José Muñoz (JM):
Adesso c’è un’altra di quelle cicliche e umilianti manomissioni della
popolazione argentina che ha votato per questo governo: è la prima volta che
votano direttamente per i finanzieri, i bancari e gli speculatori che li
uccideranno. La democrazia è problematica (certo, meglio la democrazia che la
dittatura) perché non tutti sono all’altezza di votare per i propri interessi,
votano per l’interesse del boia. È triste come fenomeno.
LL: Lei il
fumetto lo ha messo in un angolino…
JM: No! Continuo
con il fumetto, è uno dei miei amori principali. Direi che io sono un
disegnatore con tendenze narrative e con
dei problemi artistici… il fumetto è
un campo nel quale io ho tentato di esprimermi, di realizzarmi, di crescere con
altri andando oltre me stesso e il mio egocentrismo.
Approfittare di questa pulsione è stata anche un’occasione per
sublimare le ferite che la Storia ti infligge vivendo. Si è trattato di
sublimare l’ingiustizia e lavorare nella forma, omaggiare le forme attraverso
la denuncia, come con Sampayo abbiamo fatto con le brutture che vedevamo, non soltanto
nel mondo esterno ma anche nel nostro mondo interiore. Una catarsi sublimata in
maniera di poter continuare a respirare. E offrire una consolazione anche
estetica e narrativa a quelli che ci scelgono come partner del loro panorama di
intrattenimento.
LL: Mi viene in
mente Sudor Sudaca, in cui molti
esuli si sarebbero potuti identificare.
JM: Sì, era il
1981/82 quando abbiamo incominciato quel fumetto con Carlitos. Ci siamo sentiti
capaci di affrontare la nostra circostanza reale all’epoca delle Malvine, ci è
scoppiato un desiderio argentinoide di metterci dentro la pelle della nostra
gente, ritornando un po’ alla nostra infanzia. Carlos continua il suo lavoro di
scrittore, continua a raccontare storie che si svolgono alla fine degli anni
’40 e agli inizi degli anni ’50 a Buenos Aires. Quella Buenos Aires che è stata
la nostra infanzia e adolescenza.
In quel particolare momento storico io e Sampayo siamo stati
spinti da questi dolori interni argentini (ma più in generale sudamericani se
vogliamo) a dare il nostro contributo con il nostro mestiere.
LL: Se non
sbaglio lei in un’intervista aveva detto che il suo primo passaggio in Europa,
in Spagna, con Carlos Sampayo fu il periodo più buio della sua esistenza ma che
poi le ha dato la forza di elaborare tutto questo in forma narrativa. [l’intervista
è su Fumetti d’Italia 17 dell’autunno
1995 ma Muñoz si riferiva anche alla cupezza della Spagna all’epoca ancora franchista,
ndr]
JM: Ci
ricolleghiamo a quello che dicevo prima, cercare di realizzarmi come disegnatore
espressivo: esprimere le mie gioie e il mio dolore attraverso il disegno
collegato con il momento della Storia che stavamo vivendo.
In quel momento con Sampayo ci siamo trovati in un momento
di rottura della sua e della mia vita, l’Argentina che si incupiva dietro di
noi, uccidendo i suoi figli. Noi siamo scappati per un pelo, nel senso che non
eravamo attivisti politici ma prima o poi ci avrebbero fatto fuori. È stato
l’ultimo tentativo organizzato delle forze repressive argentine che possiedono
il Paese di eliminare qualsiasi tipo di inquietudine critica. Noi grazie al
fumetto, grazie all’Historieta [termine che in Argentina designa il fumetto, ndr]
ci siamo salvati dalla Historia.
LL: Era lei che
aveva detto che l’Historia vi ha deluso e quindi è meglio l’Historieta?
JM: Esatto,
quello che voglio dire è che fondamentalmente quello che succede nei lavori con
Carlos Sampayo è che arriva a volte una pioggia di angoscia sublimata e
catartica, che esige una sopportazione vitale che non è soltanto
intrattenimento, anche se “intrattenimento” è una parola che si usa male:
l’intrattenimento può essere alto, basso, altissimo, bassissimo. Ossia noi
siamo stati un altro tipo di intrattenitori sublimando le angosce della Storia,
le nostre paure, le nostre miserie, pur senza esagerare: non siamo stati autobiografici,
il nostro linguaggio si è sviluppato a partire anche dal contributo degli
autori underground nordamericani e
tutto lo straordinario apporto che hanno dato.
Noi della scuola di Buenos Aires, io come autore della
scuola di Buenos Aires e Carlos come mio scrittore e compagno d’avventure, ci
siamo piazzati come uno dei frutti della scuola di pensiero e di spessore
narrativo a cui io ho avuto la fortuna di partecipare negli ultimi momenti,
quando nell’imbrunire sono arrivato io con il mio pennellino e ho visto Pratt che
se ne tornava in Europa, Breccia che si rifugiava nel silenzio… però noi siamo riusciti
a essere formati da quelle Eccellenze.
LL: Alla Escuela
Panamericana de Arte lei era brecciano? [nella scuola la differenza principale
era tra chi seguiva lo stile di Pratt e chi quello di Alberto Breccia, ndr]
JM: Sono stato
allievo di Breccia, ma io ero prattiano, ero un prattiano sfrenato. Però
Breccia mi piaceva perché ci sono piaceri nascosti nel nostro mestiere, per
esempio l’inchiostratura per me è uno dei piaceri supremi. Io vedevo questa
energia che montava nel lavoro di Breccia, le cose che faceva con l’inchiostratura,
i lavori con le lamette, con tutto quello che trovava: lui intingeva qualsiasi
cosa nella china e la metteva sulla pagina.
LL: C’è il famoso
episodio della ruota di bicicletta.
JM: Tutto quello
che c’era in giro! Però io ero prattiano. Quando ho avuto, come adesso con Miraggi di Memoria, l’opportunità di
avvicinare le mie linee in omaggio ai disegni del Maestro ho provato un estremo
piacere, perché è un’occasione per ringraziare attraverso il mio disegno le
finestre verso la meraviglia che il disegno di Pratt mi ha procurato.