giovedì 14 aprile 2016

Sugar Skull

Con Sugar Skull termina la desolata, disturbante, melanconica trilogia iniziata cinque anni or sono con X’ed out. Cinque anni per noi italiani, ché la Rizzoli Lizard dopo aver pubblicato L’Alveare quasi in tempo reale ha aspettato due anni per fare uscire Sugar Skull.
Al netto dello splendido reparto grafico (Burns ci sa fare anche coi colori, per quanto digitali), sembra che l’autore si sia impegnato a inanellare tutti quelli che per me in un fumetto sono difetti. Anche se tutti i nodi vengono al pettine, persino quelli di cui mi ero scordato, Sugar Skull non è praticamente per nulla narrativo ma esclusivamente descrittivo. Il ritmo della narrazione si sfalda e si accartoccia senza alcun motivo apparente. Le visioni metaforiche, per quanto giustificate, sono preponderanti e compiaciute. L’intento manifesto è quello di costruire un’atmosfera particolare più che una trama articolata. Forse c’era anche la voglia di épater la bourgeoisie con certi elementi. La storia, in ultima analisi, è banale. Eppure…
Eppure Sugar Skull non sarà il fumetto migliore che ho letto in questi ultimi anni ma sicuramente quello che mi ha coinvolto e catturato di più. In queste pagine il lettore si prende un calcio nello stomaco dopo l’altro. E gli argomenti che tratta, eccezion fatta per le «stronzate da liceo artistico», mi sono pure estranei, per fortuna.
È ovviamente gratificante arrivare al bandolo della matassa e capire qual è il rapporto tra Doug e Johnny, e quali sono gli eventi che li hanno portati dove sono adesso, ma la vera forza di Sugar Skull è l’ansia con cui il lettore affonda sempre di più nella vita del protagonista e di chi gli sta attorno, l’orrore gigantesco di una esistenza minuscola, il terrore di leggere nei dialoghi le meschinità in cui tutto sommato molti possono riconoscersi.
Sicuramente Burns è riuscito a ottenere questi risultati anche grazie alla perfetta scansione delle vignette, dalle dimensioni calcolate al millimetro ed efficacemente alternate con vignette scure o monocrome – ma forse sto solo cercando di razionalizzare qualcosa che difficilmente può esserlo.
Sulla trama meglio non dire nulla: gli indizi che Burns aveva seminato in precedenza si sono concretizzati nella maniera più logica. Bello comunque il colpo di scena (per me, almeno, lo è stato) sull’identità del “teschio di zucchero”, che mi fa pensare che in fondo la Rizzoli Lizard ha fatto bene a non tradurre il titolo vista la mole di significati che può assumere.
Si fa presto a dire che è più difficile scrivere una storia breve con un’idea originale (vedi, sempre di Burns, il delizioso El-Borbah) piuttosto che stiracchiare il proprio disagio per pagine e pagine, eppure Sugar Skull ha toccato le corde giuste per candidarsi a essere ricordato tra il meglio del fumetto degli ultimi anni, e sicuramente ha saputo costruire un immaginario che rimarrà a lungo impresso nella memoria del lettore.
Adesso mi è venuta voglia di rileggermi tutta la saga dall’inizio, e mi sa che mi rileggerò pure The Black Hole.

4 commenti:

  1. " sembra che l’autore si sia impegnato a inanellare tutti quelli che per me in un fumetto sono difetti " è una rilettura lorenzoniana del famoso motto " dicono che son solo canzonette (...) ma proprio la piu' scema resta in testa " nella canzone Grazie dei Fiori Bis di Morrison/Moore/Ellis/Manari.

    L'aggeggio non dovrebbe funzionare, ha un sacco di magagne e non rispetta le regole, ma capita di tornare nei paraggi, dopo il crepuscolo, e scegliere il guilty pleasure.
    A me capita con la mini di Sabretooth di Hama/Tex
    ( 1993 ). Credo di aver perdonato a Texeira anche l'utilizzo di supporto fotografico ed un lay out non propriamente al servizio della economia del racconto x tacere del mecha design della armatura dell'avversario di Creed tanto naif da far sembrare Go Nagai il Pininfarina dei robottoni.
    Mi hai quasi convinto a riprendere in mano i miei Burns. Quasi. Non è proprio un burning desire: Chuck ferma esattamente il tratto dove si deve fermare, ha un controllo di china che nemmeno un Baldazzini immerso nella calma zen di un oceano di camomilla. Nonono. Un atteggiamento che ammetto, ma non nel mio universo in cui tutto sfreccia intorno a me come nel video Ray of Light di Madonna o in certe tavole di Mark Badger.
    Mi pare di vederti nel tuo sancta sanctorum , mentre lanci una occhiata ai tuoi posters di battaglie del Vasari coperte di adesivi con una faccina perplessa di un giovane Massimo Troisi, mentre ascolti e riascolti Karma Police dei Radiohead e realizzi quanto possa essere urticante e seducente, come un diavolo sottopelle che agogni la libertà ed il nulla in senso carmelobenico, una immersione nel silenzio assordante, con tante scuse a Hawking, delle tavole perfette di Burns. Bravo. Alcuni tra noi devono avere nervi d'acciaio.

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    1. Ma come fai a sapere delle stampe di Vasari?!
      Parrebbe che il video di Madonna che citi sia una copia di uno di una nostra gloria nazionale, Biagio Antonacci o giù di lì.

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  2. So. Non ci crederai, ma anni fa ne ho scritto e codiretto una versione x una convention aziendale.
    Quello di Biagio è un omaggio ad un protovideo RAI con Gianni Morandi. Una cosa anni sessanta.
    Vasari era facile. Le figu di Troisi appiccicate sopra meno. Paghi troppo poco la Magamagò che fa le pulizie nel tuo batcave e lei arrotonda vendendo pettegolezzi...

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    1. Mi è venuta la curiosità di vedere se la storia del protovideo di Morandi è vera.

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