del 2014 si apre con la storia breve Tradita, che se non erro era un numero 0 distribuito alle fiere, cosa che però non viene detta da nessuna parte. I disegni di Giancarlo Olivares sono spettacolari. I retini digitali si amalgamano molto bene con i disegni. Non so a che anno risalga la storia, forse il prequel è di qualche anno successivo all’esordio della serie, comunque credo che già all’epoca fosse possibile elaborare digitalmente le tavole. D’altra parte se ben ricordo in un’intervista i componenti del “Gruppo Hammer” sottolinearono che furono tra i primi a usare il lettering digitale (manco fosse una cosa di cui vantarsi), quindi anche altri interventi potrebbero essere stati possibili a metà anni ’90. Nulla di male se Olivares ci avesse messo le mani sopra per questa edizione, visto che anche Majo integrerà la storia portante con una tavola doppia.
I testi di Riccardo Borsoni sono altrettanto interessanti, giocati sul contrappunto ironico tra i ricordi e come si sono svolti realmente i fatti. Tra le suggestioni dell’episodio, oltre ai mecha giapponesi, mi pare evidente il Dark Knight returns di Frank Miller con la sua sovrabbondanza di “opinionisti” (qui testimoni) che dicono la loro in piccole vignette. E magari uno di questi non si chiama Sergente Kirk per caso.
Il piatto forte, cioè il primo episodio della serie, è un gradino sotto a questo fumetto introduttivo. I disegni di Majo, al secolo Mario Rossi, sono sicuramente validi ma l’inchiostrazione è molto pesante (e non penso sia la stampa ad aver ingrossato il tratto) e a volte, ma raramente, ancora un pochino rozzi e quasi confusi. Ma per una serie che non era targata Bonelli fu sicuramente un ottimo biglietto da visita, che giustamente gli aprirà anche le porte dell’altro editore.
La trama vede la hacker Helena reclusa su Lazareth, un satellite-prigione dove dovrà scontare vent’anni di reclusione. I detenuti devono lavorare e sono lasciati a loro stessi, se qualcuno sgarra o semplicemente si fa notare, un robot guardiano lo uccide seduta stante. Helena fa amicizia col pilota (ma più che altro ladro e ricettatore) Swan che possiede un aggeggio indispensabile al criminale di lungo corso John Colter, che sta progettando nientemeno che la fuga da Lazareth. Questa avverrà con un piano curatissimo con cui oltretutto Marco Febbrari fa sfoggio delle sue competenze in progettazione tecnica. Buona parte di Doppia Fuga è occupata dall’evasione, con sequenze frenetiche ma anche un’ottima resa del cyberspazio.
Come probabilmente tutti sanno (è un fumetto di trenta anni fa) alla fine si scopre che il penitenziario altro non è che una simulazione virtuale, colpo di scena che a suo tempo suscitò l’ammirazione di molti tra cui gli amici che ho citato in apertura – che non leggevano Lanciostory o L’Eternauta.
Hammer aveva un taglio dinamico e moderno che si fa apprezzare ancora oggi. La costruzione delle tavole era liberissima, ma ad allontanarlo di più dai canoni bonelliani credo fosse una certa arditezza con cui introduceva riferimenti a lesbismo e sodomia (Swan ha modo di ammirare cosa gli infileranno nel caso non farà il bravo). Probabilmente fu questo lato piuttosto innovativo a non far decollare la serie a suo tempo, che (vado a memoria) venne chiusa dopo otto numeri per poi tornare a furor di popolo per cinque ulteriori episodi.
La nuova confezione Mondadori non sarebbe affatto male. Il formato (lo stesso “423” del deludente Empire USA) è più grande di un bonellide, la carta non è male, la stampa buona, in appendice ci sono gli studi preliminari e il prezzo era onesto anche otto anni fa. Eppure questa stessa edizione celebrativa con bonus, schizzi, ecc. mi è sembrata al contempo anche un po’ dimessa, senza riferimenti alle pubblicazioni originali e con un’introduzione (di Alessandro Di Nocera) assai sbrigativa e che cita tutta la fantascienza possibile tranne quella più pertinente al fumetto. Ma immagino che si sia trattato solo di un antipasto e da qualche parte doveva pur cominciare.
Hammer è stato un bel tuffo nel passato, testimonianza di un’epoca florida per il fumetto italiano (tanto da avere dei margini di manovra per sperimentare anche nel settore popolare) con un’opera che è ancora godibile ed è invecchiata pochissimo.
Ma oltre che a quello di ventotto anni, Hammer permette anche un salto di una decina di anni, con relativo rimpianto, quando ancora esisteva la divisione Mondadori Comics.
Riletta tutta l'anno scorso, l'avevo acquistata all'epoca dell'uscita, in effetti si lascia leggere ancora oggi con un certo piacere, peccato la chiusura molto prematura.
RispondiEliminaSe non erro avevano addirittura ipotizzato un seguito se questa ristampa fosse andata bene.
EliminaPenso anzi che il digitale all'epoca (1995) fosse stato già bell'e sdoganato, almeno all'estero.
RispondiEliminaDel resto, la famosa edizione della Marvel di Akira, colorata da Steve Oliff tutta a computer, iniziò ad apparire nel 1989.
Occhio però che all'epoca i colori "digitali" non lo erano al 100%, come quelli Image. Mi pare che in un'intervista proprio Steve Oliff dicesse di usare tecniche tradizionali che poi elaborava al computer.
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