venerdì 19 novembre 2021

Intervista a Miguel Vila

Puoi presentarci il tuo nuovo lavoro, Fiordilatte?


Fiordilatte è la nuova graphic novel che ho fatto quest’anno. Non si tratta del seguito di Padovaland come forse qualcuno avrà pensato. Assomiglia molto a Padovaland perché c’è lo stesso spirito, i personaggi possono ricordare quegli altri perché anche questi hanno i loro difetti, hanno delle caratteristiche simili e ovviamente lo stile è molto simile. Stavolta però ci sono regole un po’ diverse: nell’altro libro abbiamo un racconto corale, un intreccio di trame, qui invece c’è un’unica storia e le vicende ruotano tutte attorno agli stessi tre o quattro personaggi. Quindi stavolta possiamo vedere anche una dimensione intimistica molto più profonda: vediamo diverse fasi e più trasformazioni degli stessi personaggi.

Poi anche la location cambia, si tratta sempre di provincia veneta ma qui ho giocato un po’ con la creazione di un borgo antico veneto, quindi mi sono un po’ inventato questa città quando invece nel primo libro era una città diffusa, una provincia.

 

C’era anche una periferia industriale.

 

Cosa intendi?

 

Ricordo la ragazza che andava alla ricerca di scorsi per la tesi di laurea.

 

Sì, esatto, c’era anche quello, l’aspetto industriale. Però a livello spaziale era una realtà denucleizzata: non aveva un centro, era tutta piena di piccoli centri. Qua invece abbiamo questa periferia un po’ dispersa ma attorno a questa città veneta inventata, in un luogo naturale un po’ romanticizzato che sono questi tipici colli veneti, un ambiente da Prealpi.

Questo in sostanza è Fiordilatte. Ovviamente ci sono le stesse dinamiche un po’ spinte di Padovaland, anche se qui mi sono spinto anche oltre, le scene sono molto più esplicite, molto più grafiche.

 

Padovaland ha avuto un’ottima accoglienza: non hai sentito la pressione della seconda opera? Anche Caparezza ci ha fatto una canzone sopra, e persino Troisi intitolò il suo secondo film Ricomincio da Tre per evitare giudizi troppo pesanti sulla sua seconda opera (anzi, nel suo caso anche sulla prima)…

 

In effetti avevo un po’ di paura perché c’è questa idea che il secondo libro (o qualsiasi altra opera artistica) che fai è sempre rischioso specialmente quando hai avuto un minimo di successo, quindi la gente ti conosce e ha delle aspettative su di te, ha già capito il tuo stile e ti vede già come un autore maturo. E per questo la seconda opera può essere una grande sfida.

Però nello stesso tempo mi sono sentito molto sicuro perché questa storia per come è strutturata poteva evitarmi quel problema: non è una continuazione di Padovaland e ha dei personaggi autonomi e precisi. Questa storia è autonoma, c’era già e sin da subito mi è sembrata molto potente. Insomma, non dovevo ripescare gli stessi personaggi, potevo crearne di nuovi dal nulla e quindi sarebbe diventata una cosa diversa. E quindi queste considerazioni mi hanno garantito un libro completamente nuovo anche se poi l’universo narrativo, se possiamo chiamarlo così, è quasi lo stesso.

Secondo me basta avere un po’ di accorgimenti, riflettere su cosa puoi migliorare rispetto alla tua opera precedente. Chiaramente tu fai un fumetto e ti aspetti di migliorare, nel senso di capire cos’altro potresti fare meglio, quali sono stati i tuoi limiti. E dopo ci vuole ovviamente molta fortuna: io posso impegnarmi un sacco ma poi per qualche motivo il secondo fumetto non piace, il pubblico rimane deluso, quindi alla fine per quanto mi ci sono impegnato è una cosa che sfugge un po’ alla mia possibilità di controllo, è una cosa su cui non puoi influire più di tanto!

 

Prima parlavi delle scene crude presenti anche nel primo volume. Però io avevo notato il tuo particolare stile, le tue inquadrature dall’alto e in assonometria cavaliera come se i personaggi fossero degli insetti sotto lo sguardo di un mirmecologo. È una cosa voluta o semplicemente è il tuo stile che è venuto fuori così? Mi è sembrato quasi che tu volessi cercare un distacco dai personaggi.

Inizialmente quando lavoro a questi fumetti non penso tanto a cosa voglio rappresentare a livello di metafore o del messaggio da dare. Di solito non mi importano queste cose, a me importa raccontare delle storie in cui succedono degli eventi in modo preciso, che siano spinti o leggeri.

Il discorso delle architetture e delle planimetrie è una cosa più formale, mi piaceva raccontare la città in quella maniera: è una cosa che ho imparato guardando Google Maps, è bello vedere il tessuto di una città perché è una prospettiva che di solito non conosciamo, vediamo le città da un punto di vista ridotto, accidentale, e non zenitale come quando prendiamo un aereo e vediamo le città dall’alto. E magari quando siamo in aereo non abbiamo nemmeno la voglia o la possibilità di vedere sotto. È un modo insolito di vedere la città, più nascosto. Ed è bello anche perché capisci tante cose della città nella sua interezza che non cogli normalmente.

E ti parlo proprio di disegni geometrici, di composizione, quindi la morale non c’entra. Anche se mi piace rappresentare questi personaggi visti dall’alto, come insettini, perché togli tutta quell’emotività, quel romanticismo, che potrebbero avere. In pratica depuro quei personaggi dal peso retorico che possono avere, per cui sai in anticipo come devono comportarsi. Così invece i personaggi sono scarnati e come lettore non sai come porti davanti a loro: non ti viene data una guida morale perché alla fine sono individui della vita reale, anche se sono fittizi.

 

A tal proposito, ho notato in Padovaland un grande lavoro fisiognomico, i personaggi sono molto ben caratterizzati graficamente – parlo soprattutto delle figure femminile che solitamente sono molto difficili da personalizzare senza renderle mostruose. Ti sei ispirato a persone reali per caratterizzarli così bene?

 

Certo, ci sono molto studi dietro ma anche inevitabili riferimenti a persone che conosco o che ho incontrato.

 

Per quel che riguarda la tecnica usi il computer?

 

Disegno in bianco e nero in “analogico” e poi coloro con il computer.

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