L’avrei comprato per la miniserie
(proprio mini: solo due numeri) di Warren Ellis che dà il titolo al volume, ma
le storie di contorno si sono rivelate migliori. Rovine è una parodia grottesca e splatter dei supereroi, senza
nessuna pietà per loro. Il reporter Philip Sheldon vuole realizzare il suo
ultimo libro prima di morire di cancro: un’inchiesta sul perché in questo
universo le situazioni scatenanti alla base della nascita dei supereroi abbiano
portato a un mondo desolato e purulento e non alle meraviglie delle controparti
canoniche di casa Marvel. Un po’ grazie al suo glorioso passato, un po’ grazie
ai suoi contatti e un po’ grazie alla pietà che suscita la sua condizione,
riesce a raccogliere alcune testimonianze e ad accedere a degli edifici governativi
interdetti ai civili. Negli Stati Uniti vige infatti una specie di legge
marziale causata proprio per reazione alle imprese dei supereroi, soprattutto
dei Vendicatori – ma questa cosa non viene approfondita. Il gioco è quello di
mostrare cosa sarebbe veramente successo a delle persone mutate o nate con gli
effetti delle radiazioni, ma se gli ingenui comic book degli anni ’60 erano innocentemente
positivi Ellis esagera dall’altro lato: ovvio che i raggi gamma fanno venire
tumori, ma questi non si manifesterebbero certo di colpo e deformando il corpo
ospite come succede al Bruce Banner di questa realtà.
Vengono fatte così sfilare delle
versioni mentecatte, malate, morenti o mutilate dei personaggi Marvel, e anche quelli
che mantengono una parvenza di normalità sono sottoposti a una rilettura
umiliante. Per uno che odi quell’universo sarebbe anche una lettura gustosa, se
non fosse che diventa presto ripetitiva e la trama non va da nessuna parte.
Inoltre si avvertono i 25 anni di distanza che separano Rovine dal 2020: oltre al fatto che le tavole dipinte erano
veramente dipinte col pennello e non realizzate col computer, tante trovate di
Ellis le abbiamo già lette e rilette altrove. Il bisticcio Cree/Kree l’ha riciclato
in una miniserie della linea Ultimate, così come il concetto che un personaggio
invisibile è cieco è riaffiorato in Planetary
e da altre parti; alcuni spunti sono simili a quelli che avrebbero portato a Civil War e Donald Blake che crede di essere Thor dopo aver assunto dei funghi
allucinogeni ricorda un po’ la sua versione in Ultimates.
Alla fine lo scopo principale di Philip
Sheldon non viene raggiunto e quali siano le ragioni per cui il suo mondo sia andato
a rotoli non vengono svelate, a meno che non si tratti della diversa maniera in
cui si svolse il lancio di prova dei Fantastici Quattro. Sullo sfondo alcune
trame rimangono irrisolte, in particolare quella che coinvolge il Professor X,
cioè Charles Xavier: può darsi che non fosse intenzione di Ellis svilupparle ma
l’impressione è quella che la miniserie sia stata chiusa in fretta e furia.
I disegni sono quelli che
avrebbero potuto fare la differenza e risollevare il fumetto. Così non è stato.
I fratelli (o coniugi) Cliff e Terese Nielsen sono parecchi miliardi di volte
meglio dei quadratoni di Romita Jr., degli schematismi di Jim Lee e delle
caricature di Humberto Ramos, ma il loro ambito di competenza non è lo stesso
di quel sottobosco: proprio perché producono un lavoro di un certo tipo è
inevitabile confrontarli con altri artisti pittorici (in un’epoca in cui,
ripeto, dipingevano veramente e non usavano il computer). E benché il loro
lavoro sia buono non possiede la ieratica naturalezza di un Jon J Muth, la
ricchezza e la fantasia di Kent Williams (a cui pure un po’ somigliano), la
vivacità di Duncan Fegredo, l’imperiosa leggibilità di Frank Hampson, la
dinamica espressività di Dan Lawrence, la spontaneità di Scott Hampton, la raffinata
complessità di Dave McKean, la potenza di Simon Bisley. Inoltre se ne fregano
di trovare qualsiasi somiglianza tra i loro modelli e il corrispettivo
cartaceo. Al manierista Alex Ross va riconosciuto che almeno si impegnava in
tal senso. A peggiorare la parte grafica c’è il fatto che non sono nemmeno
riusciti a finire di disegnare
Rovine:
al loro posto è subentrato Chris Moeller, non certo un cane ma dallo stile
molto scolastico, quasi banale direi.
Il volume è integrato da altri
tre fumetti della serie Tales of the
Marvels, autonomi ma vagamente interconnessi tra di loro. Tutti e tre sono
caratterizzati da una certa verbosità, o meglio da quella che oggi, abituati
alla decompressione, sembra verbosità: in realtà gli sceneggiatori (o i loro
editor) sono stati bravi a giocare con le parole e la narrazione molto densa
non pesa affatto, anzi coinvolge maggiormente il lettore e aumenta il tempo di
lettura.
Blockbuster di Mike Baron e Shawn Martinbrough racconta l’impatto
che una battaglia dei Fantastici Quattro ha sulle famiglie dell’edificio raso
al suolo dallo scontro. In realtà più che sui Fantastici Quattro i riflettori
sono puntati sugli eroi cosmici della Marvel e l’io narrante della vicenda
vorrebbe nientemeno che ammazzare Silver Surfer. I supereroi praticamente non
ci sono, sono i McGuffin che fanno partire la situazione e Silver Surfer compare
solo alla fine per tirare le fila della trama. Essendo un fumetto Marvel non ci
si può allontanare troppo dal canone e dal codice etico della casa editrice,
però la storia in sé è piacevole e ben scritta. In questo caso non capire tutti
i riferimenti all’universo Marvel non è un male: riallacciare il filo con
quelle storie precipiterebbe la trama in un contesto molto meno drammatico e le
toglierebbe pathos. Molto buoni i
disegni e i colori di Martinbrough: non sono elaborati come quelli di altri
artisti pittorici, ma il suo schematismo è molto efficace ed è perfetto per un
fumetto (almeno per questo).
Demoni Interiori riesce a portare sulla scena Namor il Submariner senza
che risulti antipatico, visto che il vero protagonista non è lui ma un barbone
alcolizzato che ha nel misterioso “Vecchio”, il Namor smemorato prima di essere
scoperto dai Fantastici Quattro, un amico e una guida che lo salva
dall’alcolismo e aiuta altri senzatetto. Il tutto intrecciato con vari elementi
Marvel (Harry Osborn, i Duri e sicuramente qualcos’altro che non ho
riconosciuto) ma senza che la cosa sia troppo invadente. Dato l’argomento c’è
un po’ di retorica ma Mariano Nicieza scrive molto bene e riesce a superare
l’inevitabile patetismo di alcuni personaggi donando un tocco di umanità e
concludendo con classe il racconto, dandogli una certa circolarità.
Veramente belle le tavole di Bob
Wakelin, sapientemente equilibrate tra virtuosismi pittorici e leggibilità,
ricchezza ed espressività. Purtroppo nemmeno lui come i Nielsen è riuscito a
disegnare tutto l’albo (ma questi disegnatori sono inaffidabili o era la Marvel
a non riuscire a far rispettare le date di consegna?): in suo soccorso è
intervenuto l’intero Studio Infinity che ha prodotto un lavoro proprio scarso, forse
per la necessità di consegnare le tavole in tempo. In ogni caso il risultato
non cambia e lo stacco tra i due stili si nota drammaticamente, tanto più che
sono inframmezzati tra di loro.
Wonder Years, scritto da Dan Abnett e Andy Lanning, è apparentemente
il più leggero dei tre “Racconti delle Meraviglie” e mette in scena una fan di
Wonder Man ossessionata dal suo idolo con cui ebbe anche un incontro
ravvicinato. Qui le vicende del Marvel Universe sono massicciamente presenti,
perché è necessario seguire passo dopo passo la storia del personaggio per
vedere le conseguenze che ha sulla vita di una persona comune. Dopo che per tre
quarti la storia era intrisa di vacuità e di innocenza, prende una piega
decisamente tragica ma comunque il discorso sui pericoli del divismo e sugli
stereotipi dei supereroi non sono troppo approfonditi. La storia (divisa
originariamente in due albi) non è eccezionale ma la qualità delle altre due mi
ha predisposto favorevolmente e ho apprezzato pure questa.
Bella prova di Igor Kordey, che
però nei progetti europei ha tutta un’altra profondità.