Vertigo Pop! Tokyo segue le vicende di tre protagonisti: Riuji è un fresco affiliato della yakuza un po’ tontolone, a cui viene sconsideratamente affidata una missione importante, Steve è un geek statunitense che si mantiene a Tokyo spedendo via fax traduzioni di argomento farmaceutico e Maki, sorella di Riuji, vuole diventare una rockstar come il suo idolo Hine visto che ha fallito quel micidiale test che fanno i bambini giapponesi per capire se potranno andare all’università.
A farli incontrare è proprio Hine, che non vuole pagare la protezione alla yakuza e forse (non mi pare venga chiarito) gestisce un traffico di prostituzione con cui fa concorrenza a questi “criminali istituzionali” giapponesi.
La trama, se così la si può chiamare, è meno di un pretesto per illustrare le stranezze e le curiosità del Giappone, di cui evidentemente anche i lettori statunitensi sono avidi cultori dopo anni di lavaggio del cervello a base di anime e manga. Non sempre è chiaro perché i personaggi (in particolare Maki) facciano quello che fanno, e gli spostamenti da un punto all’altro di Tokyo avvengono con una rapidità incredibile: tutte scuse per far vedere scorci pittoreschi della città o sbattere in faccia al lettore scenette che rappresentino le curiosità giapponesi. Oltre alle cose più o meno risapute come le portiere dei taxi che si aprono da sole, le frustrazioni dei lavoratori annegate nell’alcol e il sussiego estremo delle conversazioni, scopro l’abitudine diffusa degli uomini di pisciare all’aperto, il pregiudizio dei poliziotti giapponesi per cui le carte telefoniche degli stranieri sono (beh, erano) tutte contraffatte, lo sciopero dei criminali della yakuza che vogliono un trattamento più umano anche se sono dichiaratamente criminali.
Se i testi di Jonathan Vankin sono programmaticamente evanescenti in quanto solo un pretesto per fare da filo conduttore a quella che nei fatti è una guida di Tokyo, i disegni sono addirittura peggio. A me Seth Fisher piaceva moltissimo, ma per questa miniserie adottò uno stile scellerato. I panorami, gli interni, gli sfondi e anche i corpi sono molto realistici e dettagliatissimi quando serve, ma i volti dei personaggi sono praticamente degli emoji ante litteram, cioè dei tondi con due puntini per gli occhi e due salsicce come bocca, senza alcun naso e con i soli capelli a differenziare un personaggio da un altro. Sì, qualche testa ha una forma un po’ diversa o è puntellata di efelidi (o quello che sono) ma il risultato non cambia: in personaggi sono assolutamente inespressivi e indistinguibili l’uno dall’altro, se non appunto per i capelli. Che poi se si volevano accalappiare gli appassionati di manga non era meglio disegnare degli occhioni? Per come la vedo io i disegni di Seth Fisher potevano rendere tollerabile anche la storia più stupida, ma qui invece contribuiscono notevolmente ad affossarla. Non aiuta poi il lettering poco funzionale adottato dalla compianta Planeta DeAgostini, che comunque ha fatto ben di peggio anche su queste stesse pagine: il glossario finale non sempre è congruente con i termini usati e soprattutto la qualità di stampa è piuttosto scadente. Per fortuna c’è un elemento che mi tornerà utile per i Fumettisti d’Invenzione. Almeno questa consolazione.
In conclusione non ho difficoltà a capire perché questo volumetto, che comunque non costava tantissimo nemmeno all’epoca della sua uscita (8,95 euro), sia finito nel purgatorio dei 3 euro.
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