Bella la confezione, quantomeno suggestivi i disegni: ho voluto provarlo.
La storia è ambientata a metà del 41° secolo: sulla Terra è stato individuato un portale verso un’altra dimensione battezzato “il Ponte” e una coppia di cartografi è andata dall’altra parte per vedere cosa c’è, solo che i due sono scomparsi senza dare più notizie. Se non altro Gerardus, il tizio robotico che invita i viandanti nel suo palazzo, si è mostrato amichevole.
Passano gli anni e la figlia telepate della coppia, Adley, finisce l’addestramento con cui sviluppa un legame psichico con Staden, un evolutissimo robot che è in grado di attraversare gli “spazi tettonici” e quindi di andare dall’altra parte. L’idea è quella di guidare Staden da remoto per trovare i suoi genitori ma nel corso di una simulazione appare Gerardus, quindi Adley decide di anticipare i tempi e partire anche lei fisicamente verso l’ignoto.
Staden va in avanscoperta e fa vari incontri bizzarri, non tutti amichevoli, finché il rinvenimento di una fotografia fa intuire ad Adley che è giunto il momento anche per lei di partire. E così arriviamo al disvelamento finale del retroscena.
Hexagon Bridge è un fumetto ambizioso che forse non mantiene proprio del tutto quello che promette – o sembrava promettere, magari ero io ad avere troppe aspettative. Fortunatamente non ci troviamo di fronte a un’altra storia che si arrotola su se stessa, ma mi pare che i debiti forse involontari con altre opere di fantascienza come Solaris (il film di Tarkovskij, ché il romanzo non l’ho letto) siano evidenti. L’inflazione di sequenze mute basate sugli effetti grafici (digitali, ahinoi) rende poi la lettura molto veloce.
Credo che Richard Blake abbia voluto distanziarsi il più possibile dai classici comic book, sia come ritmo degli episodi che presentano capitoli anche molto brevi e praticamente nessun cliffhanger (che si tratti di una sceneggiatura cinematografica riciclata?) sia soprattutto nel formato che non adotta la diagonale del 17x26. Mi pare evidente che gli piaccia il fumetto franco-belga di cui ha ripreso lo stile di disegno e colorazione. Purtroppo il suo tratto piuttosto grasso non ammette tratteggi e quindi non invita ad ammirare dettagli che difatti non ci sono. Le città volanti di Moebius, tanto per citare un’altra evidente ispirazione, facevano tutto un altro effetto.
Ciò detto, non si tratta sicuramente del classico fumetto che ci si aspetterebbe da un autore statunitense: accompagna per mano il lettore senza inutili fronzoli d’impatto e la pressoché totale assenza di violenza è una trovata quasi spiazzante da tanto è rara.
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