Credo di non aver capito del
tutto questo ultimo (pare definitivamente ultimo) capitolo della saga di Moore
e O’Neill. Cioè, la storia è perfettamente comprensibile e lineare e non ho
colto allusioni al fatto che ci siano chissà quali livelli di lettura. Anche i
vari inserti, a fumetti e no, sono innecessitanti di ulteriori approfondimenti.
E proprio questa linearità è disarmante in un opera del Bardo di Northampton,
che adotta addirittura la classica trovata di chi non sa più che pesci
pigliare, cioè far comparire gli stessi autori nella loro opera. La presenza è
giustificata (beh, insomma) ma rimane comunque un po’ esornativa.
Stavolta Moore se la prende con
gli editori di fumetti che hanno affamato i fumettisti britannici. La
conclusione della storia vede (salvo altre interpretazioni che non sono
riuscito a formulare) l’invasione definitiva della fiction nel mondo reale, cosa che
Moore dipinge come una cosa non necessariamente positiva. Ma d’altra parte il
pessimismo è un po’ una costante de La
Tempesta.
L’oggetto degli omaggi trasfigurati
di quest’ultima miniserie sono i giornalini inglesi, ovviamente appena appena
trasfigurati. Alcuni sono celeberrimi e li conosco pure io (2000 A. D. che diventa 2010 A. D.), ma ovviamente l’impatto maggiore
lo avranno sui lettori albionici. In controluce si legge lo sconforto di Moore
per un ambiente produttivo ingrato e teso al solo profitto. Ed emerge anche qui
l’odio verso James Bond, già ampiamente dimostrato nel Black Dossier.
Kevin O’Neill ovviamente disegna
come disegnerebbe qualsiasi disegnatore che lavori con il mito Alan Moore, cioè
a scartamento ridotto, tanto il fumetto stravenderà comunque. In realtà non è
proprio così, e gli va riconosciuta la dedizione con cui riempie di tratteggi
le sue figure geometriche. Però è un po’ desolante vedere che le tre
protagoniste femminili si riescono a distinguere (e nemmeno sempre) solo dalla
pettinatura o dagli abiti o dal contesto in cui agiscono.
La lettura non è sgradevole,
anche se non riserva poi molte sorprese e alla fine trasmette un senso di
stanchezza, di disincanto e anche di sfiducia verso il mezzo fumetto.
Viene da chiedersi che razza di
fumetti sarebbe stato in grado di creare Moore se fosse nato in un paese
fumettisticamente più civile come Francia o Argentina. Ma forse in quel caso
non ne avrebbe creati proprio, almeno non per reazione alla ripetitività dei
soggetti e alle condizioni umilianti cui erano sottoposti gli autori.
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