giovedì 16 novembre 2023

Il colore delle cose

Simon Hope è un adolescente sovrappeso e un po’ grullo. Vive nei sobborghi di una città inglese, sua madre confeziona torte e suo padre è un poco di buono dedito alle corse di cavalli. Viene vessato da un trio di bulletti che lo coinvolgono in un loro velleitario tentativo di trovarsi un lavoretto onesto. Ottenuti come ricompensa per la consegna della spesa i pronostici dei cavalli vincenti da una cartomante, decide di giocarseli forzando la scatola dove sono custoditi i risparmi di famiglia. È impossibile che il brocco che ha scelto come vincente arrivi primo, e d’altra parte essendo minorenne non potrebbe nemmeno giocare d’azzardo, ma alla fine un impiegato connivente lo fa giocare lo stesso. E così Simon vince sedici milioni di sterline. Per riscuoterle, però, serve la firma di un maggiorenne. Poco male: chiederà a sua madre di validargli la ricevuta. Solo che la sventurata è stata ridotta in fin di vita dal marito, che la ritiene responsabile del furto delle riserve di famiglia. Simon passa inutilmente giornate dopo giornate nell’ospedale dove la mamma vegeta in coma (incontrando una varia umanità) finché viene preso sotto l’ala protettrice di Alan, un amico di famiglia che gli somiglia in maniera sospetta. Insieme ad Alan (detective privato o presunto tale) parte alla ricerca del padre. Quando il giornalaccio scandalistico The Sun pubblica la foto di Simon spifferando la sua vincita le cose si complicano. Ancora di più quando Alan rivela chi è veramente.

Il colore delle cose è una storia avvincente e divertente, pervasa da una sottile ironia e raccontata con un’inventiva che mi ha ricordato vagamente Terry Pratchett. Il problema è che si tratterebbe di un “fumetto” ma le tavole consistono quasi esclusivamente di planimetrie viste dall’alto e i personaggi sono pallini colorati. Sulle prime il gioco suscita un po’ di curiosità, dopo 224 pagine inevitabilmente stufa. Se il lettore è libero di immaginarsi i personaggi come meglio crede, non sempre è facile seguire il filo di chi dice cosa e le possibilità offerte dall’anonimato grafico dei personaggi non sono giocate bene come invece fece Shane Simmons in Longshot Comics. Ci sono poi altri elementi che a me sono sembrati dei piccoli difetti, ma che magari per altri lettori non sono rilevanti: il Macguffin della pistola non mi pare molto realistico, verso la fine c’è un’accelerazione che fa sembrare che persino Panchaud volesse finire il prima possibile, il finale drammatico non è univocamente interpretabile: vuole aggiungere una punta di amarezza o rappresenta una liberazione? Comunque lo scoglio più grande rimangono i disegni, che in Francia hanno sollevato anche qualche polemica: Martin Panchaud ha infatti vinto il Grand Prix di Angoulême che è sempre stato interdetto agli sceneggiatori con la giustificazione che non sanno disegnare. Solo che nemmeno lui tecnicamente sa farlo, perché ha realizzato tutto col computer (i dettagli qui). Ma davanti a un venduto di 50.000 copie non si può rimanere indifferenti.

Al di là di queste considerazioni teoriche, si nota comunque come l’aspetto grafico sia poco o nulla influente sulla narrazione (risse e inseguimenti vanno comunque “decrittati”) e Il colore delle cose potrebbe benissimo essere letto come un testo teatrale. Come Longshot Comics, insomma, solo che Simmons seppe usare astutamente la grammatica minima del fumetto.

I prossimi anni ci diranno se rimarrà una bizzarria o aprirà le porte a un nuovo modo di fare letteratura disegnata (ché chiamarlo fumetto mi sembra un po’ arrischiato).

2 commenti:

  1. Non ha vinto il Grand Prix, che è un premio alla carriera (e, con l’eccezione di Jacques Lob, è sempre stato effettivamente assegnato a disegnatori), ma il Fauve d'Or, che è un premio all'albo.

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    1. Forse su CaseMate facevano un discorso generale. Il concetto non cambia, magari correggo su Fucine Mute.

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