Il Meglio
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Padovaland. Una rivelazione.
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Historica 87: Mezek. Yann e Juillard al top.
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(questo numero non mi è ancora arrivato) |
Il Peggio
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Meglio o Peggio?
Buon 2021!
Il Meglio
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Padovaland. Una rivelazione.
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Historica 87: Mezek. Yann e Juillard al top.
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(questo numero non mi è ancora arrivato) |
Il Peggio
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Meglio o Peggio?
Buon 2021!
Nel 1979 la piccola Alice riceve in eredità una bellissima e apparentemente antica casa di bambole, uno di quei giocattoli diffusi nel mondo anglosassone in cui vengono ricreate in piccolo delle abitazioni signorili molto dettagliate. Il padre di Alice è un uomo manesco e dedito all’alcol ma grazie a una formula magica la bambina può andare a rifugiarsi nella casa giocattolo, dove i pupazzi prendono vita e giocano con lei. E dove si trova anche la Stanza Nera, un luogo tramite cui la casa stessa parla con i suoi abitanti “suggerendo” loro cosa fare una volta tornati al mondo reale. Siccome il consiglio prontamente accolto è quello di ammazzare suo padre, colpa che ricadrà sulla madre, Alice passerà i primi anni della sua vita in giro per case famiglie e istituzioni simili.
Nel mentre, o meglio 150 anni prima, Joseph Kent esplora in Irlanda una caverna sconosciuta, rinvenendo una creatura colossale e cedendo alla lussuria con una ragazza che si trova nella stessa caverna. La narrazione procede parallela e mentre Joseph ha miracolosamente un figlio dalla moglie ufficialmente sterile (che muore nel parto) Alice cresce, diventa una veterinaria e ha anche lei una bambina, nata dopo un “incidente” con un preservativo. Nemmeno la pillola del giorno dopo funziona: a quanto pare deve per forza nascere una nuova creatura, proprio com’era accaduto con Joseph… La casa delle bambole ricompare poco prima che Alice e sua figlia Una rimangano mutilate in un attentato, e alla fine la protagonista si decide a farla finita con quell’entità che vuole manipolarle per i suoi scopi.
Pur nascendo negli Stati Uniti The Dollhouse Family non è certo la classica storia di supereroi (si vedono persino delle donne nude! Inconcepibile!) però ricorre comunque agli stereotipi del genere: i cliffhanger, alcune battutine cool, la preparazione per lo scontro finale, la creazione di una nemesi, addirittura la retcon… Il suo intento di essere qualcosa di diverso da un fumetto mainstream è quindi riuscito solo in parte, inoltre il ritmo è sin troppo sincopato con sequenze molto lunghe frammiste ad altre che avrebbero meritato un minimo di approfondimento (Jake accetta la sua paternità senza colpo ferire, per limitarsi a un esempio). Carey ha messo un po’ troppa carne sul fuoco e tra riferimenti alla tradizione gaelica e ai gruppi suprematisti bianchi avrebbe sicuramente tratto beneficio da qualche capitolo in più oltre ai sei di cui è composto questo fumetto. Come anticipato, la spiegazione del mistero è pseudoscientifica o meglio pseudorazionale. Ma anche il ricorso alla fantascienza per spiegare il nucleo della storia non copre del tutto certi buchi logici. Più che altro, il lavoro di Carey è apprezzabile per aver architettato una storia in cui tout se tient, spargendo indizi nel corso di tutti e sei gli episodi.
I disegni sono opera di Peter Gross con “rifiniture” di Vince Locke. Non è che queste ultime abbelliscano più di tanto il comparto grafico, che è piuttosto abbozzato e che l’accumulo di segni e segnetti rende a volte ancora più confuso. Qualche volta si fa fatica a distinguere un personaggio da un altro, e se le pupille non sono uniformemente nere ma solo tratteggiate gli sguardi diventano assenti e i personaggi inespressivi. Ogni tanto affiora anche qualche sproporzione anatomica. Le sequenze nella Stanza Nera sono invece molto efficaci, perché il tratteggio ricorda quasi delle incisioni; ma purtroppo queste sequenze sono pochissime.
Non si può certo dire che The Dollhouse Family sia un brutto fumetto, ma la cosa che ho apprezzato di più sono le suggestive copertine fotografiche di Jessica Dalva.
Stavolta ad accompagnare Benéteau, che si occupa dei dettagli tecnici e nello scorso numero anche delle figure umane, c’è Vincent Dutreuil. Non so come si siano divisi il lavoro, ma effettivamente la parte grafica è un po’ inferiore rispetto agli episodi precedenti. Sfogliando il volume non si nota, però certi dettagli anatomici non sono proprio correttissimi (alcuni mani e piedi sono talmente brutti che sembrano disegnati da Jack Kirby) ma questi rari difetti sono tutti concentrati nelle prime pagine. C’è però anche qualche problema per così dire “logico”, ovvero Michel lamenta inizialmente di non essere in forma ma il suo fisico non viene disegnato in maniera diversa prima e dopo gli allenamenti, così come le fattezze di alcuni personaggi, e dello stesso protagonista, non sempre sono uguali di vignetta in vignetta. Un tratto così netto e sintetico, senza tratteggi e sfumature, sarà poi sicuramente elegante e funzionale alla narrazione, ma impostando la griglia delle tavole su tre strisce le vignette a volte risultano un po’ vuote, anche se il buon lavoro del colorista Bruno Tatti le rende comunque esteticamente valide. Il tempo di prendere maggiore confidenza con formato e personaggio e non dubito che i due disegnatori sapranno ottenere risultati migliori, e comunque nel complesso la parte grafica di 13 Giorni non è male.
Ma qualcuno (o qualcosa) è riuscito a localizzare il posto e a superarne le difese e ha ammazzato i vari ospiti che si trovavano lì in quel momento. Chiaramente a farne le spese sono le mezze calzette dell’universo DC, quelli la cui mancanza non pone problemi di continuity o rimpianto nei fan. Alcuni non so nemmeno se esistono veramente o se sono stati creati appositamente per questa miniserie. La succitata trinità (Superman, Batman e Wonder Woman) indaga per arrivare al bandolo della matassa ma nel frattempo anche Booster Gold e Harley Quinn, aiutati poi da Batgirl e Blue Beetle, indagano perché devono scagionarsi dalle rispettive accuse di questo genocidio.
Nel mentre la notizia dell’esistenza di questo Santuario è stata diffusa mettendo a repentaglio la credibilità degli eroi, che si vorrebbero sempre sicuri di sé e privi di debolezze.
Ovviamente l’elemento investigativo della storia la fa seguire con interesse, per il resto Tom King scrive con brio senza esagerare con le battute cool (anche se qualcuna c’è) e caratterizzando molto in profondità i personaggi senza farli blaterare troppo. Queste qualità vengono in parte vanificate dai molti riferimenti a situazioni precedenti che non conosco e che, pur non essendo indispensabili per apprezzare la trama portante, hanno una certa influenza su di essa. A inframmezzare il flusso della narrazione ci sono tavole con gli eroi al “confessionale”, secondo un canone abbastanza comune usato anche in un film per ragazzi sulla Justice League che intravidi anni fa. Anche la soluzione del mistero, per quando accessibile anche così, richiede un minimo di conoscenza dell’universo DC che io non ho. Anche per questo non l’ho apprezzata molto, oltre che per tutti i problemi di sospensione dell’incredulità che comporta. Come non è molto apprezzabile la fastidiosa Harley Quinn, solo un po’ meno ridicola e irritante della sua controparte maschile Joker.
Sicuramente molto buoni i disegni di Clay Mann, che però non va oltre le matite e si vede. Purtroppo non è riuscito a fare tutto il lavoro da solo ed è stato occasionalmente (anzi, assai spesso) aiutato da disegnatori dignitosi, se non molto bravi a loro volta, ma non altrettanto spettacolari: Lee Weeks, Travis Moore, Mitch Gerads e Jorge Fornes.
Boh, poteva essere un fumetto interessante, e in parte lo è, ma per i miei gusti è troppo compiaciuto del suo rimestare nella mitologia DC Comics.
La copertina che ho preso io |
Un concilio di tribù indiane vaticina un’imminente catastrofe, il cui arrivo si riverbera sui mondi dei due protagonisti. Flash lotta contro i… «rogue» (ha veramente un gruppo di supernemici che si chiama così? Che fantasia…) quando viene raggiunto dalla visione del ragazzino in fuga che ha annunciato la catastrofe, mentre Zagor indaga su un villaggio abbandonato da cui escono i suoi vecchi nemici, alcuni dei quali ufficialmente morti. Anche a lui compare la visione del ragazzino e quando la tocca gli universi si incontrano per un momento.
Tutto qui, anche perché La Scure e il Fulmine è solo l’incipit del “vero” cross-over tra Flash e Zagor che uscirà prossimamente. Queste 20 pagine sono state però calibrate in modo da essere fruibili autonomamente fornendo l’introduzione alla storia e presentando abbastanza in profondità i due protagonisti e i rispettivi universi narrativi. Coniugando i registri narrativi della scuola supereroistica e di quella bonelliana la storia offre un sacco di azione e anche qualche azzeccata battuta fornita da Cico.
I disegni di Davide Gianfelice sono in tono con l’allegro parossismo della vicenda, tanto dinamici che qualche rara volta certi dettagli sono poco più che schizzati. Le copertine di Carmine Di Giandomenico sono ancora più ipertrofiche. La griglia delle tavole è molto libera, i colori sono realizzati da Luca Saponti con la supervisione di Emiliano Mammucari. La qualità della carta, non patinata, toglie però lucentezza e nitidezza all’insieme.
L’albetto è brossurato e a vederne la costola sembrava che fosse anche abbastanza corposo (ulteriore vantaggio, oltre al risparmio, della carta usata!) ma in realtà quasi metà delle sue 32 pagine sono occupate da redazionali curati, almeno in parte, dagli sceneggiatori Giovanni Masi e Mauro Uzzeo che cercano freneticamente similitudini e punti di contatto tra i due personaggi per giustificare il loro incontro (senza che ce ne sia assolutamente bisogno) riuscendo alla fine a trovare delle affinità convincenti nelle biografie “civili” dei due eroi di carta.
Non so quali siano i progetti a lungo termine della Bonelli, ma dubito che negli Stati Uniti sia tanto facile pubblicare un fumetto con un personaggio che si chiama Iron-man (un nemico di Zagor) se non si è la Marvel, così come Cico potrebbe far sollevare polemiche per la sua raffigurazione parodistica dei messicani. Per fortuna in Italia non abbiamo di questi problemi.
Questo numero si segnala anche per la nuova gestione affidata a Roy, che però non porta a nessuna modifica sostanziale dei contenuti.
Si comincia con The Last Diner On Earth: parrebbe una parodia di supereroi con il campione russo che combatte senza fine contro quello americano, in realtà i protagonisti sono un macellaio e il cuoco di hamburger che si serve della sua materia prima, che si divertono ad ammirare lo scontro scommettendoci sopra. La trama imbastita da Raffaello De Rosa è simpatica e divertente, non senza un po’ d’azione ben orchestrata. Il twist ending è azzeccato anche se prevedibile (e poi l’hanno sbattuto il quarta di copertina!). I disegni di Angelo Cannata sono inizialmente dignitosi ma peggiorano in corso d’opera, forse per la necessità di consegnare le tavole in tempo.
Torna Officina Infernale con Fortress 2, sempre ispirato ad Alan D. Altieri. Stavolta sono di scena delle mutazioni create a partire da proprietà intellettuali famose, Topolino in testa! Piacevolmente delirante, la storia è “disegnata” usando collage e manipolazione digitale: il risultato mi sembra più efficace di quanto visto sul numero 1.
Fox Season ha un’ambientazione originale: una Scozia contaminata in cui il giovane e mollaccione Rupert viene introdotto dal nobile padre alla rituale caccia alla volpe, adattata alle esigenze di questo mondo post-apocalittico. La storia di Mauro Di Stefano è simpatica e ben architettata (ricorrendo sapientemente ai dettagli delle vignette piuttosto che all’infodump) ma i disegni di Davide Coi, per quanto promettenti, sono ancora molto acerbi.
Sempre meglio, però, di quelli di Federico Galeotti che disegna l’ultima storia, Hibakusha, su testi di Barbara Giorgi. Anche se l’infantilismo di questi schizzi fosse voluto, non è affatto adatto per questa storia in cui anche l’azione svolge un ruolo importante. In un Giappone distopico controllato dagli Stati Uniti il samurai mascherato (o quello che è) Igarashi Masao, sopravvissuto a Hiroshima, si mette al servizio dell’Imperatore Hirohito per liberare una risaia da un mostro: in cambio gli verrà rivelato dove si trova la sua amata Shigeko, figlia di Hirohito. Il combattimento centrale non è il vero perno della storia, ma comunque disegnato così non ci si capisce niente.
Graficamente questo numero è nel complesso il meno riuscito ma le storie si mantengono sempre su un livello soddisfacente.
La navicella rinvenuta grazie all’intervento dell’Onda Septimus non era la sola mandata in avanscoperta sulla terra. Delle sette inviate, un’altra ospitava ancora un sopravvissuto, che è stato prontamente catturato e viene studiato dal Professor Scaramian, che in precedenza aveva dato del filo da torcere ai protagonisti ma adesso chiede l’aiuto di Mortimer. L’alieno ostile, il Moloch del titolo, riesce a fuggire grazie alla sua abilità di “abitare” i corpi umani e Londra comincia a riempirsi di geroglifici che altro non sono che le istruzioni che Moloch impartisce alla nave ammiraglia degli invasori alieni affinché comincino ad attaccare la Terra.
Nel mentre Olrik è stato parzialmente liberato dallo stato catatonico in cui versava a causa dell’Onda Mega (grazie alla formula del Faraone Abdel Razek!) e Blake indaga sul caso parallelo della scomparsa di Lady Rowana, che ovviamente si ricollegherà alla vicenda di Mortimer. Questa si conclude con la prevedibile sconfitta dei cattivi grazie al meno prevedibile intervento risolutivo di Olrik.
L’Urlo del Moloch non partirà da una base originale (quanti altri alieni o uomini del futuro hanno già sfilato nella saga?) e Dufaux infarcisce la storia di technobabble, ma è un fumetto avvincente che si legge con interesse e non mancano sequenze molto suggestive. Inoltre la spacconeria tipica dello sceneggiatore si traduce in dialoghi briosi e divertiti – anche le didascalie seguono questo andazzo interpellando ogni tanto il lettore. Certo, bisogna stare al gioco (quanti poteri ha quel benedetto Moloch? E come fa, gigantesco, a nascondersi in corpi più piccoli del suo? E poi basta che non metta la sua firma agli ordini per fermare lo sterminio?!?!) ma il gioco vale la candela. Oltretutto finalmente viene data piena dignità a quello che secondo me è il vero protagonista della saga, cioè Olrik. Lo sconfiggono, lo picchiano, gli fanno il lavaggio del cervello, lo usano come cavia ma lui non si arrende mai e torna sempre. Ci sono anche un omaggio a Edgar Pierre Jacobs e camei di Winston Churchill e della giovane Regina Elisabetta, per chi ama queste cose.
Quello che invece non mi ha convinto (non del tutto, almeno) sono i disegni. Se non erro Schréder era quello che era subentrato ad Aubin nell’altro volume di Dufaux facendolo deragliare. Qui è stato coadiuvato da Christian Cailleaux e il risultato non è così sciatto come nell’altro caso, ma comunque la qualità non mi è sembrata paragonabile a quella degli altri disegnatori moderni della saga. È proprio vero che la Ligne Claire non perdona: basta sforare di un millimetro o poco più un mento o una fronte perché il disegno non stia più in piedi come avrebbe dovuto. Un ruolo fondamentale in questo volume lo rivestono i colori visto che i geroglifici non sono contornati. La colorista Laurence Croix ha però scambiato la Corsica e la Sardegna per delle nuvole nella panoramica spaziale di pagina 39!
La seconda parte, terzo volume originale francese, si concentra ancora a lungo (metà episodio) sulla Notte di San Bartolomeo, che probabilmente è uno di quegli argomenti come Napoleone o la Comune che coi Francesi funzionano sempre – non a caso veniva ricordata anche ne Le Sette Vite dello Sparviero che è ambientato anni dopo. La corsa verso l’inevitabile massacro è ben orchestrata, con la tensione che viene fatta sapientemente crescere grazie al confronto tra Caterina e i suoi consiglieri, mentre gli sceneggiatori danno anche conto delle varie possibili interpretazioni dell’evento e delle personalità che potrebbero averlo fatto deflagrare. È probabile che il loro intento sia anche quello di scagionare la protagonista dalle accuse di aver progettato ella stessa il massacro come hanno sostenuto alcuni storici.
Dopo questa prima metà molto avvincente e ben architettata la narrazione subisce un brusco rallentamento: torniamo al “presente” (fino a prima la storia era narrata da Caterina anziana) quando la regina ormai quasi in fin di vita mangia con la servitù riassumendo frettolosamente il resto del suo regno. Delalande e la Mogavino sono stati sicuramente efficaci nel riallacciare certi fili risalenti addirittura all’infanzia della protagonista, ma inevitabilmente lo spazio ridotto ha costretto a sfiorare appena certi argomenti e a far entrare in scena alcuni personaggi (in particolare il principe Francesco) come se uscissero dal nulla. Le frequenti scene in cui i personaggi delirano sopraffatti dalla loro coscienza sono un po’ esagerate ma tutto sommato funzionano bene. Nel complesso Caterina de’ Medici è un buon fumetto, decisamente migliore dell’altra prova degli stessi autori.
Sfogliando il volume mi era sembrato che Gomez fosse sceso a più miti consigli e avesse diminuito i dettagli maniacali con cui ha riempito le sue tavole. In parte è vero, ma ci sono ancora delle vignette in cui bisogna usare una lente d’ingrandimento per cogliere tutti i dettagli, e che “stonano” col resto perché evidentemente realizzati a parte col computer e inseriti successivamente dentro tavole impostate su un’altra scala. Tutti questi dettagli, poi, servono fino a un certo punto visto che il punto forte di Gomez è la grandissima espressività dei suoi personaggi. C’è un avvicendamento ai colori: l’ultimo episodio è stato colorato da Salvo e non più da José Luis Rio, anche se non ho avvertito alcuna differenza rilevante. Di sicuro i disegni di Carlos Gomez si gustano di più in bianco e nero e con un formato più grande, come confermano i dietro le quinte sul suo lavoro posti in appendice.
Nelle ultime pagine del volume c’è anche un’intervista alla Mogavino, da cui si evince che in Francia gode di grande stima e ha mietuto premi su premi.
Il soggetto di partenza è decisamente banale, non tanto per la pletora di altre opere che usano delle figure simili quanto per la ricca casistica che ci ha offerto la cronaca. A rendere questo episodio interessante è l’umorismo che vi viene profuso.
Ai disegni Alessandra Superina fa un lavoro dignitoso (tranne quando deve disegnare un aereo!) ma in linea di massima le preferisco Roberto Serafini. Per fortuna lo stile un po’ freddo e stilizzato con cui disegna le prime tavole diventa poi leggermente caricaturale: ottima cosa in questo contesto visto che così i personaggi sono molto espressivi e le scene più buffe ne traggono beneficio. Un fumetto leggero e piacevole, anche se in sottotraccia emerge paradossalmente un vago moralismo: Federica è affamata di sesso ma rifiuta sdegnata la cocaina.
Bella la copertina di Elena “Selenike” Nastasi anche se il capezzolo destro è un po’ strano.
Classici Audacia e Albi Ardimento erano brossurati da edicola, oltretutto con tagli e rimontaggi per far stare la pubblicità, e testimoni dell’epoca mi dicono che costavano parecchio per quelle che erano le abitudini di spesa degli italiani in fatto di fumetti. La Mondadori tentò con Blueberry e altri personaggi la strada del cartonato di prestigio, così come Gandus e Vallecchi, ma non dovette incontrare molti favori. Ci fu poi la stagione delle collane da edicola come quelle della Nuova Frontiera, della Glénat Italia e della Comic Art, ma quest’ultima si concentrò poi solo sulla versione parallela da libreria.
Dopo la stagione felice degli Euramaster le proposte più recenti dell’Aurea sembrano entrate in clandestinità e anche se AureaComix e Gli Integrali BD continuano a uscire non sono facili da trovare (ma anni prima l’analogo XIII della Panini resistette solo qualche mese in edicola per poi ripiegare in fumetteria a prezzo maggiorato). Nel mentre Alessandro Editore e qualche altro eroe hanno continuato a pubblicare prodotti a volte addirittura più belli dei volumi originali, ma a prezzi proporzionati e diffusione talvolta carbonara.
Historica e la pioggia di allegati da edicola di questi ultimi anni, per quanto apprezzabilissimi, fanno testo fino a un certo punto perché realizzati da gruppi editoriali mastodontici che non si occupano specificatamente di fumetti. E comunque di allegati non ne escono più e con Historica è andata come è andata. In tempi più recenti, dopo qualche prova con degli integrali nel formato standard 17x24 (o addirittura nell’incongruo 17x26 dei comic book!), sembravano essersi affermate due nuovi tipologie (i bei brossuratoni di Iznogoud non hanno evidentemente attecchito): più episodi raccolti in un dignitoso brossurato 19x26 oppure imprigionati nel 16x21 bonelliano. Ma anche questi due si stanno forse estinguendo. Fondamentalmente, sembra che agli italiani non piaccia spendere, almeno non per questi prodotti, con buona pace del rispetto delle dimensioni e dei materiali originali. E così la Panini ha ripiegato su un ennesimo nuovo formato che accontenti i veri appassionati, gli unici che evidentemente comprano ancora BéDé in Italia: un integralone cartonato con un bel po’ di volumi originali all’interno. Dopo un giro di prova con l’ennesima ristampa di Thorgal, tocca al buon Jodorowsky testare il formato.
Il materiale di partenza è
sicuramente suggestivo e le trame sono appassionanti e originali (XVII/Asiamar
agisce spesso di sua iniziativa con delle trovate inaspettate) ma chi già
conosce Jodorowsky avvertirà inevitabilmente una continua sensazione di déjà vu. Torna per l’ennesima volta la
figura dell’androgino perfetto, poco meno che un’ossessione per lo
sceneggiatore. Bambini allattati da una cagna si sono già visti in Juan Solo e in almeno un romanzo, uno
scimmione guerriero c’era già in Diosamante,
i doppi speculari sono Les Jumeaux
Magiques, la figura paterna distaccata e crudele è una costante di alcuni
fumetti (e della biografia) dell’autore e in fondo il messaggio conclusivo di
pace universale è lo stesso dell’Incal.
Non ho apprezzato molto la svolta fantascientifica finale, quasi che Jodorowsky volesse razionalizzare quanto di ermetico e sovrannaturale si è visto fino a quel momento. Ma forse sono stato condizionato dalla lettura di qualcuno dei suoi ultimi libri (forse La Danza della Realtà ma non sono sicuro) in cui mi sembrava che cercasse quasi di delegittimare l’aspetto mistico di quello che aveva scritto e riportato in precedenza – ma è appunto solo una mia impressione.
Non so come Jodorowsky abbia lavorato insieme a Jérémy, ma considerando il suo non-metodo di scrivere le sceneggiature potrebbe darsi che certi passaggi risolti troppo rapidamente siano imputabili al disegnatore. Sicuramente voglio ascrivere a lui il pessimo gusto di aver fatto battere i pugni (o come diavolo si chiama quel gesto giovanile) tra Asiamar e il gorilla Beto dopo un combattimento, roba da fumetto Marvel indegna di un fumetto francese – tanto più se d’ambientazione storica.
I Cavalieri di Heliopolis è un fumetto decisamente buono: il suo ermetismo è accompagnato da molta azione e anche un po’ di umorismo (certo, l’umorismo di Jodorowsky), e riuscire a creare un fil rouge che unisse personalità e concetti così distanti nel tempo e nello spazio è stata una bella sfida vinta con classe. Ciononostante, non lo metterei tra le opere migliori di Jodorowsky, pur se è consigliatissimo a chi non ha ancora confidenza con l’autore.
Tornando al formato, credo che l’iniziativa della Panini sia stata azzeccata e permette di leggere una serie nella sua interezza con le dimensioni e la carta adatte. Certo, il prezzo è proporzionato: 28 euro. Ma se non funziona nemmeno questo formato non so come e se la Panini e altri editori continueranno a pubblicare BéDé in Italia.
Ahinoi, ZonaBéDé non scherzava. Fino all'ultimo ci ho sperato visto che il foglietto era ben nascosto.
Lo stile grafico di Guido Brualdi parte realistico ma diventa presto sporco e caricaturale, pur con un suo rigore: può ricordare vaghissimamente Tuono Pettinato. Il risultato è gradevole ed efficace e anche i colori sono dati con criterio e perizia. Forse in 24 pagine di fumetto avrebbe potuto mettere più carne sul fuoco, ma mi rendo conto che Via di qui volesse essere più la descrizione di certe suggestioni che non una “storia” vera e propria.
Come nel caso di Padovaland la quarta di copertina annuncia con toni quantomeno seriosi («Il desiderio di scoprire il mondo e la paura dell’ignoto si fondono in un racconto […] sull’amicizia e la scoperta di se stessi.») quella che in realtà è una commedia con al massimo qualche velatura agrodolce, che bisogna sforzarsi per cogliere.
In questo episodio molti nodi vengono al pettine. La magistrata che seguiva il caso del traffico d’armi viene uccisa e le prove fatte sparire. Ma in realtà non tutte sono state eliminate e grazie a un’ottima trovata degli sceneggiatori (Luca Telloli scrive insieme a Ruvo Giovacca come già succede da alcuni numeri) i documenti scottanti vengono rinvenuti dal giudice Nibbio che decide di contattare il colonnello Borea per procedere con delle indagini discrete. Nel mentre Peg elimina, forse definitivamente, la coppia di assassini che si erano visti 37 numeri or sono (!) e altre sottotrame vengono risolte. Il tutto con una narrazione scattante e dinamica che tiene incollati alle pagine e fa perdonare qualche refuso qua e là.
Ci sarebbe insomma di che essere più che soddisfatti, se non fosse per il solito problema: le uscite molto diradate de Il Morto non permettono di gustarsi appieno l’attenta architettura delle sue storie (chiamiamola pure continuity); io faccio fatica a ricordarmi chi sono i vari personaggi di contorno da un numero all’altro, figuriamoci quelli che sono comparsi su episodi di otto anni fa! Un breve riassunto o un elenco dei personaggi all’inizio dell’albetto potrebbe sopperire a questa situazione un po’ frustrante. Questo numero in particolare, poi, straborda di personaggi ed essendo alcune figure femminili molto simili può sorgere inizialmente qualche problema nell’identificarle. Inoltre non ho capito chi sia la «figura ambigua» del titolo, e l’esistenza del Fante di Spade attorno cui doveva ruotare questo ciclo ci viene ricordata solo dalla suggestiva splash page di Ermete Librato. Vista la concitazione di questo episodio, sembra quasi che sia stato ricavato dalla fusione di due episodi distinti.
Molto buono l’apparato grafico, in cui Piero Conforti è stato supportato da Adriano Imperiale (entrambi inchiostrati da Gianluca Francesconi ed “elaborati” dallo Studio Telloli). Credo che a Imperiale vadano ascritte le prime tavole in cui un buon dinamismo sopperisce a qualche leggera deroga all’anatomia. Da notare che oltre a una “citazione” a pagina 65 della copiatissima Helena dell’immenso Garcia Seijas (di cui non sono nemmeno sicuro al 100%) il killer della magistrata è Nick Raider, ripreso dalle sue pose più iconiche!
In appendice la storia breve Ciclo Perpetuo di Ruvo Giovacca in cui un mostro passa dodici tavole a divorare uccelli fino alla sorpresa finale. Ottimi i disegni dall’inchiostrazione “grassa” di Giuliano Bulgarelli, e ottima anche la qualità di stampa che permette di vedere le sfumature della china.
Purtroppo non avendo letto tutte le varie incarnazioni del supergruppo di freak sicuramente qualcosa mi sono perso, e la storia non è troppo accessibile per chi non ha un’infarinatura di quella continuity. In ogni caso, la vicenda prende le mosse con Casey Brinke, spericolata guidatrice di un’ambulanza, che come da manuale si trova ad affrontare situazioni sempre più assurde mentre i suoi ricordi d’infanzia sono ancora più assurdi. Non credo di rovinare la sorpresa a nessuno (dalle gerenze leggo che questa Doom Patrol è roba di circa quattro anni fa) se rivelo che l’impalcatura sottostante è che l’ambulanza di Casey altro non è che un’incarnazione di Danny the Street, la strada senziente creata da Morrison (credo…) che adesso è un intero universo in grado di generare i propri stessi abitanti: proprio per questo è ricercato da due gruppi di alieni che lo sfruttano per creare cibo a non finire. E così Danny si rivolge a Casey che altro non è che un personaggio dei fumetti che egli stesso aveva creato a “Dannyland” come ulteriore piacevolezza con cui intrattenere i suoi ospiti. La sua abilità è appunto quella di essere una guidatrice infallibile che può anche muoversi nel tempo.
Nel frattempo Larry Trainor si riunisce a Robotman e riacquista con un compromesso lo spirito negativo. Insieme a Flex Mentallo si uniscono a Casey per finire nel Nuovo Messico dove ritrovano anche Crazy Jane, adesso a capo di una setta che vuole cancellare le identità tramite una bomba. Ma non tutto è come sembra.
Il primo arco narrativo di sei capitoli scorre rapido e anche abbastanza piacevole, pur se ricicla la classica trovata dei doppi negativi. Nel settimo episodio i disegni sono affidati nientemeno che a Michael Allred (tranne che un paio di tavole) e torna Niles Caulder che si offre di guidare questa nuova Doom Patrol – prima Caulder si era solo intravisto in pagine singole estemporanee nei primi sei capitoli. La struttura di Doom Patrol è identica a quella di Shade: dopo un ciclo introduttivo di sei episodi ce n’è uno di transizione affidato a un disegnatore ospite e poi si riparte con un altro ciclo di cinque. In questo caso Gerard Way sviluppa quello che già aveva offerto in precedenza (la bizzarra inquilina di Casey ha sviluppato una sostanza che rende tutto buono e positivo, il gatto di Casey ritorna ma in forma umanoide, il figlio problematico del collega di Casey sviluppa poteri magici, ecc.) ma ci infila dentro un sacco di altra roba, rimandando anche a episodi precedenti di Morrison e di chissà chi altro. Fottuta continuity. E alla fine di un guazzabuglio che non tento nemmeno di riassumere tutto si rivela metanarrativo. Tutto calcolato sin dall’inizio, certo (a partire dal titolo del volume), ma non c’è molta soddisfazione a leggere che quello che si è letto “non è reale” o che comunque non deve necessariamente essere la norma da lì in avanti. E non bastano i molteplici riferimenti ai giochi di ruolo per blandirmi.
Nick Derington sfodera quello stile scarno e asciutto, con qualche morbidezza, che adesso sembra tanto di moda in America. Sarà sicuramente funzionale per i lavori della Tegelmeier o della Jamieson, ma non per quella che alla fine è l’ennesima storia di supereroi. Nel dodicesimo episodio lo stile diventa più corposo e ricco, probabilmente per merito dell’inchiostratore Jeremy Lambert (lavoro svolto in precedenza da Tom Fowler), ma non è che la qualità faccia poi chissà quale balzo in avanti.
Come nel caso di Shade la storia prosegue ancora, o almeno Gerard Way si è lasciato degli spiragli per continuarla. Non che questa Doom Patrol sia proprio brutta, ma tra le tante bizzarrie messe in scena “tanto per” e una struttura abbastanza ragionata ma pur sempre banalmente supereroistica, la cosa che ho apprezzato di più è il materiale che mi ha fornito per i Fumettisti d’Invenzione.
1 – i tre ragazzi (due maschi e una femmina) sono affetti da qualche patologia come deficit cognitivi o autismo ma fino a quel momento il lettore non se ne sarebbe dovuto accorgere (impossibile, perché il fascicolo è presentato proprio nell’ottica di evidenziarne le disabilità).
2 – i tre ragazzi sembrano essere affetti da qualche patologia come deficit cognitivi o autismo, ma alla fine si scopre che non lo sono (il casco che uno porta ancora addosso smentirebbe però questa lettura.
3 – i tre ragazzi sono in realtà la stessa persona (ma lo stile di Battestini non è molto realistico e non è facile capirlo, né avrebbe avuto senso delimitare fino alla fine le loro vignette con colori diversi per distinguerli).
4 – alla fine sono i tre ragazzi che osservano il lettore (il riflesso di quello centrale allo specchio non è ribaltato).
Il mistero si infittisce considerando che nell’introduzione si fa riferimento a cinque protagonisti mentre in questo fascicolo ce ne sono solo tre – non è un refuso: degli altri due vengono anche forniti i nomi. Sono sicuro che appena risolto l’arcano la cosa mi sembrerà evidente, nel mentre se qualcuno volesse aiutarmi…
Shade la ragazza cangiante è un’aliena di nome Loma che ha sempre avuto una passione per Rac Shade e tramite una tresca col custode del museo delle bizzarrie aliene è riuscita a prendere la sua Veste della Follia e a impossessarsi di un corpo terrestre, quello di Megan Boyer: una ragazza ormai morta cerebralmente dopo un “incidente” di qualche mese prima.
A quanto pare la ragazza di cui si è impossessata era una grande stronza, oltretutto dedita a festini a base di alcol, droga e sesso (essendo questo un fumetto statunitense, solo i primi due vengono mostrati). Da qui l’“incidente” per cui è entrata in coma. Il primo ciclo di sei è una specie di teen drama che vede tornare Megan/Shade al liceo e cercare di adattarsi alla nuova realtà, con la scuola e in generale tutto il pianeta Terra visti come una prigione. Frattanto su Meta, il pianeta di Shade, hanno inizio delle indagini per trovare la Veste della Follia (e i creatori del progetto originario non sono così innocenti come vorrebbero sembrare) mentre lo spirito di Megan cerca a sua volta di rimpossessarsi del suo corpo. La risoluzione di questo primo ciclo mi è sembrata un pochino affrettata.
Il secondo arco narrativo, sempre di sei capitoli, si concentra inizialmente sulla Loma “aliena” e sulla sua difficile vita su Meta, dove i bambini vengono assegnati non ai genitori biologici ma alle coppie che superano il test di genitorialità, come ci spiegò a suo tempo Peter Milligan (se già Ditko vi avesse accennato non lo so). Essendo un essere simil-uccello e tendente quindi alla libertà e al vagabondaggio, oltre che a impossessarsi degli oggetti luccicanti senza preoccuparsi di chi sono i proprietari, la sua infanzia e la sua adolescenza non furono felici nell’irreggimentato pianeta Meta. Anche qui ci sono però parecchi riferimenti da teen drama (o comedy, o quello che è), per poi virare dopo una sequenza forse memore di Carrie lo Sguardo di Satana in una trasferta a Gotham City! Nessuna apparizione di Batman, ma in compenso la nascita del desiderio di andare a “salvare” l’attrice di una sit-com degli anni ’50 che piace tanto a Shade. Questo porterà a un finale da commedia degli equivoci in salsa aliena (con qualche tragedia e una comparsata dello Shade originale), ma a quanto pare la serie continua.
Non che Shade la ragazza cangiante sia proprio un brutto fumetto. Cecil Castellucci ce la mette tutta per scrivere qualcosa di originale e di brillante ma la mancanza di un percorso chiaro e la necessità di inserire per forza sequenze psichedeliche poco convinte si fanno sentire: in definitiva la serie è piuttosto insipida.
I disegni di Marley Zarcone non sono malaccio, anche se sono molto scarni e la necessità di nascondere i capezzoli l’ha costretta ad alcune contorsioni nelle anatomie. Ogni tanto risulta un po’ più incisiva e modulata, quindi più efficace: immagino dipenda dall’occasionale inchiostrazione di Ande Parks.
Meglio comunque il lavoro di Marguerite Sauvage nell’unico episodio che ha disegnato e che ha funto da raccordo tra primo e secondo ciclo.
PS: «Sadie Hawkins» è una citazione da Li’l Abner o esiste davvero negli Stati Uniti?
...chi è interessato lo avrà saputo prima di me grazie a social che io non bazzico, e mi dicono che il mio blogroll abbia già assolto al compito - oltretutto l'obiettivo è già stato raggiunto! In ogni caso, qui sotto trovate il KickStarter per l'ultimo volume di Stirpe di Pesce:
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Quasi a celebrare il traguardo della quarta uscita, i fumetti di questo numero sono quattro: Luoisiana Patriots di Federico Cecchi e Renzo Lotti mette in scena una ricerca al sopravvissuto nelle paludi contaminate. La storia è molto articolata (dura ben 10 pagine), ci sono scene d’azione e personaggi pittoreschi ma il nucleo centrale è la rivelazione di cosa sono capaci le tute che l’esercito fornisce ai suoi soldati. I disegni di Lotti non sono ancora a un livello pienamente professionale, ma in qualche modo “funzionano”, almeno nelle giuste scene.
Vagare all’Infinito di Hannu Kesola e Todd Benstead è il flusso di coscienza di uno zombi londinese che vorrebbe tanto farla finita definitivamente. Più che una storia è la descrizione di uno stato d’animo, senza grosse sorprese che pure verso la fine sembrerebbero arrivare. I disegni di Benstead mi hanno ricordato certi comic book contemporanei dai toni dark. C’è un lodevole rispetto dell’anatomia ma anche un uso massiccio del computer.
Perfino un Uomo Puro… del solo Kesola è una gustosissima storiella dal finale fulminante. Niente male i disegni, che si rifanno sempre all’ambito dei comic book ma con uno sguardo (credo) agli anni ’70 e ’80.
Per finire 20 Gennaio di Alessandro Bacchetta, in cui in un universo distopico ultrarazzista due agenti del Recupero Manufatti Sovietici incriminano nientemeno che Charlie Mingus per il possesso di un disco proibito. Lo sviluppo è originale e divertente e anche lo stile di disegno di Bacchetta alla fine mi ha convinto anche se io preferisco il realistico.
A differenza del numero precedente, in questo l’appendice presenta due manifesti pubblicitari invece della moltitudine di finti annunci.
Non ha molto senso fare classifiche tra stili e atmosfere così diverse come quelli che sono passati sulle pagine di The Doomsday Machine, ma per me questo è il numero migliore – di una serie che comunque non ha deluso mai. Purtroppo questo quarto fascicolo è anche quello che ha avuto più intoppi a livello redazionale: nel primo fumetto la punteggiatura è un po’ incerta e nel secondo due didascalie riportano lo stesso testo (non credo fosse una scelta stilistica). Inoltre sempre in Louisiana Patriots mi sfugge il significato della frase «[…] un team di ingeneri [sic], sono invasivi ma lavano bene.»
Nemmeno stavolta viene indicato l’autore della copertina ma scommetto che è Officina Infernale.