Stavolta mi sembra che il gioco di Marco Cannavò non sia più quello di reinterpretare il testo di partenza avanzando delle considerazioni illuminanti sull’epoca della sua realizzazione e quindi sulla temperie culturale del periodo, quanto quello di prestare maggiore fedeltà possibile al testo. Che però non ho letto e quindi non so quanto questa mia impressione sia corretta – il ricco saggio finale di Marco Grasso lascia comunque intendere che abbia introdotto qualche elemento esterno, come la mummia di Ruysch (che esiste veramente ma forse non c’era nel libro della Shelley).
Victor Frankenstein è dedito alla scienza quanto all’esoterismo e unendo i saperi di Paracelso e Galvani riesce a donare la vita a un costrutto formato da tre cadaveri di criminali. Oltre che di dubbia provenienza, il materiale di partenza è di ancor più dubbia moralità: il fatto che il cervello del novello Prometeo sia quello di un assassino ossessionato dall’attrice Karolina Niuber (che uccise) fa di lui un soggetto alquanto pericoloso. Ma le amorevoli cure di Elizabeth, fidanzata di Frankenstein opportunamente istruita da lui in tal senso, ne fanno se non un vero damerino comunque una personcina rispettabile. Se non fosse per il suo aspetto che allontana i suoi simili e provoca sdegno e derisione nei professori a cui viene mostrato come risultato degli esperimenti del “mad doctor”.
Un certo peso viene dato al background di Frankenstein, rampollo viziato e monomaniaco di un ricco banchiere che dispone delle strumentazioni dell’università a suo piacimento e non esita a ricattare il rettore pur di raggiungere i suoi scopi – ignoro se le inclinazioni sessuali alla base del ricatto fossero o meno presenti nel testo originale. Non escludo che proprio l’interpretazione psicanalitica del romanzo sia quella privilegiata da Cannavò, con Victor che si costruisce un “figlio” per dimostrare al padre di essere in grado di allevarlo meglio di come ha fatto con lui, che è venuto fuori alquanto stronzo. Ma forse mi sono solo lasciato trasportare dal titolo.
La storia si svolge nell’arco di oltre vent’anni, tra flashforward e arditi salti temporali, con la cronaca degli incontri più rilevanti tra lo scienziato e la sua creatura. La fedeltà al romanzo, sempre che effettivamente ci sia stata (ripeto che non l’ho letto), offre delle sorprese al lettore abituato alle versioni cinematografiche che ne hanno adattato e tradito l’essenza: qui il mostro è una creatura sensibile e anche molto agile e scaltra, inoltre il finale presenta una sorpresa inaspettata che mi guardo bene dal rivelare.
I disegni di Corrado Roi sono al solito fantastici, l’unico appunto che gli si può muovere è la scelta (se di scelta consapevole si è trattato) di non far invecchiare Victor Frankenstein nonostante tutti gli anni passati dall’inizio degli esperimenti fino all’epilogo nell’Europa del nord.
In appendice è presente un ricco approfondimento a cura di Marco Grasso, che abbracciando sia la storia del romanzo che dei suoi adattamenti si concede delle considerazioni sociologiche forse eccessivamente accalorate.
Il formato non è quello classico dei libri de Lo Scarabeo, cioè un quadrotto di grandi dimensioni, ma un più canonico 24x32. La stampa è ottima, e infatti nella prima vignetta di pagina 31 si vedono ancora le tracce delle matite di un quadro alla parete che Roi non ha inchiostrato, ma che farà regolarmente capolino nelle pagine successive.
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