Mah, alla fine è meglio lo spin
off della serie-madre, almeno della sua seconda (forse conclusiva) parte.
Secondo uno schema già visto e stravisto negli ultimi anni, Jupiter’s Circle si concentra sulla
Golden Age di questo universo supereroistico, sugli anni in cui sono avvenute alcune
cose eventualmente solo accennate nella serie portante. Mark Millar ha diviso
gli archi narrativi della prima miniserie in tre blocchi da due e si è
concentrato su argomenti scomodi come l’omosessualità e l’adulterio per mettere
alla berlina il mondo bigotto dell’America anni ’50.
Il gioco funziona bene, perché
Millar tesse delle belle trame in cui la risoluzione dei rovelli in cui si
trovano coinvolti i protagonisti sono importanti tanto e più degli argomenti “sensibili”.
I personaggi sono molto ben caratterizzati e le battute piacevolmente pungenti
senza scadere nella facile provocazione caratteristica dello sceneggiatore
scozzese («Lo sanno tutti che Liberace è un dongiovanni!»).
I disegni sono lontani dallo
standard di Quitely, più stilisticamente che a livello qualitativo: laddove
Quitely è modernissimo, Wilfredo Torres disegna con quello stile tipico di
Darwyn Cooke e degli altri disegnatori che si rifanno ai comic book anni ’50 e ’60 (ma veramente i fumetti si disegnavano
così in quegli anni?). Non lo conosco e non so se sia il suo stile abituale,
sicuramente è stata una scelta redazionale per catturare l’atmosfera
desiderata, insomma viste certe forzature anatomiche penso che sia stato
costretto a farlo. Così come il suo sostituto (ma quasi titolare: su sei numeri
ne ha disegnati due e mezzo!) Davide Gianfelice, che ha prodotto delle tavole
molto scarne e abbozzate dopo aver fatto un figurone sul numero 3, dove i suoi
inserti si staccavano nettamente per qualità dalle parti di Torres. Ma è
probabile che ci siano state di mezzo delle scadenze impellenti e quindi la
necessità di consegnare le tavole (impossibilitato Torres a farlo) nel minor
tempo possibile.
Il secondo arco di storie di Jupiter’s Circle è un po’ più canonico,
incentrato maggiormente sui protagonisti di questo affresco supereroistico che
non sulla società che li circonda (ma comunque ci sono molteplici riferimenti
alla seconda metà degli anni ’60, con svariate comparsate di persone realmente
esistite, tra cui un Rockfeller che vorrebbe Utopian come padre surrogato). La
scrittura è densa e coinvolgente, i personaggi molto approfonditi e alcuni
elementi della trama di Jupiter’s Legacy[link] abbondantemente sviscerati in modo da
far capire che tout se tient. Tutto
sommato una buona prova da parte di Millar, per quanto navighi (ottimamente) su
acque già battute e non scriva nulla di rivoluzionario: ma va benissimo così, e
magari tutti i suoi fumetti fossero come questo.
I disegni rimangono il punto
debole di Jupiter’s Legacy anche nel volume 2 (uscito due mesi dopo il primo:
che senso ha avuto distinguere due “stagioni”?): non che siano “brutti”, ma mi
pare che i vari disegnatori siano stati costretti ad adottare forzatamente quello
stile vintage, e soprattutto anche
stavolta c’è stato un avvicendamento frenetico nel comparto grafico che lascia
intendere una scarsa avvedutezza produttiva, o forse poca serietà da parte dei
disegnatori titolari che hanno abbandonato il progetto per lidi più
remunerativi o hanno demandato la realizzazione finale ai loro collaboratori. Wilfredo
Torres riesce a disegnare da solo tutto il primo numero ma ecco che già dal
secondo gli tocca farsi aiutare dal “solito” Gianfelice e da Rick Burchett; l’arrivo
dell’elegante Chris Sprouse alle matite con numero 3 lascerebbe sperare in una
certa stabilità (oltre che nel prestigio del suo nome) ma non è affatto così:
oltre tre quarti dell’albo sono solo abbozzati da lui e rifiniti da Walden Wong
che fraintende le sue matite e sottolinea esageratamente il mento di tutti i
personaggi! Questo andazzo si protrae per qualche numero e il 5 deve finirlo Ty
Templeton, a conti fatti il disegnatore che mi è piaciuto di più, mentre il
figliol prodigo Wilfredo Torres torna per il finale! Un discreto casino che fa
pensare a una certa improvvisazione da parte della Image Comics (o di chi per
essa) e di cui forse i disegnatori non hanno responsabilità.
Anche le copertine di Bill
Sienkewicz (nel primo arco di sei erano di Quitely) mi sono sembrate a volte un
po’ generiche e poco rappresentative dei contenuti, per quanto belle.
Bruce Timm ha frullato Dick Sprang, Chester Gould e probabilmente Archie Comics per il famoso cartone di Batman scritto da Paul Dini all'inizio degli anni novanta. Estetica anni trenta e quaranta del secolo scorso riletta in chiave post moderna e retro futuristica con un segno che arrivava dopo il pop, per esempio, dei Pander Bros negli anni ottanta. I compianti Darwyn Cooke e Mike Parobeck, ma anche i Ty Templeton e Rick Burchett che citi, a cui aggiungerei Dev Madan e Tim Levins sanno quindi che operano sul corpo di un fumetto che non si può fare + in quel modo, ma lo citano ampiamente innervandolo in storie con mascelloni e vitini di vespa, computers ed auto con il predellino. Un cliche starai pensando. In fondo è una stilizzazione, come quella dei Zanibonis per Diabolik. Io trovo interessante anche la deriva di Andy Suriano ( Brave and the bold in stile cartoon e Samurai Jack ) o le tavole di Toby Cypress per la Killing Girl di Frank Espinosa. Tratto nervoso e libero e folle che rilegge quella estetica pulita che mi pare segua Torres. Come Martoz che cerchi di rifare Roy Crane. Viviamo davvero in un multiverso interessante. Tanta roba là fuori. Ciao ciao
RispondiEliminaGraziano, ma allora di sei ancora!
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