martedì 4 giugno 2013

Altro fumettista, altro gioco di ruolo

Dopo aver messo online il pezzo sulla collaborazione di Montorio e Bonadimani con la Black-Out per I Signori del Caos mi è tornato in mente un dettaglio in merito a un altro gioco di ruolo.
In effetti ricordavo correttamente: le illustrazioni del manuale base e di un paio di avventure di Uno Sguardo nel Buio erano state affidate nientemeno che a Bryan Talbot. Ignoro se si trattò di una prerogativa italiana (all'apice del successo la E. Elle commissionò cover originali persino a Peter Andrew Jones e a John Howe!), sta di fatto che il risultato era veramente ottimo, i tratteggi e i dettagli di Talbot erano veramente adattissimi a questo gioco di ruolo classico - molto più di quanto non lo fossero per il suo verbosissimo e sopravvalutato Luther Arkwright, dove sottolineavano invece i suoi limiti nello storytelling.
Uno Sguardo nel Buio è un gioco di ruolo di origine tedesca e non credo di commettere un sacrilegio se affermo che a metà anni '80 era più popolare di Dungeons & Dragons e per molti giocatori italiani rappresentò la vera introduzione a questo hobby prima del gioco di Gary Gygax.
All'epoca la casa editrice E. Elle di Trieste aveva una diffusione piuttosto capillare, proponeva prodotti a prezzi concorrenziali (un'avventura costava circa un terzo di un prodotto analogo per D&D, pur con la drastica riduzione di formato che penalizzava soprattutto le mappe) e godeva del traino dei suoi popolarissimi librogames.
Il gioco in sè non era entusiasmante, almeno nella sua prima versione. Si trattava di un clone semplificato ma anche un po' macchinoso di D&D: gli incantesimi andavano imparati a memoria anche dai giocatori, bisognava che nel gruppo ci fosse un cartografo per disegnare le mappe, gli scontri potevano durare molto perchè all'attacco poteva corrispondere una parata, ecc.
Sembra però che le espansioni successive introducessero elementi più interessanti e originali, e soprattutto gli atlanti geografici fossero degni di nota. Praticamente dimenticato in Italia (tranne che dai collezionisti e dagli ebayers più scaltri che ai primi si rivolgono), pare goda di un certo culto e forse ancora di un certo seguito in Germania e, a sorpresa, persino negli Stati Uniti.

3 commenti:

  1. Questa proprio non lo sapevo. E devo dire che si, Talbot ci sta proprio bene. Talbot è un grande. Il suo Luther Arkwright sopravvalutato? Io non ho mai avuto la sensazione che se ne fosse parlato troppo. Tanto meno del suo seguito, Cuore dell'Impero, realizzato parecchi anni dopo.

    Ma io sono di parte. A me, di Talbot, è piaciuto parecchio anche Brainstorm, pensa :)

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    1. Mah, io ero rimasto deluso una volta letto il tanto celebrato primo ciclo di Luther Arkwright ("tanto celebrato" dal suo editore dell'epoca, ça va sans dire, che con qualche cambio di nome e ragione sociale è lo stesso di oggi). Tanto più che veniva considerata come opera seminale da gente come Moore, Gaiman e Morrison! Forse non da tutti e tre, ma almeno un paio di loro sicuramente lo hanno citato in tal senso.
      Quello che mi aveva scioccato era il totale disinteresse per il linguaggio del fumetto, in pratica era poco più di un romanzo illustrato. E' anche vero che per poter dar dignità all'opera non si poteva fare un "vero" fumetto, nell'Inghilterra dell'epoca (cioè il Terzo Mondo del fumetto) sarebbe passato inosservato, e probabilmente anche la serializzazione avrà avuto il suo peso in termini di necessità di sintesi che si può ottenere ricorrendo a un sacco di testo scritto. Però la delusione rimane, e mi fece addirittura interpretare gli splendidi disegni dettagliatissimi simil-incisione come tentativo di sopperire alle loro carenze di base.
      Se non ricordo male all'interno di Luther Arkwright c'erano proprio delle pagine di testo fittissimo corredate da alcuni disegni, che saltai a piè pari.
      Sicuramente la distanza temporale avrà inciso, e per i lettori dell'epoca sarà stato un bello scossone, ma la cosa che apprezzo di più di quel fumetto è la battuta sul fatto che non si possa scoreggiare "before the king", che purtroppo si perde in italiano.
      Molto meglio secondo me "La Storia del Topo Cattivo", ma anche lì Talbot dovette inserire delle tavole in cui c'era del testo scritto accompagnato da illustrazioni.

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    2. Magari questa cosa di abbondare con il testo è una roba proprio sua. Diverse sue opere esplorano quel tipo di percorso. L'unica sua cosa che rispetta alla perfezione il linguaggio, probabilmente è Grandville (anche se è parecchio "chiacchierato" anche quello).

      A parte gli altri due volumi di Grandville, mi piacerebbe leggere anche il suo recente Dotter of Her Father's Eyes, dove si esprime ancora in modo diverso. In vecchiaia sembra essere diventato uno sperimentatore più aperto :)

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