sabato 5 dicembre 2020

Doom Patrol: Mattone su Mattone

Dopo la parziale insoddisfazione nel leggere la nuova versione femminile di Shade ho voluto provare a dare una chance anche alla nuova, ennesima versione della Doom Patrol. Non è andata molto meglio.

Purtroppo non avendo letto tutte le varie incarnazioni del supergruppo di freak sicuramente qualcosa mi sono perso, e la storia non è troppo accessibile per chi non ha un’infarinatura di quella continuity. In ogni caso, la vicenda prende le mosse con Casey Brinke, spericolata guidatrice di un’ambulanza, che come da manuale si trova ad affrontare situazioni sempre più assurde mentre i suoi ricordi d’infanzia sono ancora più assurdi. Non credo di rovinare la sorpresa a nessuno (dalle gerenze leggo che questa Doom Patrol è roba di circa quattro anni fa) se rivelo che l’impalcatura sottostante è che l’ambulanza di Casey altro non è che un’incarnazione di Danny the Street, la strada senziente creata da Morrison (credo…) che adesso è un intero universo in grado di generare i propri stessi abitanti: proprio per questo è ricercato da due gruppi di alieni che lo sfruttano per creare cibo a non finire. E così Danny si rivolge a Casey che altro non è che un personaggio dei fumetti che egli stesso aveva creato a “Dannyland” come ulteriore piacevolezza con cui intrattenere i suoi ospiti. La sua abilità è appunto quella di essere una guidatrice infallibile che può anche muoversi nel tempo.

Nel frattempo Larry Trainor si riunisce a Robotman e riacquista con un compromesso lo spirito negativo. Insieme a Flex Mentallo si uniscono a Casey per finire nel Nuovo Messico dove ritrovano anche Crazy Jane, adesso a capo di una setta che vuole cancellare le identità tramite una bomba. Ma non tutto è come sembra.

Il primo arco narrativo di sei capitoli scorre rapido e anche abbastanza piacevole, pur se ricicla la classica trovata dei doppi negativi. Nel settimo episodio i disegni sono affidati nientemeno che a Michael Allred (tranne che un paio di tavole) e torna Niles Caulder che si offre di guidare questa nuova Doom Patrol – prima Caulder si era solo intravisto in pagine singole estemporanee nei primi sei capitoli. La struttura di Doom Patrol è identica a quella di Shade: dopo un ciclo introduttivo di sei episodi ce n’è uno di transizione affidato a un disegnatore ospite e poi si riparte con un altro ciclo di cinque. In questo caso Gerard Way sviluppa quello che già aveva offerto in precedenza (la bizzarra inquilina di Casey ha sviluppato una sostanza che rende tutto buono e positivo, il gatto di Casey ritorna ma in forma umanoide, il figlio problematico del collega di Casey sviluppa poteri magici, ecc.) ma ci infila dentro un sacco di altra roba, rimandando anche a episodi precedenti di Morrison e di chissà chi altro. Fottuta continuity. E alla fine di un guazzabuglio che non tento nemmeno di riassumere tutto si rivela metanarrativo. Tutto calcolato sin dall’inizio, certo (a partire dal titolo del volume), ma non c’è molta soddisfazione a leggere che quello che si è letto “non è reale” o che comunque non deve necessariamente essere la norma da lì in avanti. E non bastano i molteplici riferimenti ai giochi di ruolo per blandirmi.

Nick Derington sfodera quello stile scarno e asciutto, con qualche morbidezza, che adesso sembra tanto di moda in America. Sarà sicuramente funzionale per i lavori della Tegelmeier o della Jamieson, ma non per quella che alla fine è l’ennesima storia di supereroi. Nel dodicesimo episodio lo stile diventa più corposo e ricco, probabilmente per merito dell’inchiostratore Jeremy Lambert (lavoro svolto in precedenza da Tom Fowler), ma non è che la qualità faccia poi chissà quale balzo in avanti.

Come nel caso di Shade la storia prosegue ancora, o almeno Gerard Way si è lasciato degli spiragli per continuarla. Non che questa Doom Patrol sia proprio brutta, ma tra le tante bizzarrie messe in scena “tanto per” e una struttura abbastanza ragionata ma pur sempre banalmente supereroistica, la cosa che ho apprezzato di più è il materiale che mi ha fornito per i Fumettisti d’Invenzione.

5 commenti:

  1. Vi s'è già detto e ripetuto, più e più volte, che occorre liberare il Cineromanzo d'avventura da tali fastidiosi orpelli! La narrazione sia maschia e diretta, non più ostacolata da uggiosi retrolampi e ponderose riflessioni, ché qua non si fa filosofia, si fa Cineromanzo!
    Una volta per tutte, si sgombri la vignetta dai funesti nuvoletti e nuvoloni che l'opprimono, d'oltreatlantica origine, e s'affidi il discorso a brevi e fulminee didascalie esplicative.
    In questo cielo ritrovato, fiorisca un disegno deciso, dettagliato, scevro da ligneclarismi e altre mollezze d'oltralpe venute.
    Un disegno memore della michelangiolesca tradizione, che valga a mediare i pur lodevoli raimondismi e ogartismi con l'inesorabile asciuttezza ingegneristica d'un Kurt Caesar.
    S'abbandoni, senz'altro, ogni ridolinesca buffoneria, ché le peripezie d'un Guido Ventura non vanno funestate con facezie e bagattelle!
    Si faccia tutto questo e il Cineromanzo d'avventura rinascerà, come un virile cervide d'altura, più bello e più superbo che pria!

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  2. Anni fa in rete pescai un intervento di Brendan McCarthy che sosteneva Danny the Street fosse una idea sua. Anche lo Zenith di Morrison e Yeowell sarebbe derivato dal Paradax del copertinista più astratto di Shade. Danny comunque spiccava anche in un team con una bimba dal volto scimmiesco che rendeva reale e plastico lo shock delle prime mestruazioni, una ragazza che aveva risolto il trauma dei continui abusi seppellendoli sotto 64 personalità diverse ed un personaggio che era la somma alchemica di maschio e femmina.

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