sabato 6 dicembre 2025

I Seasons

Toh, un po’ di originalità dal mondo statunitense. Se ho ben capito, Rick Remender ha voluto fare un omaggio ai romanzi inglesi ottocenteschi per ragazzi. “I” Seasons sono quattro sorelle che, coerentemente col cognome, hanno ognuna il nome di una stagione. La storia si apre con la quattordicenne postina motorizzata Spring che dopo varie peripezie riesce a recuperare la lettera che le ha inviato la sorella Autumn, che le rivela di aver scoperto che fine hanno fatto i loro genitori ma che al contempo le anticipa un pericolo di cui lei stessa teme di cadere vittima a breve. E infatti la storia, che inizia in un 1924 alternativo, si apre con un circo itinerante che attraversa la città di Neocairo i cui abitanti sono vittime di un acuto narcisismo che li porta a specchiarsi dimentichi di tutto il resto. Lo stesso inquietante circo è arrivato anche a Nuova Gaulia, da cui Spring dovrà fuggire portandosi dietro le due sorelle rimanenti. Solo che ormai è troppo tardi per farlo: l’artistoide depressa Winter non le crede e la vanitosa supermodella Summer torna appositamente a Nuova Gaulia proprio per farsi notare in occasione di una delle serate del circo. Questo “circo” è simile a un’entità vivente, capace di inghiottire gli spettatori portandoli in un’altra dimensione, e si espande sostituendosi progressivamente agli edifici della città. Per attirare le sue vittime si serve di clown mutaforma.

Ne I Seasons lo steampunk si mescola al fantasy passando per Pippi Calzelunghe, Alice nel Paese delle Meraviglie, l’estetica degli anni ’60, il mito arturiano, Charles Dickens, Indiana Jones, Dimmi che mi ami, Junie Moon, Lovecraft, Rocketeer, Mary Poppins e chissà quant’altro che non ho colto. Da sottolineare il linguaggio ricercato di cui ha fatto uso Remender.

Benché in origine sia stato serializzato in otto comic book questo fumetto si legge in maniera molto spedita, con un ritmo e delle invenzioni continue quasi frastornanti: non è affatto una brutta sensazione. Peccato che la storia non finisca qui, o meglio che si arrivi a un mezzo punto fermo che però apre a nuovi scenari.

Ma i fumetti, d’altro canto, sono anche fatti di immagini. I dieci anni passati da Outcast si fanno sentire. «Veramente molto bravo», avevo definito Paul Azaceta all’epoca. Evidentemente si è riposato sugli allori e sta monetizzando sulla gloria passata. Le sue tavole sono solo degli schizzi, che sembrano fatti pure malamente e controvoglia. Non si può nemmeno addurre la scusa della scelta di un disegno espressionista per giustificare gli errori prospettici, le anatomie sballate, le pennellate pesanti e in generale il senso di scazzo che trasmettono queste vignette. È ovvio che tanta imprecisione porti poi il colorista Matheus Lopes a confondere gli edifici coi tendoni del circo o a proiettare sei ombre sul pavimento dalle sette sedie che invece ha disegnato in fretta e furia Azaceta. Peccato, perché un disegno più dettagliato, o almeno curato il minimo sindacale, avrebbe reso maggiore giustizia ai testi.

Nessun commento:

Posta un commento