domenica 4 ottobre 2020

Qui c'è tutto il mondo

La prassi comune impone che un fumettista dica che è diventato tale perché sentiva la necessità di raccontare storie. Ma le nuove generazioni interpretano la cosa non da un punto di vista narrativo (una “storia” propriamente detta richiede la costruzione di un punto di partenza, uno snodo originale che lo modifichi e un altro snodo originale che risolva il precedente) ma semplicemente descrittivo, talvolta documentaristico o memorialistico, creando dei reportage su delle vite (che non sono necessariamente, anzi quasi mai, storie) che secondo loro sono degne di essere narrate, o per meglio dire evocate. Anche Qui c’è tutto il mondo rientra in questa categoria, nonostante la presentazione mi avesse fatto sperare diversamente.

Nei primi anni ’80 Anita Marsala, poco più che bambina, si trasferisce con la famiglia in una Bergamo, per la precisione a Stezzano, già intossicata da fumi leghisti. Terrona, maschiaccia e invidiosa del trattamento di favore che secondo lei è riservato al fratello minore, non vive comunque una brutta esistenza perché ha saputo farsi due amiche importanti: Tina che è un maschiaccio peggio di lei e la più “ammodo” Elena. Ognuna di loro deve convivere come tutti con drammi più o meno grandi: Tina vive in un contesto povero per metà operaio e per metà contadino, Elena è orfana dei genitori e vive con la nonna. E anche Anita ha la sua croce da portare, ovvero una madre malata. Purtroppo la sua patologia viene svelata sin dalla quarta di copertina, e anche se scopriamo di cosa soffre già a un quarto del fumetto, sarebbe stato più efficace non saperlo prima.

L’affresco viene presentato in maniera volutamente frammentaria, con un lungo flashforward iniziale che introduce la vicenda e concentrandosi sugli episodi più importanti per approfondire i caratteri delle protagoniste e il contesto in cui si muovono (essendo il padre di Anita ingegnere nella fabbrica dove quello di Tina è solo operaio questo rischia di generare degli attriti tra le due; forse il desiderio di essere un maschio di Anita rivela qualcosa del suo futuro orientamento sessuale). Il filo conduttore delle loro vite è il desiderio di andarsene, per soddisfare il quale arrivano addirittura a costruire una zattera con cui navigare il Po. Proprio questo elemento farà sfiorare la tragedia. Ovviamente, raccontando parte di una vita e non una storia, non c’è bisogno di un finale che tiri veramente le fila di quanto si è letto.

Visto l’approccio che ha scelto la sceneggiatrice Cristiana Alicata la “narrazione” viene spesso demandata a un lirismo che rende i disegni solo appendici dei testi, usando la scansione in vignette (o le pagine prive di disegni) come metronomo con cui dare il ritmo alla lettura: forse alle pagine 134 e 135 c’è una citazione dello Swamp Thing di Alan Moore. Ma per fortuna questo viene bilanciato da sequenze mute che ci ricordano che anche questo è un fumetto: una su tutte, la scoperta da parte della nonna di Elena del progetto di fuga.

A livello di disegni Filippo Paris ha prodotto delle tavole molto migliori rispetto a quelle di altri colleghi più frettolosi e meno precisi che si sono cimentati con la stessa categoria merceologica. Anche lui ovviamente ha adottato uno stile un po’ abbozzato ma non ha trascurato i dettagli laddove erano necessari (e non ha “barato” nel disegnare biciclette e interni) e ha sempre rispettato l’anatomia e le proporzioni. Forse ha perso un po’ di smalto verso la fine, ma d’altra parte 200 tavole non sono uno scherzo – come parzialmente lasciato intendere dalla Alicata nei ringraziamenti finali. E forse la colorazione avrebbe potuto essere meno scura in alcuni punti visto che non permette di distinguere bene i disegni, ma magari si tratta di una scelta stilistica voluta per evidenziare certi dettagli come le lacrime.

Nel complesso Qui c’è tutto il mondo è un’opera piacevole e anche abbastanza coinvolgente pur se non racconta propriamente una storia.

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