Preso per i fumettisti d’invenzione,
questo fumetto fa parte del genere (perché ormai è un genere vero e proprio) in
cui gli autori raccontano le loro esperienze come professionisti: la falsariga
è quella di Emotional World Tour,
visto che molto spazio è dedicato alle fiere e alle presentazioni, ma lo
spirito è quello dell’“Uomo in Pigiama” Paco Roca perché il tutto è trattato in
maniera umoristica.
Articolato come un diario, prende
le mosse dal 1982 quando Adrian Tomine, bambino spaesato in una nuova scuola di
Fresno, spiega il suo amore per i comics e la sua aspirazione a diventare un
fumettista, guadagnandosi il ruolo di bersaglio dei nuovi compagni di classe.
Tredici anni dopo Tomine vola a San Diego, ormai autore affermato o convinto di
esserlo. E da qui in poi vengono raccontati gli episodi più strani, umilianti e
assurdi che il protagonista ha vissuto in oltre vent’anni di carriera. È
evidente che è spiacevole, e a volte anche traumatico, essere scambiato per un
tecnico informatico da un altro disegnatore, venire accusato di aver tradito il
primo editore, scoprire i mezzucci con cui il gestore di una fumetteria (bontà
sua) raccatta dei “fan” per una presentazione altrimenti deserta, avere a che
fare con quello stronzo di Frank Miller ed essere messo in ombra da Neil
Gaiman, ma Tomine racconta questi episodi con grande autoironia e spesso li
collega fra di loro creando una certa continuity.
È lui insomma il primo a riderci sopra, come testimoniato anche dalla gag
ricorrente del cognome storpiato, o meglio impronunciabile ai più.
Ne La Solitudine del Fumettista Errante confluiscono anche alcune
vicende personali dell’autore, e l’ultimo capitolo ambientato nel 2018 è molto
lungo e drammatico: Tomine, che si ritrae sempre come insicuro e paranoico (per
fortuna ha la moglie a fargli da maturo contrappeso), finisce al pronto
soccorso per dei sintomi che potrebbero essere gli stessi della patologia
cardiologica che ha portato alla tomba suo padre. In queste 33 tavole non
mancano momenti divertenti e i soliti spunti autoironici (fino al beffardo
finale) ma l’angoscia è tangibile.
Si tratta insomma di un fumetto
molto divertente in cui Tomine conferma dopo Morire in Piedi
la sua totale padronanza del mezzo e la perfetta capacità nel gestire i tempi
comici. Graficamente è molto piacevole nonostante l’intenzione di spacciarlo
per un diario schizzato in fretta: ovviamente altre opere di Tomine sono più
curate, ma la sua maestria emerge anche dai pochi segni con cui disegna un viso
e dai tratteggi solo apparentemente confusi con cui riempie le vignette. I suoi
personaggi, poi, sono sempre molto espressivi.
Il volume ha però un difetto
alquanto fastidioso: è confezionato sin dalla copertina e dai risvolti come un
quaderno a quadretti (in modo da creare una mise
en abîme metanarrativa con l’ultima tavola) e i quadretti ci sono davvero. Per quanto siano quelli classici
azzurrini, tendono un po’ a confondere i disegni, che per loro natura in questo
progetto sono volutamente poco marcati. Quando poi il bordo di una vignetta si
trova accanto a una colonna di quadretti l’effetto è un po’ simile a quello “ipnotico”
dei vecchi retini messi senza criterio, fenomeno ancora più evidente quando in
una vignetta ci sono dei tratteggi. Peccato.
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