Infedele non è proprio il solito fumetto americano. Con la scusa
dell’horror cerca di affrontare il tema del razzismo e della paranoia.
Aisha è una giovane donna
musulmana che frequenta Tom, un cattolico (o quant’altro, non viene
specificato) che ha una figlia dalla precedente relazione e una madre che forse
non tollera molto gli islamici, anche se sta facendo di tutto per avvicinarsi
ad Aisha dopo qualche incomprensione. L’appartamento dove vivono è stato teatro
tempo addietro di un’esplosione accidentale di materiale accumulato da un
inquilino che successivamente si è scoperto aver fatto qualche ricerca su
internet in merito all’ISIS. Il palazzo (costruito in cemento prima della
guerra, per questo ancora in piedi) potrebbe quindi ospitare le anime delle sei
vittime, e forse sono loro che si manifestano ad Aisha, ma non solo a lei,
spingendola a compiere involontariamente un gesto inconsulto che avrà gravi
ripercussioni sulla vita dei suoi familiari e dei suoi amici. O la causa delle
sue allucinazioni sono solo i medicinali di cui fa uso?
Più che un horror è un thriller,
perché l’aspetto sovrannaturale non è poi così preponderante e l’attenzione è
posta maggiormente sulle indagini con qualche colpo di scena. Pichetshote
inserisce vari riferimenti pop forse per sdrammatizzare o calare la storia in
un contesto subito riconoscibile al lettore, ma un po’ stonano. Anche qualche
occasionale frase a effetto mi è risultata un pochino stonata, ma per fortuna
sono pochissime.
Il finale è soddisfacente, ma la
chiave di volta del tutto non è proprio chiarissima, chiamando in causa
contemporaneamente entità cthulhoidi e fantasmi. Ma ovviamente si tratta solo
di una scusa per introdurre un discorso sulla paura del diverso, sul razzismo,
ecc.
I disegni di Aaron Campbell sono piuttosto
buoni, l’uso massiccio di fotografie come base è funzionale anche se
occasionalmente certi dettagli (come i baffetti di un personaggio) sembrano
improvvisati sul momento. L’“inchiostrazione” è un po’ strana, integrata da
puntini granulosi ovviamente digitali che forse vorrebbero fingere di essere tracce
di grafite. Molto meglio lo stile sketchy
con cui ha disegnato qualche flashback. Ma mille volte meglio delle
ipertrofie supereroistiche, comunque. Un po’ meno convincenti i colori di José
Villarubia, professionista di lungo corso che qui ha fatto anche da editor:
sono generalmente piuttosto piatti pur con qualche rara deriva psichedelica per
movimentarli un po’. Ma anche qui, nulla di cui lamentarsi.
Sicuramente avrebbe reso meglio
in un film, e chissà che anche questa come il Lovecraft disegnato da Enrique Breccia non sia una sceneggiatura
cinematografica riciclata. Anche il finale che lascia aperta la possibilità di
un seguito mi fa sostenere questa ipotesi.
Non malaccio come lettura, ma
assolutamente non così irrinunciabile da meritarsi l’esborso di 22 euro.
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